La vera storia degli 007 inglesi: una vita per difendere la regina (ilgiornale.it)

di Matteo Carnieletto, del 14 Giugno 2020

“Un vodka Martini: agitato, non mescolato”. Tutti noi, una volta nella vita, abbiamo sognato di vivere come James Bond e di trascorrere lunghe notti all’interno di un casinò giocando a Baccarat e fumando miscele di tabacco accuratamente selezionato.

O, per chi non tollera il fumo e il gioco, di sfrecciare su una Aston Martin DB5 e di svegliarci su spiagge tropicali accanto alla Bondgirl di turno. Questa, però, è solo la scorza, la parte più esterna (e non sempre concessa), della vita di un agente segreto. Gli smoking e l’avventura nascondono infatti la vera vita di uno 007, i suoi sacrifici, il suo spirito di adattamento e, soprattutto, la sua volontà di mettere il bene del Paese al di sopra di tutto. Anche della morale, ovvero di ciò che è giusto o sbagliato, come spiega George Kennedy Ypung, ex vicedirettore dei servizi segreti esterni britannici: “Le azioni del governo non sono delle scelte tra il bene e il male. Sono delle scelte tra due mali, ovvero il minore dei due. Qualcuno rimarrà sempre vittima di una decisione del governo (… e) la moralità assoluta, così come l’etica assoluta, non esistono negli affari dello Stato”.

Ma come agiscono i servizi segreti di Sua Maestà? Ce lo spiega Stefano Bonino, nel suo Sicurezza e intelligence nel Regno Unito del Novecento, edito per i tipi di Rubbettino. Un volume che ripercorre l’ultimo secolo di storia degli 007 britannici. E qui è necessaria una prima precisazione: come è noto – e come accade in gran parte dei Paesi occidentali – esistono due tipi di agenti: quelli impegnati sul fronte interno, che in Gran Bretagna dipendono dall’MI5, e quelli che si occupano del fronte esterno e che sono legati all’MI6. Spesso, le due agenzie hanno collaborato, in particolare durante la Guerra fredda per arginare la minaccia dell’Unione sovietica e continuano a collaborare (per esempio sul fronte dell’antiterrorismo).

Londra ha avuto (ed ha tutt’oggi) un nemico fondamentale: la Russia. Dai tempi del “Grande gioco”, per usare la fortunata espressione di Peter Hopkirk all’avvelenamento di Sergej Skripal, le due potenze si sono fronteggiate a suon di spie. Uno dei casi più eclatanti è quello delle “Cinque stelle di Cambridge”. Tutto inizia nel 1933, quando Kim Philby, all’epoca studente della prestigiosa università britannica, venne reclutato prima dall’intelligence sovietica e poi, nel 1940, dall’MI6, grazie a Guy Burgess, un’altra spia di Mosca. Tragica ironia, Philby diventa il capo del reportarto di controspionagio che ha come obiettivo quello di fronteggiare la rete comunista in Europa. Scrive Bonino: “Nel 1949 fu mandato a Washington come capo dell’MI6 negli Stati Uniti e come raccordo fra i servizi segreti britannici e quelli statunitensi. Un anno dopo passò all’Unione sovietica informazioni su piani occidentali di formare gruppi armati in Albania e ne causò il fallimento”. Ma non solo. Prosegue infatti l’autore: “Avvisò Burgess e un atro funzionario, Donald MacLean, spie dei sovietici nel governo britannico, che erano sospettati di fare il doppio gioco e, con le sue rivelazioni, ne facilitò la fuga in Unione sovietica nel 1951”. Poco alla volta, però, i servizi segreti britannici capirono che, dietro ai colpi messi a segno dall’Urss, si nascondeva la mano di Philby e di altre quattro persone, i già citati Burgess e MacLean, e Anthony Blunt e John Cairncross. Insieme, formavano le Cinque stelle di Cambridge, il gruppo di spie che più riuscì a metter in crisi l’intelligence britannica.

Anche oggi, a oltre cento anni dalla fondazione, i servizi segreti britannici rappresentano uno dei pilastri della Corona. La Brexit, ormai alle porte, apre nuovi scenari. Che le spie di mezzo mondo sono già pronte a sfruttare…

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