Giulio Questi «La letteratura mi ha salvato» (L'Eco di Bergamo)

di Andrea Frambrosi, del 30 Ottobre 2014

Da L’Eco di Bergamo del 30 ottobre

«Sentite questa»: è con un tono così, colloquiale, da racconti davanti al caminetto, che si sviluppa il magnifico «Se non ricordo male», frammenti autobiografici di Giulio Questi, raccolti dai giovani amici Domenico Monetti e Luca Pallanch (Rubbettino editore). È il racconto, frammentato, come bene dice il sottotitolo, ma fluviale e a tratti torrenziale di una vita, quella del regista, sceneggiatore, attore e scrittore bergamasco Giulio Questi (classe 1924), ma che diventa anche una fantastica cavalcata nella storia del cinema italiano dagli anni Cinquanta ai Novanta.
Il volume – che si divora, anzi, si sbrana, voracemente in poche ore tanto è avvincente – si apre con la descrizione degli avi del futuro regista con un racconto dai toni gotici e quasi horror nella rievocazione di un bisavolo contadino rimasto bloccato da una fortissima nevicata nella povera baita dove abitava con la moglie (siamo ai primi del ‘900), la quale muore improvvisamente di polmonite e il cui cadavere, intrasportabile, viene sistemato, in piedi, nel gelo della legnaia (la vicenda avrà poi un risvolto che non riveleremo).
Infanzia poverissima e travagliata ma avventurosa, quella vissuta dal piccolo Giulio, che a 17 anni sceglie di andare in montagna con alcune formazioni partigiane e ne diventa uno dei più attivi e intraprendenti protagonisti. Anni duri, durissimi, che Questi ha raccontato nel bellissimo, intenso libro di racconti «Uomini e comandanti» (Einaudi) che si è aggiudicato meritatamente il Premio Chiara, e che ricorda anche in questo libro proprio perché sono stati il fondamento della sua formazione di uomo.
La passione perla letteratura forse a Questi deriva dalla mamma, una donna curiosa e sempre intenta alla lettura, che non aveva finito nemmeno le elementari, ma che conosceva Checov a memoria. «Io – scrive Questi – mi sono salvato dallo sbandamento post bellico perché ho avuto la fortuna di amare la letteratura, per cui la mia preoccupazione era di riprendere l’università e di avere un po’ di soldi per sopravvivere». E dove li trova i soldi? Vende alcune armi che aveva tenuto con sé a un losco individuo probabilmente della nascente mala milanese, uno – lo descrive Questi – vestito proprio come i gangster dei film americani.
Dopo la maturità al «Sarpi», una laurea in Lettere nel cassetto, con in tasca trentamila lire e una vaga lettera di raccomandazione per incontrare Luchino Visconti, nel 1950 Giulio Questi parte per Roma: a Bergamo aveva fondato il periodico «La Cittadella» e girato con Corrado Terzi un documentario sull’amata Città Alta che nel 1949 era stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia e aveva già collaborato al «Politecnico» di Vittorini.
A metà degli anni Novanta al Torino Film Festival, durante una chiacchierata da cui era scaturita un’intervista, lo avevamo descritto così: possiede la parca frugalità di chi si è concesso tutto, negli occhi, che si illuminano improvvisamente, il riflesso del ricordo di esperienze che nessuno, tranne lui, ha vissuto; il sigaro perennemente tra le labbra e la voglia di dire ancora la sua.
«Sai cos’è che mi preme dirti?», ci aveva detto Questi. «Che io mi sono sempre considerato – anche se la parola può sembrare un po’ grossa – un poeta, mentre il cinema è un’industria». Eh, già, l’industria: ne parla diffusamente in questo libro, dove sono raccontate davvero come in un romanzo le sue vicissitudini produttive, i lavori arrivati in porto (pochi) e quelli, tantissimi, a cui ha partecipato. Racconta la sua splendida e spericolata amicizia con il montatore Kim Arcalli (li chiamavano «Jules e Kim»), racconta dei suoi viaggi in Colombia, dove la moglie aveva comprato una casetta sull’isola di Baru e dove si incontrava con Gabriel García Marquez: unavita che è davvero un film.

di Andrea Frambrosi

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