Sciascia e La Cava: Un taccuino letterario a due voci

del 14 Ottobre 2013

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«Caro La Cava, … vorrei tanto leggere i suoi Caratteri: da anni seguo la Sua attività, e sempre ho letto le Sue cose con grandissimo gusto. …» Inizia così, con una lettera spedita il 3 Maggio del 1951 da Racalmuto (nell’entroterra della provincia di Agrigento) a Bovalino (sulla costa jonica della provincia di Reggio Calabria), il lungo e denso scambio epistolare tra Leonardo Sciascia e Mario La Cava durato quasi quarant’anni. Una corrispondenza iniziata quel giorno e conclusa nel giugno del 1988 con un’ultima lettera di La Cava all’amico siciliano in cui si parla, come in tutte le altre, di letteratura e di vita. Trentasette anni di corrispondenze che compongono un ricco taccuino letterario a due voci. Un lunghissimo incontro epistolare che diventa anche un’auto-descrizione, che i due scrittori offrono inconsapevolmente, delle loro vite e delle opere dalla loro genesi fino ad arrivare alla pubblicazione e diffusione.

Quando Sciascia scrisse quella prima lettera era un giovane insegnante trentenne mentre La Cava andava per i quarantatré. Un’ininterrotta conversazione tra due scrittori italiani periferici per geografia ma ben presenti nel mondo letterario nazionale, attenti com’erano alla vita civile del loro tempo e attivi nella comunità degli scrittori al pari di tanti noti rappresentanti del Novecento letterario italiano. Due narratori comunque capaci di far diventare “centro” la lontana periferia del Sud dell’Italia del dopoguerra dove loro vivevano. Una periferia che sa diventare centro di umanità e di letteratura espressa da scrittori non urbanizzati, narratori di un mondo lontano dalle grandi città ma non per questo marginale o secondario.

É questo il quadro che emerge chiaro dalle Lettere al centro del mondo che Milly Curcio e Luigi Tassoni hanno curato per Rubbettino (pp. XXXVIII+496, € 17) e che raccolgono le lettere scambiate tra Sciascia e La Cava negli anni che vanno dal 1951 al 1988. Due scrittori meridionali che hanno saputo spiegare il mondo tramite la descrizione delle piccole cose. Due narratori diversi ma con molti elementi in comune nella letteratura e nella vita. Primo fra tutti, uno stile narrativo semplice e asciutto, capace di arrivare all’essenza delle cose e delle persone quasi senza farsene accorgere. Due scritture che sanno guardare criticamente alla vita della gente del Mezzogiorno italiano e ai poteri che la condizionano, una comune attenzione alle storie quotidiane che diventano paradigmi dell’esistenza umana.

Sono lettere molto personali che ovviamente sono state scritte perché le leggessero soltanto loro. Dunque in qualche misura nel leggerle siamo dei voyeur che osservano e frugano, spinti dalla curiosità, dentro eventi felici e difficoltà personali, momenti di creatività letteraria e periodi di sconforto, piccoli fatti privati e scambi di impressioni a volte di valore assoluto, altre volte soltanto contingenti. Lettere che ci permettono di conoscere anche intimamente e di capire dal di dentro Leonardo Sciascia e Mario La Cava, le loro vite pubbliche e private, la loro amicizia e la loro opera letteraria.

La lunga catena quarantennale delle 362 lettere è anche una fedele rappresentazione di come l’opera letteraria possa essere concepita, composta e accompagnata verso la pubblicazione tra difficoltà, momenti creativi, ansie, speranze e desideri. Un racconto a due voci del rapporto, a volte felice e a volte molto difficile, con i colleghi, con gli editori, con l’universo della letteratura italiana della seconda metà del Novecento. Un lessico letterario, quello narrato reciprocamente da Sciascia e La Cava, che può essere usato come un saggio sulla creazione letteraria. Seppure in forma “quantizzata”, infatti le lettere mostrano cosa avviene dietro le quinte, dall’ideazione di un romanzo alle difficoltà nel pubblicarlo, fino alla sua diffusione e alle inevitabili critiche e ai necessari dibattiti e discussioni intorno all’opera. In sintesi, una collezione di lettere che è nei fatti la rappresentazione del processo letterario visto con gli occhi degli autori.

Nelle prime lettere i due scrittori si scambiano opinioni sulle loro opere già pubblicate. Quella di La Cava che Sciascia apprezza è Caratteri, mentre sono le Favole della dittatura che colpiscono La Cava per la «suggestione poetica e la profondità dei significati morali». Nelle lettere successive i due iniziano a discutere di opere in fase di stesura, di articoli di critica letteraria, di iniziative editoriali, scambiandosi opinioni, critiche e consigli. La Cava nei primi anni ’50 ha, più dello scrittore siciliano, conoscenza del mondo letterario italiano e quindi offre suggerimenti e contatti a Sciascia. Gli raccomanda Bassani, non ancora famoso, come collaboratore di Galleria, la nuova rivista da lui diretta. Durante i suoi viaggi a Roma parla di Sciascia ad Alberto Moravia e a Corrado Alvaro, lo presenta a Vittorini, lo mette in contatto con Lucio Lombardo Radice, con Calvino e con Roberto Roversi, di cui successivamente Sciascia diventerà amico fraterno.

Il carteggio è pieno di riferimenti ai personaggi letterari che popolano i libri di Sciascia e La Cava e di alcuni di essi, quando corrispondono a persone reali, i due discutono molto gradevolmente. Mentre La Cava è impegnato a scrivere I dialoghi con Antonuzza, descrive al suo amico le scene di vita quotidiana con la bambina che ha vissuto per un breve periodo in casa dello scrittore a Bovalino. «Antonuzza mi ha fatto una bella lezione di estetica. Io cercavo di insegnarle il modo di usare i pezzi delle costruzioni. … Antonuzza ruppe la logica e si mise a costruire bellissimi palazzi … capovolgendo le comuni regole. Povero Wright, quanto studio sprecato!» Una simile combinazione tra narrazione e vita avviene anche mentre La Cava è impegnato a scrivere Le memorie del vecchio maresciallo che annuncia a Sciascia in una lettera dell’autunno del ’54: «Sto pure scrivendo una serie di racconti su un vecchio di 95 anni, maresciallo in ritiro …». Due anni dopo, nel maggio del ’56, passati circa sei mesi da quando La Cava ha completato le memorie, il vecchio maresciallo viene a mancare e lo scrittore, informa Sciascia di dover «prestare i suoi servigi alla famiglia» del personaggio del suo libro. Nella stessa lettera in cui lo informa di aver ricevuto il contratto da Einaudi per la pubblicazione delle memorie del vecchio militare. E’ questo uno soltanto dei casi in cui il carteggio mostra come vita, morte e letteratura s’incrociano con modi singolari, combinando il piano della finzione con quello del reale nel tempo e nello spazio.

Un altro singolare caso di questo incrocio avviene quando, nella primavera del 1956, Gaetano Cingari, consigliere comunale a Reggio Calabria decide di leggere durante una riunione consiliare alcuni brani di Le parrocchie di Regalpetra di Sciascia sostituendo i nomi dei personaggi con quelli di alcuni consiglieri. Questi ultimi subito pensarono di essere stati citati nel racconto di Sciascia e si offesero fin quando Cingari non spiegò loro la sua operazione di sostituzione che diventa una palese dimostrazione di come la fantasia della narrazione di Sciascia abbia avuto il potere di descrivere con molta cura un contesto reale. Quella trovata politico-letteraria di Cingari aumentò le vendite del libro nella città di Reggio e a La Cava che gli scrisse dell’episodio, Sciascia compiaciuto rispose: «è la cosa più bella che abbia sentito sul mio libro.»

Un altro tema costantemente presente nelle lettere è la riflessione sull’influenza che i luoghi hanno sulla vita e sull’opera di uno scrittore. La Cava riflette su come il vivere in una grande città si «oppone ad una approfondita osservazione della vita» e Sciascia gli risponde da Racalmuto: «in fondo vivere così mi piace: leggere un libro al giorno e scrivere un articolo al mese; e quando posso un piccola scappata oltre lo Stretto.» Nonostante questi convincimenti, negli anni successivi i due scrittori hanno motivi per lamentarsi della loro vita troppo ritirata e senza grandi stimoli a causa della povera realtà sociale e culturale in cui vivevano. In più di una lettera, La Cava esprime il desiderio di lasciare Bovalino – a quel tempo cittadina di circa 7000 abitanti che vivevano di pesca, agricoltura e piccoli commerci – per trovare un altro luogo dove vivere superando le difficoltà economiche. Sciascia comprende questo suo desiderio e condivide: «Questa vita nei nostri paesi è terribile.» Sentivano il peso della quotidianità, anche se ambedue viaggiavano spesso in Italia e a volte anche all’estero e durante i loro viaggi avevano molti contatti e incontri con i principali esponenti della cultura italiana: Montale, Bertolucci, Bonaviri, Vittorini, Pasolini, Calvino, solo per citarne alcuni.

Il desiderio di “scappare” spesso è legato alle loro ambasce letterarie che lamentano il disinteresse o, peggio “livide recensioni” da parte della critica e dei “maestri”. Scrive Sciascia in un momento di tristezza: «forse resteremo ad ammuffire tu a Bovalino, io a Racalmuto, fino alla consumazione del tempo.» Per fortuna i fatti hanno dimostrato che il pessimismo di Sciascia era fallace, tuttavia questa tesi (comune ai due scrittori) nasce dal loro animo aperto che vive comunque come un inevitabile handicap l’essere legati fortemente ai loro luoghi. La consonanza tra Sciascia e La Cava non è soltanto letteraria ma anche di carattere. Le lettere mostrano come il loro è stato l’incontro di due umanità simili che condividono preoccupazioni e non vogliono apparire come un “tandem di provinciali” con i letterati che contano (“i sapienti di Roma”). Timori ovviamente non fondati, ma evidentemente La Cava e Sciascia temevano di apparire periferici agli occhi dei colleghi anche se ben sapevano che la loro periferia forniva il materiale per le loro narrazioni che sapevano scavare con cura dentro la vita e l’animo dei personaggi fino a fare affiorare l’essenza della loro esistenza che, in fondo, era simile a quella di tutti gli uomini.

Insieme alle grandi questioni, nel loro carteggio La Cava e Sciascia scrivono anche delle piccole cose di vita quotidiana, a volte con ironia, altre volte con amarezza: le loro scarse finanze, le difficoltà familiari, i problemi di salute, lo scambio di olive, fichi e mandorle che viaggiavano tra Bovalino e Racalmuto, i tanti appuntamenti fissati e puntualmente mancati per conoscersi di persona. Tentativi di incontrarsi che alla fine trovano soluzione il 20 aprile del ’53 a Messina, porta ideale della Sicilia di Sciascia sul continente di fronte alla Calabria di La Cava. Un luogo simbolicamente quasi perfetto per l’incontro tra lo scrittore siciliano e quello calabrese divenuti ormai amici fraterni pur avendo comunicato soltanto attraverso i loro scritti.

Uno scambio epistolare intenso che ci mostra due scrittori che hanno vissuto in Calabria e in Sicilia, periferie del mondo, eppure sono stati anti-provinciali, due letterature ben fondate nella provincia profonda del Meridione d’Italia che hanno sempre negato il provincialismo narrativo. Scritture che anche a leggerle oggi hanno un respiro elevato e vasto e mostrano un’attitudine critica verso chi è appagato dal vivere in piccoli mondi, siano essi in provincia o metropolitani.

Pur nelle tante difficoltà, che emergono con chiarezza nelle loro lettere, al dilemma “vivere o scrivere”, Sciascia e La Cava hanno risposto con la congiunzione logica di questi due infiniti: vivere e scrivere. Il loro lungo carteggio testimonia di questa scelta consapevole fatta dai due amici scrittori. Una scelta che non viene abbandonata anche quando, a volte, la sua attuazione diventa dura e dolorosa. Una scelta praticata in gran parte in solitudine, ma che ci lascia, per nostra fortuna, opere letterarie di grande valore concepite e scritte da due tra i più importanti autori italiani del Novecento, figli di una terra remota e complessa ma insieme ricca di capacità interpretative e creative di primo valore, come sono state quelle di Leonardo Sciascia e di Mario La Cava.

Di Domenico Talia

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