Perché (non) andare a scuola”, recensione e dialogo con l’autore Pierpaolo Perretti: “è il momento della parrhesia e dello stupore (Ermes Formazione)

di Giorgio Bellieni, del 15 Settembre 2022

Presentazione dell’Editore

“C’è un filo che lega tutti alla Scuola: per gli studenti è il loro presente, per gli adulti è dato dalla nostalgia di un periodo unico o semplicemente dai figli alle prese con lo studio. Gli insegnanti intrecciano questo filo: per loro la Scuola è un luogo dove passato, presente e futuro si compenetrano. Questo “saggio narrativo” nasce dall’esperienza e dal profondo disincanto che essa provoca. L’autore mette a nudo impietosamente i meccanismi con i quali molte scuole di oggi, alla ricerca di iscrizioni e successo, tradiscono la loro missione, ingannano studenti e genitori, opprimono il cuore di chi ancora crede nella formazione. Si smascherano dunque le valutazioni, il marketing scolastico e le false motivazioni con cui molti ragazzi, su suggerimento degli adulti, scelgono e vivono la Scuola. Pertanto, in vista di un orizzonte non rassegnato, l’autore propone anche nuovi percorsi di senso e di “studiosa meraviglia” per gli studenti e per i professori. Soprattutto per quanti sono alla ricerca del significato dello studio e per quanti, ancora innamorati dell’essenza dell’insegnamento, non possono adattarsi alla realtà attuale”. (Quarta di copertina)

 Premessa (non rituale)

Oggi  i libri si scrivono e pubblicano con difficoltà e banalità allo stesso tempo. I “buoni” libri che trattano di scuola possono provenire dalla responsabilità di Case Editrici impegnate come la RUBBETTINO, con una collana molto dignitosa su “Società e scienze sociali>Educazione”. Anche il prof. Pierpaolo Perretti, patrologo, ricercatore e docente di lettere nei licei, con la consapevolezza della sintesi di “maestro” e “testimone” affronta questa impresa letteraria assumendo la responsabilità e vocazione di appartenere al “corpo docente” in tempi non esaltanti per lo studio e l’insegnamento. Donandoci il frutto laborioso e pensoso del racconto dei suoi anni nella professione di insegnante, specialmente gli ultimi, attraverso l’inquietante Perché (non) andare a scuola, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2022. Accompagnato dalla illuminante Introduzione di A. Cuzzocrea (La Stampa) e Postfazione di S. Labate (Università di Macerata).

Attualmente la pubblica discussione (anche politica-elettorale) torna ad appiattirsi  sul piano dei mezzi scarsi (digital divide, risorse e stipendi), tecnologie e organizzazione “aziendale”. Appare vistosamente trascurata la vera questione del “senso” (“perduto”, nel solco del primo capitolo, parte per così dire destruens; “alla ricerca”, ispiratrice della seconda parte del libro, parte implicitamente construens), dei valori personali e sociali, dei fini alti di un ethos -laicamente- trascendente, che liberi dall’insignificanza e dalla visione strumentale e utilitarista l’esperienza scolastica di milioni di persone coinvolte.

 Perché (non) andare a scuola?

Il Libro si colloca  per un verso nella compagnia del filone degli insegnanti-scrittori (da M. Lodi e M. D’Orta ai recenti  D. Starnone, P. Mastrocola, D. Pennac, M. Lodi E. Affinati, M. Veladiano, C. Valerio, R. Vecchioni, A. D’Avenia…). Dall’altro, tra gli autori “preoccupati” ma che credono nella scuola e nella “vocazione” dell’insegnante (tra i tanti: N. Postman, La fine dell’educazione.  Ridefinire il valore della scuola; A. Bajani, La scuola non serve a niente; W. Tocci, La scuola, le api e le formiche. Come salvare la scuola dalle ossessioni normative; G. Reale, Salvare la scuola nell’era digitale);  distinguendosi dai catastrofisti o satirici che in materia non mancano, nelle librerie o al cinema. Può essere dedicato moralmente a “quanti sono alla ricerca del significato dello studio” e a “quanti, ancora innamorati dell’essenza dell’insegnamento, non possono adattarsi alla realtà attuale”. Lo stesso emblematico titolo del volume si fa punto di domanda radicale per l’Autore.

 

L’Intervista

D. Per un insegnante (che “in-segna”) o professore (che pro-fessa conoscenze e testimone di valori) o docente (che mostra) o maestro o educatore, piuttosto che istruttore, addestratore-mentore-mediatore-esperto-coach-influencer… qual è il cuore (ricordando la questione del core curriculum e il don Bosco sull’educazione “cosa di cuore” intesa non sentimentalmente ma nella sua profondità spirituale) della relazione con gli alunni e della dinamica complessa di un insegnamento-apprendimento non funzionalista (per il mercato), ma personalista per l’umanizzazione e l’emancipazione sociale e di sé?

 PP- La dicotomia funzionalismo-personalismo è al centro delle mie riflessioni e, mi auguro, del mio insegnamento. Indipendentemente dalle definizioni che ai ragazzi potrebbero sembrare astruse, ho imparato che in genere colgono benissimo questo problema. Quasi sempre sono portati a credere che frequentano la scuola per un generico dovere o appunto per ottenere qualcosa che li porti un giorno a lavorare e a una condizione economica soddisfacente. Nei dialoghi non tento di eliminare l’orizzonte lavorativo nelle motivazioni dello studio, ma di sfumarlo. Cerco percorsi di senso che motivino il loro presente e li appassionino ai contenuti con cui si confrontano, molto spesso lontani, fortunatamente a mio parere, dalle loro future professioni. Spesso non riusciamo ad appassionare ma forse possiamo indicare la necessità di un significato, il senso di un bene nascosto nelle discipline che valga non soltanto per un’attività futura ma anche per il presente, e che possa contribuire al nostro benessere. Credo che il cuore della relazione con gli alunni vada cercata proprio su questa strada e spero che le pagine del libro chiariscano ulteriormente in che direzione. I ragazzi, come i docenti, soffrono innanzitutto di una perdita di significato del loro studio, della loro presenza a scuola, molto spesso della loro stessa vita. Il professore non è un salvatore, tuttavia può aggredire il problema, portarlo alla luce e, quando riesce, evidenziare la debolezza di una visione utilitarista della formazione scolastica. Se c’è un cuore della relazione io credo che inizi a battere in virtù di questo sforzo. Anche quando esso non produce risultati evidenti, istintivamente i ragazzi ne colgono la genuinità e si sentono interpellati, talvolta disturbati, più in generale coinvolti o chiamati come persone. Il loro nome in quel caso non corrisponde più alla riga di un elenco ma è lo strumento iniziale di una relazione significativa. Per molte ragioni questa relazione può rimanere debole, ma credo che entrambi i soggetti (alunno e professore) ne avvertiranno dentro un quid significativo, un piccolo seme che si spera possa dare frutti.

 Copertina eloquente

D. Tra i vari significati possibili, come si può intendere la copertina  con il branco dei pesci? Oltre l’andare controcorrente, potrebbe adattarsi l’aneddoto citato spesso dal prof. G. Savagnone  sui giovani da incontrare, “pescare” nel loro habitat, il mare, ma i pesci non stanno sempre nello stesso luogo!”, perché cambiano rapidamente i loro riferimenti, linguaggi, posture verso la realtà?

 PP- Quando mi è stata proposta la copertina non avevo pensato a questa metafora ma, certo, i pesci evocano un movimento che ci appare libero e difficilmente controllabile. Nella scuola c’è l’esigenza non solo di persone in grado di andare controcorrente (penso soprattutto alle correnti di tante mode pseudopedagogiche) ma appunto di pesci che siano veramente tali, dunque in grado di spaziare nel loro habitat. A volte ho la sensazione che il conformismo pervada non solo gli insegnanti ma i ragazzi stessi. A causa di tale conformismo spesso crediamo di poterli pescare facilmente, magari attraverso un “prodotto multimediale” o qualcosa del genere, mentre dovremmo ricordarci che le esigenze e i bisogni della persona sono sempre più profondi. Anche una seria presa di coscienza dell’immensità del mare aiuterebbe gli educatori a rivedere i confini delle proprie azioni e incoraggiare alla costruzione, spesso faticosa, della libertà stessa dell’individuo. In qualche immagine simile i pesci azzurri vanno in direzione della bocca di un pesce più grande. Con qualche mappa marina potrebbero sfuggire a questa deriva, costruire un itinerario diverso per poi disegnare da soli le mappe di regioni sconosciute.

Metodo narrativo, approccio ermeneutico, ma che fare?

Rispetto alla saggistica in circolazione, il  libro predilige la via della narrazione e dell’autobiografia,  raccontando le domande, i bisogni, i dubbi (sulla “valutazione” e la meritocrazia, la collegialità) e il mettersi in discussione. Le riflessioni e le analisi nascono dall’esperienza quotidiana e dai “sentimenti” provati “in cattedra” (poco amata) e tra le mura scolastiche, nei corridoi o nelle defaticanti riunioni e consigli. Nell’impostazione prescelta si può cogliere qualche affinità  con la linea di ERMES, ispirata alla pedagogia e didattica ermeneutica esistenziale fondata sulla ricerca, piuttosto che su princìpi,  contenuti, teorie e dottrine.

D. Quanto può valere la visione ermeneutica, peraltro vicina all’interesse dimostrato per “l’arte maieutica” e il “dialogo”, anche per un docente di lettere nel rapporto non “trasmissivo” con i suoi studenti d’oggi? Ferme altre proposte interessanti, come quella di E. Morin che insiste sulla riforma delle istituzioni e del sistema scolastico, delle discipline e dell’insegnamento, a partire dalla “riforma del pensiero”, della conoscenza (significativa e “pertinente”, “ologrammatica”) e dal “meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”.   Ma che fare primariamente per rinnovare in modo profondo la scuola, oltre agli interventi istituzionali? Davanti a infiniti problemi (specchio dei mali e della crisi sociali) e tentazioni, mentre sembra prevalere la stanchezza, l’assuefazione, la demotivazione di studenti-docenti-genitori, per non parlare dei nuovi Dirigenti, il “tradimento” della missione della scuola, come recuperare “gratuità” e “bellezza”, attraverso gli auspicati “percorsi di senso e di studiosa meraviglia”?

 PP- Quella del dialogo non è soltanto un’attitudine professionale, almeno nel mio caso; deriva da una sorta di istinto. Purtroppo tutti sappiamo come questa impostazione nella scuola sia stata spesso svilita e confesso che trovare  la misura con una necessaria trasmissione delle conoscenze non sempre è facile. Vi sono tanti elementi che possono passare dal docente agli alunni, cose che il professore dovrebbe sapere e che mediante la parola possono passare nelle menti e nei cuori. Nello stesso tempo dobbiamo ricordare come i tempi medi dell’attenzione siano drasticamente diminuiti e una trasmissione unidirezionale rischia spesso di fallire. Non ritengo che si debba rinunciare allo sforzo di rafforzare le capacità di ascolto e non demonizzo i classici rimproveri all’alunno distratto, tuttavia sono convinto che l’apprendimento passi soprattutto attraverso la consapevolezza del sé. Mi sento un umile mediatore tra l’alunno e sé stesso. Da questo il motivo delle tante domande: perché studio? Chi sono? Cosa voglio essere? A cosa serve questo? Credo che tali questioni non siano solo formative ma siano utili nel processo di apprendimento. Con la loro distrazione, che cerchiamo di combattere con tanta inefficacia, mi pare che i ragazzi, spesso senza saperlo, non chiedano altro se non risposte a quelle domande. Possiamo dare qualche risposta, ogni tanto lo faccio anch’io, ma ancora più importante è aprire lo spirito a una ricerca i cui esiti non devono essere necessariamente previsti. La domanda di senso è assolutamente legittima e determinante, andrebbe cercata e accolta, eppure tante volte gli educatori l’hanno soffocata con raccomandazioni generiche. Il dialogo su questi temi è sempre fruttuoso e, in alcuni casi, costituisce l’inizio di una riflessione ancora più articolata seppure più lunga.

Non ho soluzioni da offrire per l’innovazione della scuola, per il raggiungimento del successo scolastico. Penso che un bagno di umiltà sarebbe davvero auspicabile per tutti, docenti e riformatori. In questo bagno dovremmo tutti riconoscere l’invalicabilità di un confine che in un processo come quello dell’insegnamento-apprendimento è ineliminabile, ovvero quello della libertà umana. La libertà però può essere talvolta sedotta, possiamo parlare ad essa. C’è poi un secondo ambito di riflessione che non si può evitare se ci si preoccupa di rinnovare la scuola, ovvero l’analisi dei limiti stessi della scuola vista dal di dentro. Docenti e alunni si muovono invece in un ambiente che non fa altro che parlare ufficialmente di successi, iscrizioni, valutazioni elevate, salvo poi rinnegare tutto nei corridoi. A me pare che sia venuto il momento della parrhesia. Dovrebbe essere una franchezza non disperata ma pronta a confrontarsi con una meditazione approfondita sul futuro, mediante la quale possano essere ridefiniti gli obiettivi effettivamente raggiungibili. Invece continuiamo ancora a proporre prove (penso agli esami di stato e ad altri momenti topici) distanti da ciò che la maggioranza dei ragazzi può effettivamente sostenere. Questa meditazione dovrebbe porsi il problema dei veri scopi dell’istituzione educativa: formare persone? Semplici lavoratori? Menti critiche? In realtà oggi su tali questioni c’è grande divisione negli ambienti scolastici e pertanto persino le conoscenze tradizionali a molti non sembrano mai essere indispensabili, sacrificate sull’altare di un “saper fare” di cui nessuno ha tracciato i confini.

Ci sarebbero molte altre tappe che in una risposta del genere non possono essere definite, ma, pur essendo come in mezzo a un fiume di cui non distinguiamo né l’una né l’altra sponda, credo che almeno non dovremmo mai perdere nelle nostre attività formative il senso della contemplazione di una bellezza multiforme. Forse non siamo noi a educare ad essa, ma costantemente da docenti possiamo educarci ad essa con i ragazzi. Anche per questo dovremmo sospendere l’ansia valutativa che fa diventare fine quello che era un mezzo(il voto)  e viceversa mezzo quello che era il fine (il sapere). Solo quando vi è condivisione di stupore nelle nostre coscienze e in quelle degli alunni i contenuti assumono forma e significato contribuendo anche alla nostra gioia.

 Agli IdR

D. Per concludere, da laico cristiano quale messaggio si può dare al mondo degli Insegnanti di Religione (IdR), ai quali anche si rivolge la Rivista, i quali con la scolarizzazione (pur parziale) della loro Disciplina condividono le gioie e le fatiche degli educatori scolastici, oltre ad ulteriori e specifiche fragilità e incertezze della loro professionalità, nella comune cornice di laicità della scuola e di alleanza educativa?

 PP- Posso rispondere solo con un abbozzo di riflessione. Le esperienze da me vissute a scuola mi hanno portato a pensare che gli IdR purtroppo si sentono quasi sempre ai margini della comunità scolastica e certamente le persone che vivono la scuola (docenti e studenti) spesso non aiutano, anzi confermano questo sentimento. L’esiguità di ore di insegnamento nella singola classe e la valutazione differenziata inducono molti a credere che l’insegnamento della religione sia qualcosa di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno. Per questo, da collega e da laico cristiano, sento solo di chiedere a tutti gli IdR, almeno a coloro che hanno provato questi sentimenti, uno scatto d’orgoglio, un rinnovato impegno all’interno della loro istituzione, che faccia percepire innanzitutto il desiderio di partecipare pienamente alla formazione e alla vita della scuola, spesso costituita da discussioni infruttuose ed estenuanti riunioni. Lo sguardo dato da una disciplina interna ai curricoli ma assolutamente unica per il suo essere in dialogo con l’assoluto, dovrebbe aiutarci a riscoprire il cuore della scuola stessa, richiamare al vero senso della formazione colleghi e alunni distaccandoli da tutte le tipiche sterili ansie scolastiche. Il compito dell’IdR all’interno di questa comunità dovrebbe essere in sintesi quello di elevare il tono dei discorsi dentro e fuori dall’aula, di proporre un orizzonte costantemente più ampio, contribuendo a combattere soprattutto la visione aziendale e utilitaristica della scuola e del sapere.

Nella condivisione del principio di laicità della scuola mi chiedo inoltre se non sia venuta l’ora della costituzione di un nuovo spazio nel quale siano accolti non soltanto gli IdR ma gli insegnanti cristiani. Da cristiano avrei bisogno di confrontarmi con gli altri innanzitutto per essere aiutato a vivere la mia fede nell’ambiente lavorativo, così come la mia professione. Quantomeno vorrei essere aiutato a riflettere sul rapporto tra l’una e l’altra. Più in generale, chiedo a me stesso e a tutti gli IdR: cosa facciamo per sostenere psicologicamente e spiritualmente  i cristiani nella scuola? Questa cura è forse sparita dai nostri orizzonti? Non dovremmo recuperarla trovando soprattutto nell’IdR un punto di riferimento? Lungi dall’assumere atteggiamenti di propaganda confessionale, credo che tutti gli insegnanti cristiani debbano interrogarsi sul senso della loro presenza a scuola cercando insieme proposte di azione e riflessione all’interno della nostra alleanza educativa.