‘Come al cinema’ di Hannelore Cayre. Piccola fiaba giudiziaria tra straniamento, scene madri e paradossi (ottoetreta.it)

di Daniela Lucia, del 22 Settembre 2015

Da ottoetreta.it 22 Settembre

E se la giustizia non fosse altro che l’ennesima messa in scena di uno spettacolo che non si rinnova mai, dove a influenzare il giudizio è l’appeal più o meno affabulatore del primo attore? Se in un processo avessero maggior peso le intuizioni e le convinzioni personali piuttosto che l’effettiva innocenza o colpevolezza dell’imputato? Cosa accadrebbe se, come al cinema, bastasse rimanere comodamente seduti in poltrona e lasciar scorrere innanzi agli occhi la propria vita e quella altrui, in un’ordinaria sequela di ripensamenti, rimpianti, speranze, ambizioni e piani sequenza stagnanti? Questi gli interrogativi che Hannelore Cayre, scrittrice, regista e avvocato penalista francese, sembra voler proiettare sul lettore con la sua intensa piccola fiaba giudiziaria dal titolo Come al cinema uscita per i tipi di Rubbettino editore lo scorso aprile.
Giovane e affascinante rapinatore di banche, Abdelkader Furier si trova a Chaumont, località dell’Haute Marne, per affrontare il processo a suo carico. Sullo squattrinato ragazzo, che ha dalla sua oltreché un’eclatante avvenenza solo Jean e Anne Boylé, coppia d’avvocati di grido, incombe la pena all’ergastolo pretesa dal presidente della Corte d’assise, il temuto e implacabile ‘macellaio dell’Haute Marne’. Le ragioni di un simile accanimento sono da individuare nelle contraddizioni culturali e sociali delle quali il giovane rapinatore, figlio di madre algerina e padre normanno, è veicolo. “Là dove un osservatore parlerebbe di una giustizia secondo il colore della pelle del soggetto, il vecchio vedeva una sana misura di profilassi sociale. […] Quel povero ragazzo, quell’essere incomprensibile che rispondeva al nome di Abdelkader Furier, avrebbe senza dubbio buscato, a tamburo battente, la pena massima, con l’unanimità dei dodici giurati guidati dalla grande verve di Anquentin”.
Intanto, mentre a Chaumont si schiera la coppia d’assi dell’avvocatura parigina, poco distante, ospite di un semisconosciuto festival del cinema sulla Resistenza, dà mostra di sé e della propria malandata esistenza Ètienne Marsant, attempato divo del grande schermo, pieno di acciacchi e di questioni irrisolte, con l’inquietante timore della morte alle calcagna. “Una paura panica, sul genere di quella che vi fa nascondere sotto i sassi del vostro acquario purché Dio soprattutto non vi noti più”. L’incontro tra i due principi del foro e la vecchia gloria del cinema nazionale condurrà alla messa in scena di un finale imprevedibile, dai risvolti paradossali e assurdi che non mancheranno di regalare al lettore intensi attimi di genuino divertimento. Hannelore Cayre mette quindi in scena ciò che conosce meglio: il cinema e la giustizia. L’autrice allestisce un set di caratteri spigolosi, luci soffuse e colori caldi che si alternano mostrando le molteplici angolazioni di una umanità esasperata, chiamata a fare i conti con l’assurdo cinismo della vita quotidiana.
La giustizia diviene uno spettacolo il cui gradimento sarà il termine di salvezza. I buoni sentimenti sono messi al bando, ciò che conta è solo l’illusione che il bello sia qualcosa che possa durare in eterno, in uno show che deve continuare nonostante i protagonisti si sentano ormai estranei ed esausti.
Dunque, cos’è la giustizia se non uno schermo nel quale il bene e il male si alternano strizzando a turno l’occhio allo spettatore? E quest’ultimo, comodo nella propria poltroncina, potrà quindi seguire la piccola fiaba giudiziaria, dalle venature nere e dai richiami camusiani, fino a che il sipario non calerà in maniera definitiva, lasciandosi dietro l’ironia di un racconto che ha avuto l’ardire (e il merito) di aver saputo illustrare brandelli d’esistenza con toni leggeri, puntuali, ma mai superficiali. Non rimarrà che l’attesa dei titoli di coda, come al cinema, appunto.

Di Daniela Lucia

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