L’ombra lunga di Levi (ospiteingrato.unisi.it)

di Marco Gatto, del 28 Giugno 2021

Giuseppe Lupo

La Storia senza redenzione

Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli

Si deve a La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli, l’ultimo e recente libro dello studioso e scrittore Giuseppe Lupo, un interessante tentativo di ricognizione critica della letteratura meridionale e dei suoi problemi di fondo. Non c’è dubbio che il testo tocchi i nodi più importanti e delicati del rapporto che intercorre, lungo il Novecento, tra rappresentazione letteraria, questione meridionale e coscienza storica. Lupo costruisce ipotesi storiografiche, sostiene in modo caparbio tesi certamente nuove e tenta una ricostruzione che arriva ai nostri giorni. Dal momento che è in gioco una proposta storico-interpretativa, sarebbe fin troppo sterile imputare all’autore l’esclusione di questo o di quello scrittore, di questa o di quella temperie culturale, di questo o quel dibattito critico. Di fronte a un libro che apertamente parteggia per una certa idea di letteratura e per una certa lettura della questione meridionale, non si può cadere nel vizio di una critica da registro d’appello o da indice dei nomi, che si limita a valutare assenze e presenze. Né ci si può concedere il lusso del giudizio affrettato e impressionistico, che si tradurrebbe troppo presto in polemica occasionale. Ragione per cui, facendo indubbiamente torto alla ricchezza del testo, isolerò una serie di problemi per evitare il rischio della genericità.

Si può partire dalla diagnosi storico-letteraria che ricorre costantemente nel libro. Per lo studioso, il limite della narrativa meridionale sta tutto nella sua perdurante identificazione con una letteratura della denuncia e della rinuncia, con una letteratura cioè tesa a certificare la presenza nel Sud di insanabili e laceranti contraddizioni, nella convinzione che non si possano formulare concrete alternative. Nella ricostruzione proposta, assistiamo in tal senso a una sostanziale resa dei conti con il modello che più di tutti, a parere di Lupo, ha contribuito, lungo il Secondo Novecento, allo sviluppo di una modalità espressiva orientata ad evidenziare il peso della marginalità e il suo costitutivo immobilismo: vale a dire, quel Cristo si è fermato a Eboli che, pubblicato nel 1945, ha certamente imposto una visione culturale, politica e antropologica ben definita della realtà meridionale. La verifica critica del consolidato magistero di Carlo Levi è collegata, del resto, all’idea di fondo che anima l’intero sondaggio di Lupo e che potrebbe essere così riassunta: una certa narrativa di documentazione e di protesta, anzitutto legata alla rappresentazione del mondo contadino, avrebbe prodotto una visione statica dei processi sociali – trovando nel verismo e nel filone del romanzo antistorico (secondo la definizione di un noto libro di Vittorio Spinazzola) un precedente pessimistico di interrogazione del reale e delle sue trasformazioni –, col risultato di ostacolare o addirittura escludere dal gioco delle possibilità espressive l’emersione di una letteratura più orientata alla progettualità progressiva e utopistica, alle opportunità di modernizzazione e all’intraprendenza tipica dello spirito borghese.

Dico subito che questa mi sembra la tesi più interessante (e discutibile) del libro, nonché il vero centro attorno a cui ruota la proposta di Lupo. Nel suo assunto generale, l’argomentazione dello studioso ha il merito di evidenziare e richiamare un dato considerevole e specifico: il Cristo leviano, imponendosi nell’immediato Dopoguerra come modello letterario e antropologico pressoché inaggirabile, avrebbe dato vita a un paradigma meridionalistico fondato sull’idea di una sostanziale stazionarietà della classe contadina, speculare alla sua mitizzazione, e avrebbe permesso, sul versante letterario e antropologico, l’estenuazione di atteggiamenti arcadici, nostalgici, talora manieristici, spesso nichilistici ed estetizzanti, in virtù dei quali il Sud ha potuto candidarsi a rappresentare, nel senso comune e nell’immaginario più diffuso, il luogo privilegiato di un nostrano esotismo, persino per chi quelle terre, abitandole, provava a interrogare. Come ha mostrato Nelson Moe in un fortunato libro di qualche anno fa, Un paradiso abitato da diavoli, la realtà meridionale è stata storicamente oggetto di formulazioni libresche e di rappresentazioni viziate. Per mezzo di questa accumulazione originaria di stereotipi, che rimonta almeno al Settecento, l’immagine di un Meridione come “Oriente interno” ha trovato, nella particolare contingenza delle lotte per la terra e negli anni della ricostruzione postbellica, una sua giustificazione, così partecipando alla più generale edificazione di un immaginario nazionale a due velocità (un Nord freddo e produttivo; un Sud caldo e intorpidito). Partendo da questo presupposto, Lupo può praticare una prima e interessante interpretazione storiografica. L’egemonia del levismo, a parere dello studioso, impone una linea di pensiero che, riducendo la questione meridionale alla questione contadina, giocoforza trascura altre direttrici e altre porzioni sociali (anzitutto, per Lupo, il mondo dell’artigianato). Agli scrittori meridionali non resterebbe dunque che la rappresentazione di una realtà parziale, per certi aspetti attingibile solo attraverso l’esperienza dell’arcaico e l’esercizio di un registro mitico, nostalgico e arcadico. E, come per ogni egemonia che si rispetti, una residualità contrastiva, sebbene fioca, sarebbe accordata a quelle isolate proposte letterarie capaci di fuoriuscire dal paradigma leviano, magari guardando con occhi diversi alla modernità e preferendo alla declinazione rurale quella urbana.

Pur condividendo in larga parte la diagnosi secondo la quale il levismo abbia prodotto una lettura parziale e riduttiva della questione contadina (proprio perché la avrebbe assolutizzata), la posizione di Lupo suscita alcune perplessità. Partiamo da quelle più strettamente storiografiche. Evito di cadere nella più facile delle obiezioni, che sarebbe poco pertinente: Levi non è solo l’autore del Cristo e il levismo pone in gioco una più complessa immagine dell’Italia postbellica. Preferisco difatti riflettere sull’opportunità di articolare un nesso stringente tra l’immagine statica della civiltà contadina proposta dal celebre confinato e il concetto che più di tutti lega lo scrittore torinese alla radice ideologica e al contrassegno di classe del suo agire politico (l’azionismo), ossia il concetto di “autonomia”. Perché è l’idea di un’autodeterminazione della civiltà contadina ad aver permesso la saldatura tra una prospettiva immobilistica, e anzi, per meglio dire, “distintiva” di una porzione sociale storicamente isolata (i contadini) e un rinvigorimento di istanze letterarie più sensibili alla mitizzazione dell’arcaico e del magico-popolare, nel solco del quale non andrebbe trascurato il peso di una lotta tutta interne alle sinistre (il Pci operaio, da un lato; il Psi contadino, dall’altro). Saldatura il cui esito, di fatto, si riassume nell’esclusione dei contadini medesimi o, per dirla con Gramsci, dei subalterni, da concrete possibilità culturali di autorappresentazione e da reali prospettive di fuoriuscita dalla minorità politica (in tal senso, il Cristo rappresenta, a mio parere, un passo indietro rispetto a Fontamara, nelle cui pagine Silone poneva il problema dell’autocoscienza storica delle masse subalterna e il tema della loro organizzazione). Il paradosso del levismo sta in questo, certamente ambiguo e probabilmente involontario, conservatorismo intellettuale. Che si traduce, in regioni socialmente mutilate e disgregate come la Calabria e la Basilicata, dopo gli ultimi, non trascurabili sussulti di realismo popolare (un punto limite è, per citare un caso calabrese, l’importante Sole nero a Malifà di Sharo Gambino, uscito nel 1965), nella persistenza di una letteratura fatta di individualità isolate, spesso più legate al culto di una qualche bellettristica ambizione estetica che a una pur blanda partecipazione civile (magari orientata all’emancipazione culturale delle classi popolari, su cui innervare una proposta etico-valoriale di ampio respiro), e presto convertitasi, in anni di pervasivo consumismo culturale, in un’apolide produzione di testi e di proposte servili al gusto più diffuso. Una letteratura, insomma, che, sì, certamente, sconta la storica assenza di una borghesia illuminata e di una classe intellettuale più o meno coesa, ma che è tale proprio in ragione di un mancato processo di emancipazione collettiva, ostruito in buona parte da quei ceti abbienti che, specie dopo il fallimento della riforma agraria, hanno preferito la strada del quietismo e del compromesso moderato, e dunque il mantenimento di quella “grande disgregazione sociale” che Gramsci indicava come carattere costitutivo del Mezzogiorno, lasciando spazio solo all’iniziativa individuale e al lavoro culturale solitario.

Come dirò a breve, bisogna considerare le trasformazioni della società meridionale per dar conto di quel vuoto letterario che viene a costituirsi dopo le lotte per la terra e che non può essere spiegato attraverso una rivalutazione di quei pochi intellettuali sensibili alla civiltà delle macchine (e non al richiamo del mondo contadino) o attraverso la valorizzazione di un affluente narrativo meno pessimistico e più utopistico, secondo il programma esposto da Lupo. Sul quale tornerò a breve, non prima di suggerire – questa volta in accordo con la diagnosi generale dello studioso – che la visione paralizzante e autonomistica diffusa dal levismo, e potenziata da una generale attitudine nostalgica e arcadica degli scrittori meridionali (che Pasolini estendeva ai poeti), si è in realtà mostrata assai invasiva e capace di egemonia, se da essa non solo discende uno stallo nell’immaginario narrativo, ma anche l’idea, che si affaccia a partire dagli anni Novanta, anzitutto sulla spinta del pensiero meridiano formulato da Franco Cassano e grazie alla penetrazione del culturalismo di matrice anglosassone, di un Meridione in grado di pensarsi e rappresentarsi secondo un’interpretazione non allogena, bensì propria e caratterizzante, cioè non proveniente dalle categorie imposte da altri. Un’idea, questa, che, sorta senza dubbio come raffinata e generosa riproposizione della questione meridionale, non solo penetra fortemente nel senso comune, ma che rischia di aderire a un tempo che, sul lungo periodo, ha fatto dell’essenzialismo geografico e del separatismo culturale il presupposto di quel nuovo discorso autonomistico che è alla base della crisi politica del nostro Paese e che ha condannato le regioni del Sud e i territori più poveri a una persistente frammentazione sociale. Agli incantesimi del concetto di autonomia differenziata risponde l’inganno di autorappresentazioni per paradosso sempre più gestite dall’alto (per non dire dall’industria culturale, come nel caso della pubblicistica neoborbonica) e sempre più segnate dal populismo.

Tuttavia, alla mitologia ruralista, al culto della lentezza e all’estetizzazione del Meridione, non si può rispondere, a mio parere, con un’opposta e speculare mitologia urbana e progettuale, non foss’altro che per il carattere passivo della borghesia meridionale. Lupo sostiene che il «radicalismo ideologico»1 dovuto all’egemonia culturale inaugurata da Levi abbia escluso dalle rappresentazioni letterarie altri ceti, come quello degli artigiani e dei commercianti, una cui considerazione avrebbe condotto la letteratura oltre l’ossessione della denuncia, verso uno spirito più propositivo e imprenditoriale. Imponendo il tema contadino su tutti gli altri, Levi avrebbe dunque vinto su Vittorini, per usare l’esemplificazione dell’autore. E i riflessi di questa vittoria della narrativa di denuncia sopravvivrebbero, sostiene Lupo, nei «paradigmi oggi cari a Roberto Saviano»,2 nell’attenzione rivolta alle contraddizioni laceranti delle terre oltre Eboli, ossia negli schemi di una proposta letteraria ancora fedele ai registri del realismo critico, in cui il “negativo”, restringendo l’orizzonte del possibile, metterebbe in ombra qualsivoglia tensione utopistica.

Ma è davvero così? Si può tracciare una distinzione così netta senza considerare le trasformazioni sociali e di classe nel frattempo intervenute? Volendo restare in ambito culturale, la persistenza di una vocazione alla denuncia o alla geremiade può valere come elemento distintivo di una linea letteraria che, supponendone l’origine da Verga, avrebbe imposto l’idea di un Sud senza redenzione, condannato alla non-storia e all’immobilismo? E lo spirito della denuncia estromette necessariamente lo spirito dell’utopia? Ci sono troppe eccezioni a questo schema interpretativo, specialmente se vogliamo vedere, come propone Lupo, già in Verga (un Verga però fin troppo semplificato) il punto di partenza di un’attitudine pessimistica. Ne cito alcune, per arrivare a dire, in soldoni, che le traiettorie letterarie, specie in un quadro così largo di fenomeni, non configurano scelte autonome e non sopportano definizioni binarie (linea rurale versus linea urbana; linea spagnola versus linea angioina, per usare i termini di Lupo), bensì dipendono dalla composizione sociale, sempre complessa, delle formazioni umane e dalle situazioni locali da cui i testi emergono. Pena la caduta in una sorta di essenzialismo critico che distingue troppo facilmente un fenomeno dall’altro. La letteratura di denuncia è, in qualche caso, capace di mostrare l’estrema mobilità delle società rappresentate, proprio in virtù del punto di vista di classe che lo scrittore incarna in una determinata contingenza. E non è poi detto che una letteratura altrimenti progettuale, magari utopistica, sappia cogliere meglio le trasformazioni del reale. Sarebbe forse quest’ultima una letteratura più tradizionalmente riconoscibile (“letteratura-letteratura”, perché altamente creativa, come qualcuno direbbe) di quella ibrida (al limite del “non-romanzo” e del “non-letterario”, per gli amanti del nominalismo) che abita nei testi di Saviano e altri? E, ancora, non può forse darsi che il miglior realismo spesso coincida con la migliore utopia? In più, volendo restare al Secondo Dopoguerra, l’isolamento costitutivo degli scrittori ruralisti non è poi dissimile dall’isolamento costitutivo degli scrittori più attenti alla modernizzazione: entrambi appartengono a una variegata e stratificata classe sociale, la borghesia meridionale, che non ha realizzato nessun proposito di universalizzazione illuministica, come aveva già ampiamente dimostrato Ernesto de Martino e come la storia del Sud continua a mostrare specie nei momenti di crisi politica e istituzionale.

Per fare un esempio, nel romanzo La famiglia Montalbano, scritto tra il 1939 e il 1945, ma pubblicato solo nel 1972, Saverio Montalto dà vita alla prima rappresentazione letteraria della mafia calabrese. Lo fa attraverso un registro che deve molto al realismo, ma anche alla potenza del sarcasmo, e che fra i suoi esiti più alti trova il rovesciamento dell’ideale manzoniano di redenzione. L’orizzonte di salvezza possibile si chiude in quel che si potrebbe descrivere, in modo troppo semplificato, come un pessimismo storico di matrice verghiana. Ciò tuttavia non segnala un limite. Perché appunto permette a Montalto di restituire la sottile complessità di un microcosmo sociale in cui non esistono né buoni né cattivi, né dannati né redenti. L’urgenza di tale rappresentazione realistica coincide, piuttosto, con la necessità di evidenziare una storia sociale in movimento, che, in virtù del suo stesso raffigurarsi come perpetuo succedersi di possibilità mancate o realizzate, non ha bisogno di tradursi in richiamo utopico a una qualche alternativa o a un qualche elemento provvidenziale.

Per considerare un altro caso, forse più paradigmatico, si pensi alla parabola politica e artistica di Rocco Scotellaro, ritenuto (a torto) come l’erede più diretto di Levi. Già sul finire degli anni Quaranta, dopo l’esperienza traumatica di sindaco e di esponente del Partito socialista in Lucania, Scotellaro sente pressante l’esigenza di un rapporto più diretto con la realtà contadina e con la complessità delle lotte per il lavoro. Nell’inchiesta incompiuta sui Contadini del Sud, nata dall’esperienza di Portici, il concetto di immobilità storica, assieme alle tensioni autonomistiche, lascia il passo a una considerazione analitica di un mondo contadino tutt’altro che marmoreo, anzi attraversato da spinte ideologiche varie (perfettamente riassunte dalla figura-chiave di Michele Mulieri). La rappresentazione letteraria non rinuncia a se stessa, ma ha bisogno di accedere all’inchiesta sul campo, di forzare i suoi limiti: la voce di Scotellaro diventa quella dell’osservatore partecipante che sceglie la “mediazione” complessa e fruttuosa con l’esperienza verbale dei suoi interlocutori, e che dunque evita un registro letterario di univoca riconoscibilità, aprendo così a nuove possibilità espressive, lontane da quelle, sentite come sclerotiche, del racconto ruralista. Si tratta di una fuoriuscita dal paradigma leviano che proviene dall’inevitabile contrasto sorto tra la lezione del Cristo e l’evidenza della magmatica realtà che si muoveva davanti al sindaco di Tricarico. E si tratta di un’esperienza da cui ricavare l’idea che le esigenze di rappresentazione – quando legate a necessità di comprensione e trasformazione della realtà – siano il risultato di una scelta politica che riguarda il modo con cui ci si rapporta a problemi d’ordine storico e materiale. Le modalità espressive, insomma, sono sempre una conseguenza, mai un primum. Al contrario, Lupo ha fiducia in una narrativa capace di spazi di autonomia e trova dannosa una letteratura che «segue la realtà anziché anticiparla, rimodularla, prepararla». L’«effetto nocivo» della narrativa di denuncia consiste allora nell’accantonamento dell’idea di un «primato» della letteratura «sulla realtà» – primato «che contraddistingue da sempre la sua funzione come gesto epico e progettuale».3 Non si può non rilevare in queste posizioni un idealismo di fondo che rivela la matrice ideologica entro la quale Lupo si muove in modo assai esplicito.

Inoltre, se un’alternativa possibile al “levismo” si riassume, sul modello di Scotellaro, nell’incontro diretto con la realtà, nella fatica della mediazione con quest’ultima, nella sua successiva traduzione letteraria, e dunque nell’approdo a una forma che non sia quella del romanzo tradizionale, ciò vuol dire che l’opposizione tra una letteratura meridionale antistorica e pessimistica e una letteratura progettuale e utopistica rischi i pagare un tributo troppo alto alla semplificazione (da questo punto di vista, come non ritenere riduttiva l’opposizione tra Sinisgalli e Scotellaro, che si porta dietro un appiattimento dell’uno e dell’altro?). E dietro questo riduzionismo ideologico sta, ancora una volta, la ragione idealistica appena evocata, che ha tratti persino manzoniani: è quella di chi riconosce alla letteratura anzitutto un valore morale e spirituale, direi costruttivo ed edificante, una capacità di sollevarsi oltre le miserie umane e sociali per ricercare un senso ulteriore, una sorta di utopia fondata sul balzo in avanti, sempre progressivo e progettuale, dell’umanità.

Tuttavia, pur constatando l’egemonia del levismo e le restrizioni da essa imposte, siamo certi che tutta la letteratura del realismo popolare e rurale sia ripiegata su un pessimismo anti-storico e sia incapace di porsi il problema dell’alternativa? Quest’ultima non discende forse dalla capacità che lo scrittore possiede di mettere in relazione l’esperienza di un personaggio, di un microcosmo, di una parte di mondo con l’interezza del processo sociale? I fatti di Casignana di Mario La Cava, il romanzo che, uscito nel 1974, racconta le sorti di una rivolta contadina esplosa nei giorni della marcia su Roma, ricade tra le scritture spagnole o quelle angioine, tra quelle arcaico-rurali o quelle moderne-urbane? O è forse uno degli esiti migliori di una letteratura capace di registrare ambivalenze, contraddizioni, scelte, processi, possibili vie d’uscita, traiettorie di un consorzio sociale vario, col fine di aggiungere un importante tassello conoscitivo, per quanto “locale”, alla grande storia collettiva? Si può discutere a lungo sul vuoto rappresentativo che investe le figure dell’artigianato e del commercio, ma la lotta contro il latifondo, la vicenda contadina, il conflitto di classe che essa genera, il fallimento della riforma agraria, lo spopolamento dovuto all’emigrazione, tutti questi fenomeni coincidono con la questione meridionale perché rappresentano la grande contraddizione da cui si genera anche e soprattutto il nostro presente. Il vuoto letterario successivo non è la cartina al tornasole della necessità di valorizzare un paradigma diverso – quello della “cultura leonardesca” che esalta la “creatività del mestiere artigianale”, riconosciuto da Lupo in uno scrittore come Sinisgalli – o di affidarsi a un’idea diversa di rappresentazione narrativa, ma la conferma del fatto che quella contraddizione non sia stata compresa a causa di un deficit di politica culturale e di coscienza intellettuale, di cui senza dubbio l’arcadica tendenza dei letterati è un sintomo, accanto però all’incapacità, propria di un inadempiente e frastagliato ceto medio (nel quale gli intellettuali, per privilegio, sono inseriti), di garantire alle classi popolari reali processi di emancipazione e universalizzazione, che non fossero quelli retrivi, a fallimento avvenuto, del revanscismo individuale e del disorientamento ideologico (conseguenze antropologiche già intraviste nell’inchiesta incompiuta di Scotellaro).

Ora, questi casi, a mio parere, mettono in discussione uno degli assunti che Lupo icasticamente riporta nelle prime pagine del suo coraggioso testo:

Catturati dal bisogno spasmodico di notificare [cioè denunciare], gli scrittori dimenticano che il Mezzogiorno non è soltanto il mondo oscuro della corruzione e del male, della sporcizia e dell’abuso, ma un territorio dove fa tappa il razionalismo della Storia come ragione del moderno.4

Ebbene, è proprio in Verga – come ha mostrato Romano Luperini in un saggio del 2005 dedicato alla modernità dello scrittore siciliano – che la drammatizzazione delle tensioni tra un mondo arcaico e le pulsioni del moderno si traduce nella possibilità di registrare e comprendere l’estrema mobilità dei destini individuali e sociali. È quella modalità di rappresentazione che permette di afferrare la complessità della Storia, senza rifugiarsi in utopie provvidenzialistiche. Ed è lo scarto che Verga ha saputo mettere in campo tra la propria appartenenza di classe e l’oggettività sociale dei suoi personaggi a produrre una letteratura non compiaciuta di se stessa, e anzi capace di comprendere, nel profondo, la contraddizione storica basilare del momento. A Levi, pertanto, bisognerebbe obiettare di non aver saputo cogliere con dovizia la lezione dei Malavoglia, di essersi allontanato da quest’ultima (sul punto ha scritto con grande incisività David Forgacs in Margini d’Italia) e di aver ridotto la complessità storica mediante una valorizzazione del concetto di “autonomia”, patrocinando – e qui Lupo ha ragione da vendere – una modalità rappresentativa per certi aspetti strangolatoria e riduttiva. Ma, come detto, già Scotellaro (che Lupo tuttavia si ostina a mettere assieme al Levi più elegiaco), nella sua breve intensa esperienza, aveva dimostrato l’insufficienza o la parzialità di questa visione (che pure, come notava Ernesto de Martino nei suoi scritti, aveva il merito di scoperchiare, di fronte alle coscienze borghesi, lo “scandalo” del mondo popolare subalterno). Il suo approdo all’inchiesta sociale – che si riflette anche nelle ultime prove poetiche – indica la necessità di una mediazione meno letteraria con la realtà e dunque il ritorno alla lezione mimetica e realistica (anche e soprattutto verghiana). La masseria (1960) di Giuseppe Bufalari, che giustamente Lupo riconosce come inconsapevole risposta alla letteratura leviana, è un romanzo molto più prossimo a questo punto d’arrivo scotellariano di quanto si creda ed è, in verità, la conferma che il romanzo rurale, andando oltre se stesso e pensandosi come occasione narrativa, possa dare risposte anche in tema di modernità (mancata o meno che sia). Com’è pure il caso di uno dei testi più incisivi (e nello stesso tempo più dimenticati) di quegli anni: Avventure in città (1962) di Saverio Strati. Per dirla in modo stringente: i limiti di Levi erano già evidenti a una buona parte di coloro che ne rappresentano, come Scotellaro, se non altro a causa di una vulgata manualistica, gli eredi.

Ecco perché è opportuno discutere sulle modalità di rappresentazione, sulle scelte formali e sui registri stilistici che gli intellettuali hanno adottato lungo il Novecento per narrare il Sud. Lupo, che è abile nel campionare una serie molto vasta di fenomeni testuali (giustamente attingendo alle sue preferenze e, in fondo, comunicando un contro-canone ideale, nel quale un posto d’onore trovano scrittori come Carlo Alianello e Salvatore Silvano Nigro), suggerisce che il levismo sia, sul lungo periodo, il principale artefice di una manomissione delle alternative letterarie. Sicché al romanzo, troppo fermo a una contemplazione pessimistica dell’esistente, si è preferito, per evitare le secche del lirismo, lo strumento dell’inchiesta sociale. Terminata la stagione del realismo, ai letterati-letterati resta la placida contemplazione di un esistente irredimibile o, nei casi migliori, l’esperienza del romanzo neostorico di materia risorgimentale; oppure, sostiene Lupo, la frequentazione di una linea “vittoriniana”, che risulta però “ai margini di una cultura meridionalista”, perché non direttamente legata alla denuncia (i nomi menzionati sono anzitutto quelli di Michele Prisco e Raffaele La Capria). Non credo però si tratti solo di un problema letterario o genericamente culturale, al quale si possa rispondere rivendicando il valore in sé della letteratura o capitalizzando posizioni minoritarie.

Del resto, le scritture d’inchiesta, con o senza un impianto narrativo, sono alla base del meridionalismo più consapevole (da Tommaso Fiore a Giovanni Russo, passando per Goffredo Fofi, fino a giungere, in tempi più recenti, ad Alessandro Leogrande) e non possono essere ridotte a una generica filiazione leviana. Si tratta, ancora una volta, di un problema d’ordine materialistico. L’emigrazione meridionale, dovuta al fallimento della riforma agraria e alla trasformazione della realtà contadina (che è stata appunto sempre molto mobile anche in ragione di tali sconfitte), produce uno svuotamento dell’intera dimensione sociale e culturale. Viene meno la possibilità teorica di un’emancipazione degli strati subalterni e si inaugura un momento di forte stagnazione sociale, che sancisce la fine dell’alternativa meridionale (per citare il titolo di un libro ancora valido di Michele Abbate). A rafforzarsi è quella cornice individualistica – già propria degli intellettuali meridionali, seguendo l’intuizione di Gramsci – che ripercorre, tolti rari casi, il solito registro arcadico e nostalgico, e che aderisce acriticamente a un annichilimento delle questioni sociali. Il punto è che questo ripiegamento causa, nelle sue non certo cospicue risultanti, una fuga conservatrice nel letterario, che probabilmente solo l’accesso a forme ibride e al registro dell’inchiesta riesce, in qualche caso, a relativizzare. E, nel tempo lungo, questo rigurgito estetizzante ben presto incontra, in modo assai passivo, le istanze inclusive del consumismo culturale, fino ad arrivare, ai giorni nostri, alla sequela di noir, gialli e provinciali imitazioni postmoderne di modelli lontani. Valga come prova che il libro più incisivo di questo prolungato interregno viene appunto dall’inchiesta sociale e non certo dal plurimo universo del romanzo tradizionale, ed è, a parere di chi scrive, Africo (1979) di Corrado Stajano. Modello implicito, quest’ultimo, dei testi che più ci aiutano oggi a comprendere cosa sia il Sud da una prospettiva che ragiona sull’attuale congiuntura capitalistica. Penso al libro d’esordio di Roberto Saviano e a quelli del già citato Leogrande.

Qui si apre la questione delle preferenze di Lupo, che non vanno certo verso gli ultimi titoli che ho menzionato (Gomorra, ad esempio, per l’autore «rischia di sclerotizzare il dibattito e di ridurlo a una superficiale lettura del presente»),5 ma tendono a privilegiare un supposto versante utopico, tipico di una «narrativa meridionale che antepone la ricerca dei luoghi o delle condizioni di vita ideali alla rappresentazione della realtà».6 Utopia versus realismo? O, forse, più sottilmente, letteratura con la maiuscola versus documento descrittivo (quest’ultimo però accessibile solo attraverso una pietas lirica)? Nella costruzione di queste artefatte opposizioni risalta quel riduzionismo di cui ho già parlato (e che non necessariamente va contestato, dal momento che riflette la postura antileviana e, direi, olivettiana di Lupo). Se il limite del libro consiste nel proiettare Levi ben oltre il suo raggio, pur ampio, di influenza, il merito di La Storia senza redenzione è quello di mostrare la costruzione di una retorica della rappresentazione che certamente ha ristretto lo spazio dell’interrogazione culturale. Ma se per Lupo ingiustamente minoritaria risulta essere una letteratura all’altezza dei tempi e capace di progettualità moderna, per l’estensore di queste note le conseguenze negative del levismo non risiedono solo nella sua lunga egemonia, ma sono tutte contenute nell’ideologia di fondo che lo anima – quella dell’autonomia possibile della civiltà contadina. Una ricetta, quest’ultima, che però, al pari di altre, ben diverse e più legate a un’idea progressista, appariva incapace di una reale problematizzazione storica già agli occhi di de Martino e di altri meridionalisti erroneamente associati alla tendenza che Lupo intende criticare. Proprio l’etnologo napoletano, all’inizio degli anni Cinquanta, riconoscendo al Cristo il merito di una proficua apertura di senso, elaborava una concezione storicistica nettamente diversa da quella di Levi, perché fondata sulla necessità di comprendere la persistenza dell’arcaico e il portato delle culture subalterne non come valori in sé, non come segno di una qualche distintività, ma sempre e solo in rapporto alla cultura borghese dominante, lumeggiando così il problema di un sincretismo storico-culturale che coglieva in pieno il fallimento del processo di modernizzazione illuministica.

Nelle ultime pagine Lupo menziona una serie di esperienze letterarie ancora in atto e traccia una lettura possibile del contemporaneo. È forse il momento meno convincente del testo. A parte la condivisibile decostruzione di una retorica passatista e nostalgica che permane in non poche scritture, il presente sembra dissolvere le categorie attraverso cui Lupo legge una buona parte del Novecento. Riconoscere in Saviano il punto di arrivo di una supposta linea Verga-Levi che concepisce il Sud come luogo del male appare come una facile strategia di contenimento per evocare ancora una volta le contraddizioni di una questione meridionale perennemente irrisolta. O per non arrendersi all’evidenza di un caos senza direzioni, che, a ben vedere, riflette, spesso confermandoli in modo adesivo, i conflitti sociali di un Mezzogiorno in caduta libera. Il punto è che il racconto del Meridione, galleggiante nel grande mare della produzione culturale e oggi privo di ambizioni che vadano oltre la mera firma autoriale, ha bisogno di confrontarsi con altri aspetti della sua storia (a partire dagli storici flussi migratori che hanno prodotto comunità meridionali altrove, portatrici di proprie istanze di rappresentazione), di uscire da sa stesso per tornarvi con più consapevolezza e di trovare una strada espressiva lontana dalle attuali retoriche neo-identitarie, molto più agguerrite di quelle attive settant’anni fa. Nel nostro presente ipercapitalistico e super-estetizzato, il Sud è ancora protagonista di una sintesi di arcaico e postmoderno che si esprime in forme varie e cangianti, le quali meriterebbero un’analisi più avvertita. Una letteratura capace di interrogare questa condizione avrebbe perlomeno il compito di inaugurare un percorso di autocoscienza critica e di affrancarsi da facili legittimazioni identitarie e congregative, stabilendo in prima battuta una sana distanza da modalità di rappresentazione che spesso risultano ancillari a un consumo immediato di Meridione o a un banale desiderio di riconoscimento intellettuale presso il mercato delle lettere. Tuttavia, al netto di poche interessanti esperienze, non a caso più residuali di altre, mi sembra che questo auspicio resti ancora lontano da una sua possibile realizzazione.