Viaggio tra i misteri e le miserie di Palermo

del 10 Agosto 2012

Da Il Venerdì di Repubblica – 10 agosto 2012
Le celebrazioni avvelenate del ventennale di Falcone e Borsellino. Il default e la caduta di Lombardo. Il ritorno di Leoluca Orlando. E la trattativa. Cos’è cambiato e che cosa resta sempre uguale in Sicilia

PALERMO. Sarà ricordata, questa estate siciliana del 2012. Per le nervosissime celebrazioni del ventennale dell’agghiacciante estate delle stragi, l’unica guerra che gli italiani di oggi hanno vissuto. Perché, ormai, le parole Stato e mafia qui si leggono accoppiate. Perché la Sicilia è stata dichiarata la Grecia d’Italia, quella che può portarci alla rovina. Perché il governatore Raffaele Lombardo si è dimesso e a ottobre si terranno le prime elezioni della «Terza repubblica». Perché Palermo ha riportato al governo il vecchio ragazzo Leoluca Orlando, in ricordo di una stagione felice. Perché il fantasma di Paolo Borsellino è tornato a mettere terrore alle coscienze di tanti. Da vent’anni non ci sono più cadaveri eccellenti, in terra di Sicilia; e quindi molti erano indotti a pensare che la mafia non esistesse più, sempre che fosse mai esistita. Ma vent’anni, in fin dei conti una semplice unghiata nella storia, uno spartiacque tra chi è nato prima e o dopo le morti di Falcone e Borsellino, sono anche un periodo sufficiente per tornare a guardare Palermo, con gli occhi del tempo.
Il palazzo di giustizia. Tutti lo videro milioni di volte in televisione: aveva le garitte, i sacchi di sabbia, i cecchini. L’enorme palazzo era il fortino dove lavoravano gli eroi Falcone e Borsellino, attorniati da Corvi, Giuda, Spie, colleghi sussiegosi, contigui, oppure semplicemente pavidi.

Oggi il Palazzo, pur sempre addossato alle sgretolate e indecenti case del Capo, simili a caverne, si è raddoppiato con un’ala modernissima e chic. Il parcheggio è stato interrato, su una spianata di pietra sono stati posti alberi di mandarini, limoni e aranci, tutti morti perché nessuno si è ricordato di dargli acqua. Da questo nuovo palazzo è uscita la bomba: lo Stato italiano nel 1992 e nel 1993, sotto la minaccia di Cosa Nostra, trattò con la mafia; e adesso vecchi mafiosi e vecchi politici sono chiamati alla sbarra. È stata coniata la parola dell’anno: trattativa. Vent’anni fa, nessuno avrebbe neppure osato pensarla. Tutt’al più si alludeva a un fantomatico terzo livello, o ai soliti poteri occulti. Quando andò a processo Giulio Andreotti, il popolo italiano proprio non voleva credere che un uomo così popolare, così buono, così di buon senso, si fosse addirittura baciato con il Capo dei Capi. Lui, il Divo, durante le udienze spesso si addormentava.

Trovava il tutto abbastanza noioso, e aveva ragione; infatti, per non turbare gli italiani, la magistratura disse che non era vero niente, al massimo qualche peccato di gioventù. Oggi, dallo stesso palazzo, ci annunciano che i carabinieri erano a contatto con Cosa Nostra, quasi fossero una cosa sola, che i servizi segreti facevano il doppio lavoro, che i ministri della Prima repubblica Mannino, Mancino, Conso cedettero al ricatto della mafia e attenuarono il 41 bis per centinaia di pericolosi mafiosi. Che l’ascesa di Berlusconi avrebbe a che fare con i maneggi tra Dell’Utri e Cosa Nostra, ragion per cui lo stesso Berlusconi (forse per ricatto, forse per riconoscenza) pagò per tutta la vita milionate di euro al suo socio e amico, perché si dedicasse alla sua unica passione, la collezione di libri rari.

In quest’estate palermitana si sono visti un migliaio di ragazzi sfilare tenendo in mano un’agenda rossa come quella di Paolo Borsellino, quella che sono sicuri sia stata trafugata dai servizi perché, secondo loro, conteneva la «scatola nera» dei segreti della Prima repubblica; abbiamo visto un famoso magistrato, Roberto Scarpinato, commemorare Borsellino con una profezia: «Abbiamo processato gli intoccabili, uno stuolo di sepolcri imbiancati che nelle chiese si battono il petto dopo aver partecipato a summit mafiosi, e non ci fermeremo. Sanno che è solo questione di tempo perché un giorno alla porta dei loro lussuosi palazzi suonerà il vero Stato». Abbiamo visto, e questo non era davvero mai successo, una pesante campagna giornalistica che ha sparso sospetti di copertura di terribili segreti, addirittura sul capo dello Stato Giorgio Napolitano. E benché la Procura di Palermo si sia affrettata a dire che quei colloqui erano irrilevanti, innocui, di nessuna importanza, la calunnia è l’anima della politica italiana. Uno stagionato professionista del populismo come Antonio Di Pietro, probabilmente per non farsi superare dal collega Beppe Grillo, ha affermato: «Se fossi ancora magistrato, incriminerei il presidente».

Sul muro del palazzo di giustizia di Palermo oggi è appeso un grandissimo lenzuolo, gigantesco quilt, con le fotografie di cinquanta vittime palermitane – giudici, generali, investigatori, agenti di scorta – uccise dalla mafia nel secolo scorso. Ad aprire la serie è Joe Petrosino, il detective inviato da New York e ucciso in piazza Marina nel 1902. Il lenzuolo ogni tanto prende un po’ di vento e si gonfia come una vela. Sul retro dell’edificio un anfiteatro di pietra con i nomi dei magistrati uccisi incisi sui gradini su cui i ragazzini volteggiano con gli skateboard. La piazza, che brucia di caldo, è intitolata a Vittorio Emanuele Orlando, (grande?) statista italiano che sosteneva che la mafia non esisteva, ma se ci fosse stata lui sarebbe stato il primo mafioso.

Come dire, la toponomastica è sempre l’ultima a morire. I tempi sono lunghi in Sicilia, e a differenza di quanto si pensa, non sono galantuomini. Spesso è solo la letteratura ad anticipare. Sciascia raccontò nel 1959 che cos’era la mafia e soprattutto quello che sarebbe diventata. Nel 1966 Italo Calvino gli scriveva affettuoso e divertito: «I tuoi gialli sono fantastici ma non ti sembra che della Sicilia ormai sappiamo tutto? Questa Sicilia è la società meno misteriosa del mondo…

Delitti, passioni, pettegolezzi, rassegnazione, tutto è ormai stato classificato e catalogato». Lo mafia sparava, lo Stato non rispondeva al fuoco. Curioso, a ripensarci. Come se fossero sempre stati d’accordo. Vent’anni fa Giuliana Saladino commentò così la rivolta morale di Palermo: «Un lenzuolo contro la mafia è il massimo del paradosso, come dire una caramella contro la fame nel mondo, un’aspirina contro il tumore, una pezza contro il tritolo. Il bianco oggetto intimo che presiede alla nascita, al sesso, alla morte, così uguale e quotidiano, si è caricato di altri simboli, segna la volontà di esporsi e di riconoscersi».

Oggi veniamo a sapere che lo Stato non apprezzava particolarmente quei lenzuoli, aveva altro da fare. Trattava. E ora, cosa ci toccherà? Davvero si vedranno alla sbarra uomini dello Stato, vecchi signori fianco a fianco di Riina e Provenzano (quest’ultimo affetto da demenza senile)? Sarà accusato l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi che ebbe appena morto la medaglia d’oro per i meriti antimafia? Saranno chiamati i ministri Martelli e Scotti come testi d’accusa contro i carabinieri e l’ex ministro degli Interni? Quanti dei protagonisti saranno ancora vivi alla fine dei tre gradi di giudizio? E, poi, i dubbi. Se ci fu trattativa, il reato non dovrebbe essere alto tradimento o qualcosa del genere? E, in quel caso, il processo, non dovrebbe svolgersi a Roma? E come faremo con le amnesie, con i certificati medici? il rampollo Ciancimino, pezzo forte dell’accusa, ma lui stesso imputato, dirà la verità o continuerà a depistare? In realtà, tutta l’inchiesta ha un terribile buco nero, ed è proprio l’omicidio di Paolo Borsellino, intorno al cui ventennale è successo di tutto. L’accusa allo Stato lascia intendere che Borsellino venne ucciso perché ostacolo alla trattativa; e che la mafia fu semplicemente il braccio armato. Ma di questo argomento il prossimo processo di Palermo non potrà parlare, perché l’omicidio Borsellino spetta a Caltanissetta, dove i magistrati hanno avallato per quindici anni una pista falsa, quella del pentito Vincenzo Scarantino, costruita dal più stimato investigatore dell’epoca, Arnaldo La Barbera, e dai servizi segreti di Bruno Contrada, apposta per depistare e proteggere i veri assassini. La Barbera è morto da undici anni, Bruno Contrada è l’unico alto funzionario dello Stato a essere stato condannato in via definitiva per collusione con la mafia; i magistrati di Caltanissetta che hanno avallato tutto ciò (compresi dieci ergastoli a dei poveracci innocenti) non hanno auto alcun moto di ripensamento; e i loro colleghi di Palermo hanno molto rispetto per il loro ruolo e le loro funzioni. La grande inchiesta sulla trattativa nasce quindi aggrappata a questo mistero. Difficile che se ne liberi. L’inchiesta ha comunque prodotto un cambiamento del linguaggio e dell’interpretazione dei fatti storici. Ormai, senza scandalo, si sente affermare che Stato e mafia hanno in realtà sempre trattato, che sono nati insieme, che l’Italia non avrebbe resistito se non avesse avuto il contributo della mafia alla sua economia e che quindi, in fin dei conti, quello che successe nel 1992 fu dovuto semplicemente a una certa concezione della ragion di Stato. Per esempio, un prezioso saggio (Attentato alla giustizia, Rubbettino, pp. 282, euro 16), scritto da Piergiorgio Morosini, gip a Palermo (arrivò giovanissimo da Modena, giudice ragazzino, subito dopo le stragi), ha analizzato decine di casi di utilizzo della mafia da parte dello Stato fin dai tempi dell’Unità d’Italia. Per cui i fatti del 1992 non sarebbero un’eccezione. Con una notizia in più: la ricostruzione di un caso dimenticato. L’ultima vittima della trattativa viene indicata nell’avvocato Enzo Fragalà, deputato di An ucciso a bastonate nel 2010 a Palermo. Da un po’ di tempo – ricostruisce Morosini – Cosa Nostra si lamentava di tutta una serie di avvocati diventati deputati, che non facevano quello per cui erano stati eletti. Inquietante scoprire come le vie della trattativa possano essere diverse. Se consideriamo questa chiave di lettura (una trattativa continua, rotta da qualche momento di guerra), anche l’andamento della politica siciliana ci appare in un’ottica diversa. Per esempio: oggi abbiamo il governatore Lombardo, dimesso perché accusato di aver costruito la sua carriera politica con l’appoggio elettorale del terribile clan catanese di Nitto Santapaola; ma prima di lui c’era Totò Cuffaro (oggi in galera), che era stato scelto dalle cosche come loro rappresentante. E, prima ancora, un dimenticato Rino Nicolosi, democristiano, che aveva razionalizzato la distribuzione delle mazzette a Cosa Nostra. E poi c’era l’ancora più dimenticato Giuseppe Provenzano, stimatissimo professore universitario di Finanza, che, nel tempo libero, compilava l’Irpef per la moglie del suo omonimo boss Bernardo Provenzano (risultava sempre in credito d’imposta, beata lei). E, quindi, non sarà per caso che la condizione della regione Sicilia, con la sua miseria e il suo dissesto, con i suoi favolosi forestali, le legioni dei suoi dipendenti, i loro vitalizi, le consulenze, la spesa sanitaria gestita più o meno come quella di Daccò e Formigoni in Lombardia, abbia qualcosa a che fare con la questione mafia?

Quasi ingenuamente si è posto la questione il presidente del Consiglio Mario Monti, quando ha intimato a Lombardo di andarsene, prima di trascinare l’Italia nel default. È la prima volta che un fatto del genere succede, forse perché Monti è un tecnico, forse perché l’Europa si è stufata di noi, dei nostri politici e dei nostri mafiosi. E ci fanno capire che la mafia non è un accidente, è una scelta, di cui dobbiamo pagare le conseguenze. E quindi le prossime elezioni siciliane di ottobre saranno veramente un banco di prova. In vent’anni i partiti politici in Sicilia sono praticamente crollati. Prima gli eredi del Pci, ridotti ormai a un sette per cento e divisi in correnti. Poi i berlusconiani, che furono mattatori con il famoso 61 a 0, e oggi ondeggiano intorno al dieci per cento.

In mezzo, un inquietante «movimento dei forconi», che alcuni mesi fa ha bloccato tutta la Sicilia chiedendo la benzina senza tasse e minacciando la secessione. Era spontaneo? Era guidato dalla mafia? Nessuno ancora adesso lo sa dire. Il prossimo governatore? I bookmakers danno ben piazzato Rosario Crocetta, ex sindaco antimafia di Gela, comunista, gay e cattolico, ma ogni sorpresa è possibile. La Sicilia fabbrica candidati e partiti a grande velocità. Chi ha vinto in vent’anni di trattativa? Lo Stato sicuramente, perché la mafia non ha mai più ammazzato un suo rappresentante. La mafia, sicuramente, perché il suo metodo di governo (intimidazione e corruzione) ha risalito la penisola come la famosa palma di Leonardo Sciascia. Il ponte sullo Stretto, che la mafia voleva, non si farà più, ma tutto il resto è sempre peggio: le fabbriche chiudono, i rifiuti non si raccolgono, il pizzo lo pagano tutti (tanto è vero che esiste un’associazione Addio Pizzo), il Pil crolla, l’unica fabbrica che funziona è quella dei voti (su cui si reggono le elezioni nazionali), don Puglisi, ucciso nel 1993, è diventato beato e primo martire antimafia della Chiesa cattolica, a Palermo tremila persone dormono in macchina, alla Kalsa applaudono il cantante neomelodico Raffaello che fa gli auguri a tale Beppe mitra, capomafia in galera (e che doveva fare, Raffaello? Rifiutarsi?). Il segno più evidente della trasformazione della città non è però nel palazzo di giustizia o nella politica. Sono i tre colossali centri commerciali sorti in città. Il Forum al quartiere Brancaccio, la Torre a Borgonuovo, la Conca d’oro allo Zeno Smisurate macchine da soldi. Hanno distrutto i piccoli negozi e i mercatini. Pagano il pizzo? Non si sa. Prendete il quartiere Brancaccio: era il regno dei fratelli Graviano, gli assassini di don Puglisi e di Borsellino. Se c’è il centro commerciale più grande d’Italia sul loro territorio, vuol dire che la mafia non esiste più? O no? Incontro Giuseppe Barbera che, trent’anni fa, giovane assistente universitario, si occupava di migliorare la coltura dei mandarini nelle terre di un gentiluomo, che poi venne a sapere era il Papa della mafia. Si chiamava Michele Greco, è morto in galera leggendo la Bibbia. Oggi Barbera è assessore della nuova giunta Orlando e porta avanti l’unico progetto realistico per l’economia palermitana: rimettere a coltura centinaia di ettari di agrumeto che erano la forza e la bellezza della Conca d’oro. Ripiantare la vera palma da dattero, dopo che diecimila palme delle Canarie sono cadute in città sotto i colpi del punteruolo rosso, il coleottero che ha fatto più danni dei corleonesi. Ci riuscirà? Lui pensa che si possa fare. In fin dei conti la città è piena di risorse. All’ultimo festino di Santa Rosalia, trecentomila persone in estasi guardavano un gigantesco elefante di cartapesta trainato dai ragazzi di Addio Pizzo e seguito dalla comunità Tamil, i disabili sfilavano abbracciati a giocatori di rugby, i ghanesi inneggiavano a San Mario Balotelli e quando Leoluca Orlando è salito sul carro della santa e ha gridato «Viva Palermo e Santa Rosalia!» è stato accolto da un entusiasmo, diciamo così, pagano. «Invito tutti a non fare dei giudici un’icona, o un alibi», mi ha detto Antonio Ingroia in partenza per il Guatemala. C’era una tranquilla, onesta, ammissione dei limiti di ciascuno nelle sue parole e un grande amore per la sua città. Il problema – e il rischio – con Palermo, è di amarla. E anche di voler sapere la verità. Come andrà a finire? Ah, questo per lo meno si sa: non finirà mai.

 

Di Enrico Deaglio

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