“Quando si sostiene che in Italia manca una tradizione liberale di destra conservatrice ci si dimentica di fare il nome di Benedetto Croce, il filosofo e storico napoletano che avrebbe potuto essere il De Gaulle italiano”.
Parte da questa battuta la mia conversazione con Eugenio Di Rienzo, storico dell’Università La Sapienza di Roma, che dopo una impegnativa biografia di Galeazzo Ciano (Salerno editrice), che si candida a essere un longseller, è appena uscito con un nuovo lavoro, “Benedetto Croce – Gli anni dello scontento 1943-1948”, primo titolo di una collana dell’editore Rubbettino diretta dallo stesso Di Rienzo, “Diritto/Rovescio” (pagine 178, euro 14). Un libro che probabilmente prelude a una biografia politica completa di Croce, come si evince anche dalle parole di una conversazione dell’autore con il suo maestro Giuseppe Galasso.
E’ un testo denso, ricco di note e documenti inediti ma scritto anche con la verve polemica di chi vuol rimettere al centro del dibattito pubblico una figura importante del Novecento italiano ed europeo ma tutto sommato dimenticata. “Don Benedetto” o “il papa laico”, secondo le definizioni più o meno canzonatorie che gli furono affibbiate da rivali e finti amici per ridimensionarlo, non fu soltanto un filosofo storico e critico letterario, ma si ritrovò suo malgrado nel quinquennio della transizione 1943-1948 leader del partito liberale e punto di riferimento per italiani e stranieri che volevano capire o influire sulle sorti della nuova Italia che sorgeva dalle ceneri del fascismo.
La residenza di Villa Tritone a Sorrento, dove il filosofo aveva trovato rifugio dai pericoli della guerra incombenti su Napoli, era diventato un indirizzo obbligato per corrispondenti esteri, come Cecil Sprigge, ma anche per rappresentanti del governo militare alleato, antifascisti italiani e persino per gli emissari dei Savoia.
La posizione di Croce, dal manifesto del 1925, era quella di un antifascismo intransigente. Una intransigenza che accomunava nella condanna di Mussolini il re Vittorio Emanuele III che aveva firmato le leggi antiliberali, le leggi razziali e appoggiato l’entrata in guerra, ma anche l’erede al trono Umberto, di cui non sopportava l’inconsistenza politica e diplomatica, come dimostrò per esempio in una intervista al “New York Times” quando spiego l’entrata in guerra dell’Italia con il fatto che il popolo la voleva. Una gaffe diplomatica, osservava Croce, quando si trattava di risollevare le sorti del Paese e staccare le responsabilità degli italiani da quella del regime.
“Benedetto Croce era innanzitutto un patriota – argomenta Di Rienzo -. Al punto che la sua stessa tesi del fascismo come invasione degli iksos, come parentesi della storia nazionale, va interpretata in chiave politica. Al filosofo premevano innanzitutto le sorti dell’Italia in un momento in cui il leader britannico Winston Churchill cercava di attuare il piano pensato già prima dello scoppio della guerra: imporre una egemonia inglese nel Mediterraneo, togliendo ogni velleità all’Italia di tornare a essere una media potenza dopo le ambizioni imperiali. In questo senso è istruttivo un appunto del ministro degli Esteri Anthony Eden del 5 luglio 1945 in cui si affermava che l’Italia doveva pagare il prezzo della sconfitta perdendo le colonie africane, il Dodecanneso, la penisola istriana, i centri della Dalmazia, ma anche l’Isola d’Elba. Le isole antistanti la Sicilia, Pantelleria Linosa e Lampedusa dovevano entrare con Malta in un commonwealth mediterraneo sotto l’egida inglese”.
A questi aspetti di politica estera era legata la questione istituzionale oltre al destino di Vittorio Emanuele III e del governo Badoglio. Nel famoso “discorso della caffettiera” pronunciato alla Camera dei Comuni Churchill aveva sostenuto che quando c’è una caffettiera bollente si vuole un manico per maneggiarla. L’allusione era all’Italia , il manico erano il governo Badoglio e il re screditato. Due personaggi che potevano essere funzionali alle mire egemoniche inglesi. “Liberale ma anche convintamente monarchico – osserva Di Rienzo – Croce non ci stava. Per questo aveva ipotizzato una reggenza che escludesse sia Vittorio Emanuele III sia il figlio Umberto. L’erede al trono doveva essere il bambino Vittorio Emanuele IV e la reggente sua madre Maria Josè, donna di sentimenti democratici molto legata al filosofo napoletano”.
L’ipotesi della reggenza venne sostituita da quella della luogotenenza. Il riottoso e anziano sovrano fu convinto da Enrico De Nicola a promettere che avrebbe nominato luogotenente del regno il principe Umberto in vista di una transizione morbida per salvare la monarchia.
A scompaginare i piani degli antifascisti reduci da un litigioso congresso a Bari dove avevano tuonato contro Badoglio e il re, era intervenuto intanto Togliatti, rientrato in Italia a fine marzo 1944 con una sorpresa concordata con Mosca: la cosiddetta “svolta di Salerno”. La priorità era la lotta antifascista, la questione istituzionale sarebbe stata rinviata al dopoguerra, intanto bisognava collaborare, anche entrando nel governo Badoglio. Tra i ministri (senza portafoglio) si ritrovò anche Benedetto Croce. Era la seconda volta che ricopriva incarichi ministeriali, la prima era stata con Giovanni Giolitti. Un ruolo che non si confaceva al filosofo e direttore de “La Critica”. Anche perché doveva convivere con chi (Togliatti) da subito lo accusava di non essere mai stato un vero antifascista, ma soltanto un conservatore proprietario terriero interessato a salvaguardare i propri interessi.
“Gli anni dello scontento”, per il quasi ottantenne Benedetto Croce (classe 1866), furono tali anche per le divisioni all’interno della sua stessa famiglia culturale e politica. Cruciale fu l’insanabile disputa sul Partito d’Azione con il suo geniale e amato allievo, lo storico Adolfo Omodeo, che il filosofo aveva destinato a dirigere l’Istituto di studi storici. “Croce – dice Di Rienzo – aveva acconsentito in un primo momento all’iscrizione di Omodeo al PdA a patto che fosse riuscito a trasformarlo in un partito socialdemocratico. Obiettivo irrealizzabile. Il filosofo ruppe anche con Guido De Ruggiero perché non tollerava il filocomunismo degli azionisti. ‘Questi – diceva – vogliono fare la rivoluzione con la milizia rossa’’”.
Erano gli anni anche delle rinnovate polemiche con Gaetano Salvemini, con Ferruccio Parri, con Palmiro Togliatti e Giorgio Amendola. “Insomma, Croce – conclude Di Rienzo – affermava la sua posizione di liberale conservatore. Conservatore perché diceva di voler conservare le cose buone, come la monarchia costituzionale che aveva fatto l’unità d’Italia. Liberale senza aggettivi, perché in quel termine è implicito anche quello di democratico. Mentre non tutti coloro si qualificano come democratici, vedi i comunisti, sostengono i valori della libertà. Il mio libro parte da questo punto, contro la falsa immagine di un Benedetto Croce buono per tutte le bandiere, un papa laico liberal-progressista, come lo ha dipinto per esempio Eugenio Scalfari, che avrebbe dovuto coesistere amabilmente con Gaetano Salvemini (da cui lo divideva tanto, a cominciare dal giudizio su Giolitti), Luigi Einaudi (con cui polemizzo sulla differenza tra liberismo e liberalismo), Giovanni Amendola e Piero Gobetti, di cui non condivideva il furore giacobino. A mio avviso al filosofo napoletano meglio si attaglia la definizione di un De Gaulle italiano mancato”.
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