Caso Alcoa. Ecco perché le grandi aziende del Sud falliscono

del 11 Settembre 2012

Il parere di Massimo Lo Cicero (Sapienza e Tor Vergata) autore di “Sud a perdere”
Termini Imerese, Taranto, Portovesme e ancora prima Gioia Tauro, Crotone… non sono tappe del Grand Tour di un viaggiatore inglese in Italia ma quelle di un viaggio nel cuore della crisi economica, in un Sud dove quella crisi è ancora più forte perché si assiste al fallimento di quelle grandi imprese costruite su impulso dello Stato nel secolo scorso per porre rimedio all’annosa questione meridionale rincorrendo il modello di sviluppo industriale del Nord Italia e cercando di esportarlo e riprodurlo artificialmente a Sud. Ora che quelle politiche di intervento si sono dimostrate fallimentari si rende necessaria una riflessione seria e pacata anche al fine di individuare possibili soluzioni a una situazione che ha ormai superato da tempo la soglia di guardia e che si rivela in tutta la sua drammaticità anche sociale, come i fatti di questi giorni dimostrano.

Per offrire un contributo al dibattito abbiamo rivolto qualche domanda al prof. Massimo Lo Cicero, economista napoletano, docente nelle università Sapienza e Tor Vergata e autore per Rubbettino di un interessante saggio intitolato “Sud a perdere. Rimorsi, rimpianti e premonizioni”

1) Prof. Lo Cicero, mentre si cerca ancora la soluzione ottimale per quanto riguarda l’ILVA di Taranto sui giornali scoppia un altro caso quello dell’ALCOA. Ieri teneva banco Termini Imerese. Cosa sta succedendo alle grandi aziende del Sud? 

L’economia industriale del Mezzogiorno sconta tre limiti: i sussidi che hanno ottenuto le grandi aziende perché si insediassero nel Mezzogiorno; i sussidi, diceva Saraceno, devono essere temporanei perché camminare con le grucce per sempre non è possibile; lo squilibrio tra dimensione demografica e dimensione produttiva, che si allarga quando le industrie del Sud diventano subfornitori del Nord o quando le imprese del Sud devono fare tutto in casa propria perché non esistono subfornitori efficienti nell’ambiente esterno ed in prossimità degli impianti; il fatto che al Sud siano stati trasferiti, alle famiglie ed alle imprese, fondi pubblici per aumentare il loro reddito, cioè la capacità di spesa, senza offrire politiche che aumentassero la quantità di prodotto realizzato. Di conseguenza il Sud è diventato una pentola bucata, consuma più di quello che produce, spende più di quanto riesca a vendere sui mercati internazionali. Combinate la pentola bucata con la deformazione della produzione indotta dagli incentivi ed avrete la spiegazione di questo default industriale.

2)  È davvero inconciliabile l’intervento dello Stato in economia con il libero mercato? 

In tutto il mondo le persone normali pensano che l’economia monetaria di produzione possa e debba convivere sia con lo Stato che con il mercato o meglio debba fondarsi su scambi e gerarchie.  
A volte servono le gerarchie per creare valori condivisi ed a volte serve lo scambio per trovare la dimensione efficiente dei beni contendibili. In questo caso, insomma non vale l’opposizione ma al complementarietà tra stato e mercato. Governare la complementarietà, ovviamente, è più difficile che fare affermazioni massimaliste dove l’uno, il mercato, escluda l’altro, lo Stato.

3) Ma adesso che la frittata è fatta, cosa fare? Lo Stato deve intervenire nel salvataggio delle aziende? Tenga presente che al di là delle discussioni teoriche stiamo parlando di migliaia di famiglie che rischiano di finire sul lastrico… 

È vero, perché in economia le scelte sono irreversibili. L’argento, la moneta, compra l’oro, la ricchezza materiale, ma l’oro non riesce a comprare argento al medesimo prezzo se deve essere rivenduto. Lo dice la Bibbia ed ogni scelta economica, se ha deformato la transazione alla quale si è applicata, deforma per sempre il sistema ed il mercato. Ora bisogna riprendere la crescita perché due montagne sterili si confrontano inutilmente specchiandosi una nell’altra: la moneta che giace inoperosa e la disoccupazione che non produce alcun valore reale. La crescita rimette in moto la moneta, come leva della crescita, ed il lavoro, come fonte del nuovo valore.

4) Come si può rimediare a questa situazione salvando capre (la stabilità sociale) e cavoli (le casse dello Stato)? 

Ridimensionando il perimetro dello Stato, che deve essere più snello e più efficace mentre ora è troppo dilatato ed assai poco capace di realizzare i propri traguardi: sanità, istruzione, creazione di infrastrutture, ordine e sicurezza degli scambi e della proprietà. Se lo Stato si ridimensiona e diventa più efficiente genera servizi migliori e servono meno tasse per alimentare una spesa ridondante. Famiglie ed imprese potranno consumare ed investire; i servizi migliori saranno una integrazione della qualità della vita e ci sarà una stagione di crescita. Oggettivamente. Grazie alla integrazione cooperativa tra famiglie, imprese e Stato.

5) L’industrializzazione dall’alto è nata in un periodo in cui questo modello di sviluppo era stato pensato come quello probabilmente più efficace per ridurre il divario Nord Sud, ora che ha mostrato tutti i suoi limiti possiamo fare un’analisi serena: in cosa si è sbagliato? Nel progetto in sé o nel modo in cui è stato gestito?

Come abbiamo già detto, a partire dagli anni settanta, con il boom dei sussidi al reddito, diventano sbagliati sia il contenuto delle politiche che la loro gestione, nell’ambito della quale si allarga, come accade sempre con il prevalere di gerarchie che guidano il sistema, in questo caso la pubblica amministrazione ed il ceto politico, fenomeni di opportunismo ed azzardo morale.

6) Quali sono a suo avviso le alternative esperibili per garantire al Sud una via di sviluppo sostenibile che possa configurarsi come terza via rispetto all’assistenzialismo e allo Stato imprenditore (che è poi una forma diversa di assistenza)?
L’opzione di Oliver Wiliamson, premio Nobel per l’economia nel 2009: utilizzare lo scambio e la gerarchia come chiavi complementari della crescita, gestire in maniera cooperativa sia i mercati che lo Stato. Credere nella fiducia ed alimentarne la crescita, restituire alla comunità una equilibrata distribuzione dei redditi per garantire una maggiore equità sociale. L’assistenzialismo del Welfare ed i mercati, dove regna una distanza eccessiva tra la capacità di negoziare dei consumatori e quella dei venditori (l’assenza di un regime di concorrenza), sono le due patologie del sistema in cui, invece, viviamo oggi.

N.B. I contenuti di quest’intervista sono liberamente riproducibili citando la fonte

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