Le recensioni di Maria Franco (zoomsud.it)

di Maria Franco, del 13 Gennaio 2018

Una donna di mezz’età. Una sensazione pesante e permanente d’essere un corpo estraneo rispetto al mondo circostante, al suo stesso corpo. Alle spalle un matrimonio avventato, vissuto per vent’anni senz’amore e chiuso senza rimpianti. Un figlio con cui ha avuto difficoltà a relazionarsi, fin dalla gravidanza: «Dovrà perdonarla, questa mamma ragazzina, che non ha saputo amarlo mentre era un pezzo di lei. E come poteva, se non amava se stessa, come poteva? Ama il prossimo tuo come te stesso, no? E chi ti è più prossimo della carne della tua carne? Per nove mesi lo aveva disperatamente rifiutato. Un corpo estraneo era dentro il suo corpo estraneo, un intruso, era, indesiderato, non voluto, esorcizzato.» Un lavoro come giornalista amatissimo e una grande passione per le storie, anche le più piccole e quasi invisibili perché «tutto merita d’essere raccontato, non ci sono vite banali», basta trovare il bandolo giusto: «Come da una matassa ingarbugliata. Prendi il bandolo e piano piano cominci a riaggomitolare il filo. Parti da lì. Un dettaglio, una frase, un paesaggio. Da cui iniziare. È la cosa più difficile, ma poi, vedrai, la storia comincerà a scriversi da sola. Ci vuole pazienza, capacità di ascoltare ed empatia. E anche un pizzico di umiltà. E pure un poco di cinismo.» Una macchia nera ad un ovaio e la conseguente necessità di un intervento di chirurgia dolce induce Bianca che ha sempre raccontato solo le storie degli altri a diventare «cronista di se stessa» ripercorrendo le tappe della sua esistenza: la madre e quattro sorelle, una famiglia, dopo la morte del padre, tutta al femminile, il liceo Tommaso Campanella a Reggio Calabria, l’Università alla Cattolica di Milano, ospite del Marianum, il Sessantotto, il rapporto – non rapporto col marito, la solitudine pressoché assoluta successiva alla separazione, e le tante donne incontrate nella sua vita e nella sua carriera. Fino all’intervento che rivela la mancanza di cellule tumorali: «Mi sveglio in uno stato di ovattato benessere che non provavo da non so quanti anni. Non ho fame, non ho sete, non so se è mattina o pomeriggio, se fuori piove o c’è il sole e non me ne importa nulla, sono sazia di sonno e di sogni, l’intorpidimento mi dà languore e serenità. (…) Muovendomi, mi riconosco attraverso il mio odore, sa di rami bruciati e di cannella, mi appartiene, restituisce me stessa a me stessa, ed è una sensazione piacevole, sollevo il braccio sinistro e mi lecco la pelle, sa di mentolo e del mio sudore, sono viva. Ci sono e sono intera.» Corpo estraneo di Annarosa Macrì, edito da Rubbettino, è, a suo modo, un romanzo di formazione. Matura d’anni e levigata dalle esperienze della vita, propria e altrui, Bianca partorisce se stessa, come capita a tutte le donne che, ricomposti tutti i tasselli, «mettono sul tavolo la vita o la morte, è lo stesso, prima delle parole.» Libro delicato e potente, Corpo estraneo racconta la storia delle donne del Sud che, nate nei dieci anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, si sono trovate a vivere una doppia o tripla rivoluzione: la scuola superiore, l’Università in una città del Nord, i prodromi della libertà sessuale, un approccio diverso alla maternità, un lavoro prima considerato solo maschile. Quasi autobiografia collettiva per un’intera generazione (che abbia o meno fatto l’Università a Nord), ma capace di parlare a tutti, Corpo estraneo è ricco di pagine ricordevoli: dal tentativo di pubblicare un giornale scolastico (qualche anno dopo, sarebbe effettivamente arrivato il Tommaso C., NdR) alla contessa che cerca come tata per il figlio una signorina che scandisca bene le e con accento e senza, dalle brevi note sui moti reggini del Settanta al ritratto di Adele Cambria, dai ritratti delle amiche alle pertinenti citazioni di poeti e scrittori. Memorabili le pagine sui quattro anni passati al Marianum, «non so se i più belli, certo i più intensi della mia vita»: «Non si capisce niente del Sessantotto in Cattolica (…) se non si capiscono quelle notti. Ed era proprio così. Stavamo sveglie fin quasi all’alba perché quel tempo liberato e condiviso, dopo lo studio e prima delle lezioni del mattino dopo, non finisse mai. In ognuna di esse andava in scena il racconto, a turno, di una delle nostre vite, in uno slancio di donazione alle altre che squartava l’anima e la liberava.»

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