Se a salvarci sono gli altri

di Luciana Cimino, del 14 Luglio 2015

Da Repubblica.it/Micromega del 14 luglio

Dai padri, forse, si prendono le ragioni ma la propensione alla lotta e la tigna per affrontare le sue conseguenze si tramandano per via materna.
Il romanzo di Lou Palanca parte dal dramma privato di una donna calabrese per raccontare l’universalità delle guerre dei poveri che non hanno confini e che, nonostante gli inciampi della storia, non hanno mai fine. Il nome dell’autore nasconde un collettivo “a geometria variabile” di scrittori calabresi. Con l’editore Rubbettino, Lou Palanca ha già pubblicato il libro “Blocco 52”, sull’omicidio ancora misterioso del sindacalista comunista Luigi Silipo, nel 1963 a Catanzaro. Con il grande merito di aver dissepolto una storia che la sinistra ha dimenticato presto e che la città ha negato, fino a rimuoverla dalla memoria collettiva. Inserendosi a pieno nell’esperienza di Luther Blissett e soprattutto in quella di Wu Ming, il collettivo calabrese torna in libreria, per lo stesso editore, con “Ti ho vista che ridevi”, prefazione di Carlo Petrini.
Sbaglia chi pensa che la scrittura collettiva penalizzi il tono e la tenuta di un romanzo. Non ci sono sbavature nello stile né buchi nella trama. Che pure è complessa. La storia si dipana tra la Calabria e le Langhe, dalle lotte contro i latifondi del Sud Italia a quelle recenti della Val di Susa. Tra contadini comunisti e i profughi siriani. Tutto si tiene.
«Alla fine la lotta è sempre lotta per la terra», dice Nicola Fiorita, Lou Palanca 3. Dora è una “calabrotta”. Così venivano chiamate 50 anni fa le giovani calabresi che venivano mandate in sposa ai contadini delle malinconiche Langhe raccontate da Pavese, quelle della città di Alba che non era ancora nota per il turismo gastronomico ma per le battaglie dei partigiani raccontante da Fenoglio. Il tramite sono i bacialé, ruffiani che tali non sono anche se prendono percentuali per ogni matrimonio celebrato: si autodefinivano “salvatori delle Langhe e benefattori delle femmine calabresi”.

Di Luciana Cimino

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