Luca Diotallevi, La pretesa. Quale rapporto tra Vangelo e ordine sociale? (ParadoXa)

di FRANCESCO VALERIO TOMMASI, del 8 Ottobre 2013

Da ParadoXa Luglio/settembre 2013

«Cambiamento di epoca, non epoca di cambiamento»: così Papa Francesco ha descritto la situazione attuale, parlando ai giovani a Rio de Janeiro. Al di là dell’efficacia comunicativa, il gioco di parole coglie un punto decisivo. Certo, è sempre arbitrario suddividere lo scorrere della storia in categorie; questa operazione risulta poi ancora più ardua rispetto al tempo che soggettivamente ci si trova a vivere; e inevitabilmente ogni periodo è segnato da mutamenti e novità. Tuttavia, la crisi diffusa delle istituzioni, e l’inadeguatezza dei modelli concettuali classici di fronte ai problemi attuali, sono la spia di una difficoltà che si situa a un livello di profondità serio e ha caratteristiche strutturali. Con considerazioni analoghe si apre il testo di Diotallevi: «Quella in corso è la crisi di un mondo. Un giudizio del genere non è dettato da emozioni ma dalla utilizzazione degli apparati analitici sviluppati da Max Weber o da Peter Berger e Thomas Luckmann […] Quella in corso è la crisi di un mondo perché non è in crisi questa o quella istituzione, ma un intero set di istituzioni o quasi». Si tratta, nella prospettiva di un Autore interessato alla sociologia L. Diotallevi. La pretesa. Quale rapporto tra Vangelo e ordine sociale? della religione, della crisi anzitutto del mondo secolarizzato e dell’idea di storia lineare e progressiva. Ma, se l’idea di modernità si è costituita anche proprio attorno a questioni di religione, l’Autore può agevolmente passare dalla «parte» al «tutto»; e legare la conclamata crisi dello Stato nazionale con la fine di un modello in cui il primato della politica è tutt’uno con il principio di laicità. Un modello che ha condotto il cristianesimo ad essere nient’altro che una religione: ossia privatizzandolo, spiritualizzandolo, e sottraendogli il diritto – ma prima ancora gli strumenti teorici che ne permetterebbero la possibilità di intervenire nel dibattito sociale. Nella comprensione comune, infatti, condivisa dagli stessi credenti, è necessario indossare casacche neutrali e appunto «laiche», per giocare sul terreno pubblico. Lungi dal concedere il minimo spazio a qualsiasi tentazione «anti-» o «pre-» moderna, Diotallevi propone invece in queste pagine che hanno il pregio raro di coniugare rigore e profondità con scorrevolezza – quella che già altrove e più diffusamente aveva proposto come «una alternativa alla laicità» (cfr. l’omonima opera del 2010): radicata in una modernità altra rispetto a quella della laïcité, si tratta della tradizione anglosassone della religious freedom.Quel modello, organizzato sulla base della common law, permette una società poliarchica, e quindi veramente rispettosa del principio di sussidiarietà. La stessa Costituzione italiana e il Concilio Vaticano II ne sarebbero più o meno implicitamente ispirati – o quantomeno sarebbero ad esso accostabili, per l’impostazione che esprimono – non menzionando invece mai il principio di laicità. Con una mossa speculativa di rilievo, poi, la religious freedom viene inscritta qui in una tradizione di lunga durata, che troverebbe radice in una comprensione della storia e della società già agostiniane, e che arriverebbe sino a Cullmann e de Lubac. Su questo punto le pagine del testo segnano un punto di distacco ed originalità rispetto ai numerosi teorici del cattolicesimo liberale e/o liberista, semplicemente critici dei modelli continentali e aperti alle prospettive anglosassoni. Si chiama infatti in causa una considerazione teologica articolata, per cui «ogni istituzione sociale e dunque anche quelle politiche non sono pensate come espressione di un ordine naturale, ma come espressione della condizione tipica del saeculum» (p. 61). Cosa caratterizza questa prospettiva? «Per saeculum va inteso innanzitutto lo speciale sovrapporsi di due temporalità, quella della storia e quella dell’eternità […] Caratteristica della condizione secolare […] è il conflitto tra peccato e grazia» (ibid.). Non sono possibili zone grigie tra bene e male, non esiste una natura neutra, non si danno categorie a-cristiane, ossia indifferenti alla rivelazione. E soprattutto, «tanto il paradigma della laicità prevedeva e premiava il principio dell’ordine, quanto il paradigma del saeculum riconosce la insuperabilità del conflitto» (p. 62). Ogni istituzione, ma anche ogni schema concettuale, sono quindi marcati da provvisorietà strutturale rispetto a queste tensioni e contrapposizioni originarie, all’interno delle quali si snoda la vicenda storica con i suoi tentativi di fondare società materiali e sistemi teorici: ogni costruzione umana è intrinsecamente effimera, destinata a breve durata. In un’ottica cristiana, la crisi va capita sullo sfondo di questo orizzonte. Alla luce del quale Diotallevi vede anche un rinnovato spazio per la pretesa del messaggio cristiano (significativa la scelta, nel titolo, di riferirsi direttamente al «Vangelo»): e in modo che potrebbe apparire sorprendente, il rilancio della dimensione pubblica della religione viene declinato nei termini di rapporto tra «eucarestia e città». È il sacramento, infatti, come segno efficace e reale del trascendente, a rappresentare non solo il cuore più autentico della vita di fede cristiana, ma anche ad offrire la traccia più immediata della sua presenza nel mondo, prima di ogni possibile traduzione, riduzione o schematizzazione a categorie metafisiche, razionali, più accettabili, laiche, e magari politicamente corrette. Come elemento che contiene le due temporalità (finita ed eterna) e che si colloca al centro della dialettica tra peccato e grazia, la proposta relativa al sacramento si sposa con l’ordine (o meglio, il disordine) del saeculum. La dialettica tra secolo e sacramento costituisce un terreno a nostro giudizio davvero fecondo per impostare la questione della presenza cristiana nella società; e può forse essere coltivato anche altrimenti rispetto al discorso sulla libertà religiosa, cui il sacramento invece in queste pagine sembra ancora funzionale: «In ogni liturgia della messa, memoriale della morte in croce e della resurrezione di Gesù Cristo, è annunciata e operata anche una vittoria irreversibile, pur se ancora non portata a compimento, su troni e dominazioni, principati e potenze. È annunciata una vittoria irreversibile sulla tendenza che abita ogni istituzione sociale di questo mondo a farsi assoluta, foss’anche per scopi religiosi o sotto sembianze religiose» (p. 107). Il sacramento è visto da Diotallevi come contro-potere che dissolve ogni pretesa assolutizzante delle istituzioni terrene. Come fattore di garanzia, quindi, di quello spazio di libertà individuale e sociale che è il nucleo «sacro» da salvaguardare, perché garanzia dello spazio di coscienza che può accogliere la trascendenza e permettere alle virtù e alla creatività umana di svilupparsi. «Il sacramento [è …] ciò che contesta e vince, anche se ancora non debella, ogni pretesa di fare della città una realtà solo politica» (p. 103). Ma la contrapposizione tra il modello della libertà religiosa e quello della laicità è ancora intra-moderna. E la modernità che si richiama alla rivoluzione inglese appare essere non meno in crisi di quella che si fonda nel mito del 1789. Inoltre: è certamente vero che il principio di laicità nelle sue degenerazioni si invischia sempre di nuovo nei paradossi del rapporto pubblico/privato e rischia di essere estremamente riduttivo per la religione; ma è altrettanto vero che il modello americano o inglese, calato in un contesto sostanzialmente monoconfessionale come quello italiano, in cui per di più il potere civile non si è mai affrancato definitivamente dalla sfera di influenza o di vera e propria ingerenza della religione, si espone al pericolo di essere strumentale a nostalgie restauratrici o di religious pride. Se cioè la laicità sembra criticabile da «destra», la libertà religiosa suscita dubbi a «sinistra». Diotallevi stesso, esplicitamente, vuole sottrarsi a questa contrapposizione oramai sterile, e non a caso ulteriore retaggio della modernità. Vale la pena allora valutare sino in fondo i termini della sua proposta: l’applicazione delle categorie di destra e sinistra è sempre risultata ambigua nei confronti del cattolicesimo politico. Un tentativo di riorientarla è stato condotto – in modo particolare in Italia in epoca del bipolarismo, ma non solo – sulla base dei cosiddetti «principi non negoziabili» (o «valori non negoziabili»: e opportunamente nel testo Diotallevi si sofferma sul pericoloso oscillare, nei documenti magisteriali, tra i due sostantivi). Ad un’antropologia di fondo considerata decisiva e anzi teoreticamente fondativa – si veda il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, in cui le questioni sociali sono ricondotte alla «persona» e alla «famiglia» come ai loro fondamenti – farebbe seguito libertà di scelta su questioni economiche o istituzionali o sociali. Ma anche questo modello appare oramai in crisi: tanto è vero che vi sono tendenze per un verso più estreme, volte a cercare di applicare direttamente anche alle discipline sociali od economiche la dottrina e il magistero: e in questa direzione procede la cosiddetta Radical Orthodoxy, di cui Diotallevi è uno dei pochi lettori in Italia; mentre per altro verso ci sono cattolici dichiarati che, senza particolari riferimenti a principi di laicità, ma animati da estremo pragmatismo, professano l´irrilevanza pressoché totale, nell’agone politico, dell´appartenenza ecclesiale (si pensi al caso di Renzi). Come orientarsi in questo scenario in cui sono saltate le categorie di riferimento? Difficile dirlo. Anche Diotallevi si sottrae a risposte di comodo o scorciatoie, lasciando prudentemente aperte molte questioni. Ma proprio nella dialettica tra saeculum e sacramento, ci sembra, si può trovare un ottimo punto per ripartire. In ottica teologica il saeculum non è altro che un breve intervallo tra i due tempi di una storia (la redenzione e la parusia), e dunque sembra che l’azione umana sia pressoché inutile rispetto ad un’ottica così macroscopica («ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato»). Per altro verso la storia umana si snoda solo in questo intervallo, che è tutto ciò che possediamo; e le sue vicende sembrano indipendenti all’azione diretta di Dio. Il destino del mondo è già segnato, nella storia della salvezza; eppure è affidato completamente agli uomini. Da un punto di vista cristiano, questa contrapposizione tra nulla e tutto – il nulla del saeculum dal punto di vista dell’eterno, il suo essere tutto sub specie finitudinis – è la prima e più originaria: evidentemente anteriore a quelle tra destra e sinistra o tra libertà religiosa e laicità, che ad essa vanno orientate e da essa dipendono. Le caratteristiche del sacramento, per altro verso, rappresentano il contraltare costruttivo della condizione del secolo. E si presentano come particolarmente utili ad impostare il discorso sul ruolo pubblico della religione: si tratta di una presenza effettiva e tangibile, e che tuttavia non si riduce al visibile; la sua efficacia è rimessa all’attività concreta di coloro che vi partecipano, ma il suo fondamento non è disponibile; indica la modalità con cui la trascendenza più radicale, il «totalmente altro» può – senza nulla perdere della sua indisponibilità – consegnarsi, rendersi cibo e farsi completamente assimilare. Soffermandosi su secolo e sacramento ci si affida – si potrebbe obiettare – a categorie di portata talmente ampia da far svanire ogni differenza concreta e poter contenere al proprio interno ogni scelta mondana. Proprio questo, tuttavia, appare necessario in un’epoca di ricerca di nuovi fondamenti. Ammettere la vastità onnicomprensiva delle categorie fondanti il discorso cristiano permette di affermare la legittimità di ogni posizione e di ogni schema interpretativo che cerchi di affrontare i problemi del momento. Solo la negazione totale di uno dei due aspetti all’interno dei quali ci si deve muovere (indisponibilità della trascendenza, autonomia del creato) appare letale. Ma altrimenti, tutte le sfumature sono possibili. Sgombrare il campo da scomuniche reciproche ed esclusioni di principio appare il primo passo necessario ai cristiani per continuare ad avere una voce nel mondo. Se si assumono come fondanti le categorie propriamente cristiane, si riguadagna una vera libertà ed autonomia, di pensiero e di azione. A questo strato di profondità sembra dunque indispensabile ritornare: alla brevità del «secolo», che però è (quasi) eterna.

DI FRANCESCO VALERIO TOMMASI

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