Viaggio al termine della Penisola

del 11 Novembre 2013

Da Alias, Il manifesto del 9 novembre 

Come ricordare l’opera di Federico Fellini a vent’anni dalla morte del cineasta? Suggeriamo un buon modo: leggersi “Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico”, pubblicazione dell’anno scorso di Rubbcttino Editore, nella collana cinema diretta da Christian Uva, disponibile al prezzo di 16 euro. L’autore è Andrea Minuz, uno studioso di cinema e cultura visuale di grandi capacità analitiche e sensibilità antropologica: a dimostrarlo, oltre a questo volume, basterebbe la sola lettura di un suo lavoro precedente, La Shoah e la cultura visuale, uno studio che nel caso invito a recuperare.
In questo caso, l’opera di Fellini è presentata da un punto di vista inedito, o- quantomeno- poco affrontato: quello politico-culturale (a rimarcare la scelta c’è anche l’appendice finale, una ricostruzione del carteggio tra il riminese e Andreotti, con alcune lettere). Piccola premessa: chi qui scrive, detesta quasi tutta la produzione felliniana- con l’eccezione di molti momenti di due o forse tre lungometraggi – c anticipa come la lettura del volume non lo abbia persuaso a cambiare opinione in merito. Tuttavia, c’è da aggiungere un “ma”, cioè come la suddetta valutazione, in quanto meramente personale, sia qui qualcosa che deve davvero importare poco se si considera la natura del lavoro in questione e si decide di rispettarla (come è doveroso che sia), dal momento che quello di Minuz va inteso come discorso non di critica ma di studio. Qualcosa che non cerca la persuasione ma semmai offre una riflessione: ragion per cui qualora si volesse apprezzare al meglio il libro, sarebbe auspicabile provare a mettersi nelle condizioni di «sospendere il giudizio” in merito ai singoli film, rovesciare la generale prospettiva interpretati va e concentrarsi sul cinema come pratica prima di tutto, sul senso complessivo di un modo di vedere da mettere in relazione con la cultura, società, politica, storia del nostro Paese. E in tal senso, diventerebbe quasi impossibile non ammettere come una ricerca del genere riesca in modo puntuale e sistematico a restituire un discorso sul cinema di Fellini in grado di indicarne tutta una sua complessità politico-culturale che il più delle volte, dalla maggior parte dei critici e studiosi del riminese. sembra essere rimasta limitata solo a quei singoli casi e riferimenti di indubbia evidenza, come per esempio Prova d’orchestra (1979) o il fascismo in Amarcord (1973). Ora, scendendo più nei dettagli, si può dire come lo studio in questione si articoli in una specie di doppio registro strutturale. Da una parte, la scrittura copre sostanzialmente l’arco cronologico della filmografia del rimincse, capitolo per capitolo, così da presentare il volume anche come una sorta di monografia. Dall’altra, ogni capitolo del libro offre l’analisi di motivi tipicamente felliniani messi in relazione con nozioni c temi di volta in volta storicamente coei alla produzione considerata e/o interpretabili come frammenti e passaggi importanti di ciò che si potrebbe definire la storia della mentalità dell’Italia contemporanea: dall’ideologia italiana post-bellica (cap. 1) alla della dolce vita (cap. 3); dal mito della romanità (cap. 4) al femminismo (cap. 5); dal terrorismo (cap. 6) all’avvento della televisione berlusconiana (cap. 7). Se però si fosse costretti a scegliere uno solo fra i capitoli e le nozioni o temi di questo Fellini politico, si sarebbe tentati di dire il cap. 2, dal titolo Mitobiografìa di una nazione, e l’interessantissima nozione del «modo di vedere italiano>>, ripresa da uno scritto di Giulio Bollati e necessaria allo sviluppo finale della tesi. Qui Minuz riesce in maniera mirabile a ragionare da antropologo culturale: nel presentare diversamente la natura del soggettivismo felliniano (una natura le cui radici affonderebbero nella nostra tradizione); nell’indicare dove e come il discorso autobiografico del riminese riconduca a quelle dinamiche e quegli aspetti propri del carattere nazionale, della cosiddetta “italianità” Già solo per questo il libro meriterebbe la lettura.

Gianluca Pulsoni

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