Pensieri liberali. A colloquio con Florindo Rubbettino (L'impresa. Rivista Italiana di Management)

di Giovanna Guercilena, del 29 Novembre 2011

Da L’impresa. Rivista Italiana di Management  – n° 11, Novembre 2011
Dipendenze letali
Basta guardare al passato. Basta difendere privilegi. Così non produrremo mai un nuovo modello di sviluppo. Se solo avessimo il coraggio di creare una vera concorrenza…
Quarantenne cosentino, Florindo Rubbettino è stato Presidente dei giovani imprenditori di Confindustria Calabria e oggi è a capo di Rubbettino editore e Rubbettino industrie grafiche, un gruppo che, con un centinaio di addetti e un fatturato complessivo sui dieci milioni di euro, opera nei settori editoriale tipografico e cartotecnico.

Dal 1° settembre è entrata in vigore la legge che disciplina il prezzo dei libri e fissa dei tetti agli sconti che librai e editori possono praticare? Cosa ne pensa?

Imponendo per legge un tetto allo sconto, anche questa volta la tentazione interventista ha purtroppo avuto la meglio, finendo per danneggiare il normale funzionamento di un mercato e, soprattutto, i lettori. È proprio questo il punto: la concorrenza è sempre a vantaggio dei consumatori e proteggere un settore per legge si configura sempre come una battaglia di retroguardia, che finisce per nuocere all’intero comparto che si vorrebbe tutelare. Che poi si voglia incentivare la lettura con una norma che va contro i lettori, è semplicemente paradossale.
Comprendo le preoccupazioni delle piccole librerie indipendenti, che sono una ricchezza per il paese e che si trovano a competere con le grandi catene, ma la competizione si fa con la differenziazione, la bibliodiversità, campagne mirate, alleanze fra quegli editori cui le catene non danno visibilità.

Che cosa è per Lei la cultura e che ruolo può giocare nella crescita economica di un paese?
La cultura è un fattore importante del nostro sviluppo. A mio avviso c’è, però, un equivoco da sfatare.
Non ci si può limitare a parlare di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, cose importantissime ma non sufficienti. Non si può restare con lo sguardo rivolto all’indietro, compiacendosi di epoche nelle quali eravamo davvero i primi nel mondo. Bisogna ricreare le condizioni per un nuovo Rinascimento contemporaneo in cui la cultura sia al centro e, come avviene in altre nazioni, far ripartire la produzione culturale contemporanea.
Dagli Usa ai paesi del Nord Europa e ai paesi emergenti, a tutti sembra chiaro che fare cultura è prima di tutto fare cultura ora. Come scrivono Christian Caliandro e Pierluigi Sacco nel saggio Italia reloaded “abbiamo smesso di produrre idee convinti che, grazie al nostro passato glorioso, potevamo fare a meno di nuovi contenuti: in questo modo siamo diventati marginali sulle frontiere della produzione creativa”.

Quali compiti e responsabilità competono allo Stato in ambito culturale.
E ai privati?
Lo Stato dovrebbe mettere a frutto il patrimonio di cui dispone, non considerare la cultura solo un costo. Dal canto loro i privati – nell’editoria come nel cinema o nell’arte – dovrebbero ragionare di più in termini imprenditoriali e contare meno sugli aiuti pubblici. Il fare impresa culturale è solo uno dei tanti modi possibili di fare impresa e pensare che sia un’attività meno redditizia rispetto ad altri settori è un pregiudizio.
I beni culturali, ad esempio, hanno un tratto comune che li fa differire da altri beni del mercato e che li rende interessanti sotto il profilo economico. Quando Dante incontra Ulisse all’Inferno non vede una persona ma una fiamma, che gli parla di esplorazioni lontano da casa, da Penelope e dal vecchio padre, e lontano anche da Circe e dai piaceri consumistici per scappare nell’alto mare aperto e inseguire la conoscenza. Tradotto in termini economici, il demone che spinge Ulisse ad abbandonare tutto e sfidare i pericoli è un’utilità marginale crescente: più conosce, più gli si ampliano gli orizzonti, più aumenta il suo desiderio di conoscere, senza mai arrivare alla sazietà.
Se i beni culturali generano un’utilità marginale crescente, perché ampliano la prospettiva della conoscenza e la sensibilità artistica, allora devono essere appetibili dal punto di vista dell’imprenditore. È evidente quanto una carenza di “imprenditorializzazione” della cultura costituisca un freno allo sviluppo e uno spreco di risorse.

Lei è a capo di una casa editrice molto attiva sui temi economici e sociali e nel far conoscere autori liberali e liberisti come Hayek, Mises, Popper. Perché questa scelta così caratterizzata?

Perché in Italia per troppo tempo un’élite culturale ed editoriale non ha dato spazio a queste idee. Il progetto editoriale portato avanti dalla Rubbettino muove proprio dalla constatazione che gran parte dell’editoria italiana ha reso difficile nei decenni passati quella disputa tra idee che sola può arricchire la vita morale e intellettuale di un popolo. E lo ha fatto, in primis, ignorando i grandi pensatori liberali, intellettuali, tra gli altri, del calibro di Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek. Coprire dunque un vuoto culturale che ha per lungo tempo nascosto a intere generazioni i più preziosi contributi degli studiosi che più hanno gettato luce sulle dinamiche della società aperta, sull’economia di mercato, sullo spirito innovativo dell’imprenditore, sui principi della cooperazione inintenzionale che si ha in una società libera e su ciò che rende tale società superiore a ogni esperimento interventistico e pianificatorio.

 

La vostra sede è a Soveria Mannelli. Com’è fare impresa in Calabria?

Si scontano tutti problemi del fare impresa in Italia con una intensità molto più forte che mette a dura prova la capacità di resistenza degli imprenditori. C’è un deficit cronico di infrastrutture materiali e immateriali, sicurezza, certezza del diritto, buoni rapporti con la pubblica amministrazione. La situazione del credito alle imprese è assai critica. Un giovane imprenditore di prima generazione fa una fatica immane per vedersi concesso del credito bancario. E spesso non ci riesce. Ma così si mina il futuro di quella pur gracile economia. Per non parlare poi di una classe politica che da troppo tempo non ha saputo progettare con lungimiranza e difendere gli interessi strategici di questi territori.

 

Le politiche sin qui seguite per lo sviluppo del Mezzogiorno non hanno portato a risultati positivi. Quale potrebbe essere secondo lei un approccio efficace? 

Bisogna spezzare innanzitutto la dipendenza dalla sfera politica. Al Sud molto ruota intorno alla politica e le mani tese sono ancora troppe. Il vero cambiamento va fatto dal basso, innescando processi nella società civile, nelle imprese, nella cultura. Altrimenti la cappa che pervade il Mezzogiorno diventerà sempre più opprimente. Bisogna smetterla con le politiche degli aiuti e ricalibrare gli interventi premiando chi innova, chi investe con meccanismi automatici e non discrezionali. Sono sempre convinto che una grande no tax area per il Sud sarebbe un grosso passo avanti. Servirebbe poi distruggere quella zavorra che è la criminalità e il segnale forte dovrebbe darlo la borghesia produttiva, professionale, culturale e politica prima di tutto.

Un tema ormai acquisito è quello della responsabilità sociale dell’impresa. Cosa significa concretamente secondo Lei?

La prima responsabilità sociale di un imprenditore è fare profitti. In caso contrario egli sarebbe non solo irrazionale, ma anche immorale. Detto questo credo che i valori di un’impresa non si debbano esaurire nel conto economico. L’imprenditore vive la realtà della sua impresa e delle donne e degli uomini chiamati a collaborare insieme a lui. È un mondo fatto di fatica e risultati da raggiungere, ma non solo. È una comunità, all’interno della quale – e qui parlo da imprenditore che ha esperienza diretta di quello che dice  – si creano relazioni di vicinanza, amicizia, condivisione, lealtà, compenetrazione. Il mondo dell’impresa deve ancora essere a lungo studiato da questo punto di vista. Così come le relazioni che l’impresa instaura col proprio territorio di riferimento, con l’ambiente circostante, con la comunità che vive fuori dall’impresa ma a essa vicina. 

 

Si dice che ogni crisi contenga in sé un’opportunità. Questi anni così difficili possono anche essere un’occasione di crescita per l’Italia e le sue imprese?

Le crisi servono anche a sanzionare comportamenti sbagliati e irrazionali e generano spazi di intervento per chi vuole innovare. La situazione italiana è però un po’ più complessa. Se non si affronta con decisione il nodo centrale, che è quello di un paese bloccato da tante rendite che impediscono di fare le riforme liberali che servono paese, se non si interviene subito disboscando privilegi che ogni categoria si è ritagliata, se non si fanno delle vere privatizzazioni, le liberalizzazioni, la riforma e lo snellimento della sfera politica e della pubblica amministrazione, gli interventi sulla previdenza non credo si andrà molto lontano.  Se non si riduce il debito pubblico attraverso questi interventi e attraverso il taglio della spesa improduttiva e si continuerà a spingere sulla leva fiscale, si soffocherà l’economia di questo paese.

di Giovanna Guercilena 

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