Ma la crisi è orfana di un racconto (Avvenire)

di Marco Girardo, del 6 Luglio 2012

Da Avvenire – 5 luglio 2012
In un libro di Massimo Calvi si affaccia l’ipotesi che l’attuale congiuntura economica negativa sia determinata da un’incrinatura della fiducia. Il «movente»? L’avidità

Il “rumore bianco” della civiltà post-industriale rischia di coprire la possibilità stessa di comprendere le ragioni di una crisi finanziaria che stritola l’economia mondiale da cinque anni e ha sabotato addirittura le fondamenta della casa comune europea. È solo il paradosso di una ridondanza informativa in grado di confondere anziché spiegare, distogliere lo sguardo invece di metterlo a fuoco? Ogni giorno, da mesi, siamo avviluppati da una coltre di notizie in tempo reale che vorrebbero decifrare i codici della crisi.

Ma servono davvero a “capire la crisi”? La copertura mediatica multi-tasking – dai cellulari alla televisioni all news – è pressoché totale. Eppure, lo choc più forte dalla Grande Depressione degli anni Trenta pare tuttora orfano di una vera narrazione. Di un racconto capace di andare al cuore del problema e, grazie a ciò, illuminare l’insieme. Il fatto che una via d’uscita appaia lontana dipende anche da una consapevolezza ancora sfocata.

Potrebbe essere un problema di prospettiva: chi partecipa da narratore finisce per subire le regole d’ingaggio. Il racconto real timeè deformato cioè dalla stessa accelerazione alienante – la tecnologia applicata alla finanza: turbo-finanza – che ha contribuito a scatenare la crisi. Questioni di «Dromologia», utilizzando il neologismo coniato da Paul Virilio per indicare la scienza (o logica) della velocità, soprattutto nelle relazioni tra società e guerra: «La Storia — sostiene Virilio – progredisce alla velocità dei suoi sistemi di armamenti», e i sistemi di armamento della finanza contemporanea sono l’informazione in tempo reale e gli strumenti derivati. Anche le analisi più meditate, tuttavia, danno spesso l’impressione di mancare il bersaglio nel tentativo di raccontare cos’è successo – e perché è successo – dal 2007 a oggi. In questo caso il problema non è il fattore temporale, ma sono gli apparati ermeneutici e, in fine dei conti, i riferimenti antropologici.

Negli ultimi due anni la comunità globale degli economisti, rinunciando ai tecnicismi, ha messo a disposizione di un vasto pubblico decine di saggi sulla crisi. Come la brillante analisi di Carmen M. Reinhart e Kenneth Rogoff (Questa volta è diverso) sui debiti pubblici. O Il crollo. Too big to fail di Andrew R. Sorkin, che denuda le gambe d’argilla dei colossi bancari stile Lehman Brothers. Potenti sono pure Bancarotta. I:economia globale in caduta libera del Nobel Joseph Stiglitz e il recente La crisi non è finita di Nouriel Roubini e Stephen Mihm. Ma dietro le analisi più raffinate e incisive compare quasi sempre il fantasma del paradigma classico dominante: l’homo oeconomicus. Che conosce un solo criterio di condotta, quello economico, e un solo comportamento razionale: l’interesse esclusivo per la cura dei suoi propri interessi individuali. E dall’homo oeconomicus deriva poi, con il passaggio all’ economia neoclassica, l’epigono chiamato «investitore razionale» capace di muoversi in un mercato, proprio per questo, sempre «efficiente». Persino Robert J Shiller, dopo aver elaborato anni fa il concetto di «esuberanza irrazionale», mettendo in dubbio la capacità esplicativa di un simile paradigma, nel suo ultimo lavoro Finance and the good Society, non ancora tradotto in Italia, declina l’homo oeconomicus nella nuova versione dell’uomo belligerante che trova proprio nell’ ambito della finanza un teatro consono all’esprimere in modo meno distruttivo di quanto accadeva in passato con le guerre una caratteristica fondante la società umana: l’avidità.

È l’efficacia razionale di questo «movente» – e prima ancora la sua ineludibilità – che nel libro in uscita per Rubbettino Capire la crisi Massimo Calvi prova invece a scalfire. Permettendo così di rileggere da un’altra prospettiva quanto accaduto dal 2007 a oggi. L’uomo non è a una dimensione, quella economica. L’uomo si definisce nella relazione. E proprio per questo «nessuna spiegazione è così soddisfacente e cristallina come quella che porta a identificare il vero focolaio della crisi in uno preciso stato dell’animo umano: l’avidità». Si rovescia il presupposto antropologico: l’egoismo «classico» nella sua versione turbo-capitalistica, l’avidità, non è la norma,ma un corollario distorto. Partendo da questa visione dell’uomo e dell’economia, che affondano le radici nella Caritas in veritate di Benedetto XVI, Calvi ripercorre le tappe dell’ultima crisi: dalla grande bolla dei «mutui suprime» all’Europa schiacciata dai debiti pubblici, passando per la «caduta dei giganti» bancari e le complicità delle agenzie di rating. Riavvolgendo il nastro e rivedendo la pellicola con occhi nuovi, allora, si può «capire la crisi». E le risposte agli interrogativi che tutti si pongono – Chi l’ha originata? Di chi sono le responsabilità? Quanto può durare? – in fin dei conti si rivelano «molto semplici». A partire dalla prima: quella che stiamo attraversando è prima di tutto una crisi di fiducia.

La fiducia, in termini economici, non è cosa da poco. «Appartiene – ricorda Calvi – alla categoria del capitale sociale di una comunità, piccola o grande che sia. Ci vogliono decenni per costruire un patrimonio di fiducia, può bastare un niente per distruggerlo». Peccato che a minare il terreno non siano stati solo stati i mercati, ma anche gli Stati. O meglio, precisa Calvi: quella «mano pubblica tornata prepotentemente in auge con le richieste, per contrasto, dei neokeynesiani: sono stati spesso i regolatori e gli Stati a favorire l’indebitamento che ha acceso la miccia. Ed è questo patto perverso tra fautori del capitalismo d’assalto e promotori della mano pubblica a fornire il terreno migliore per il proliferare dell’ avidità. Capitalisti sì, ma senza rischi. Irresponsabili, ma protetti. Attaccati al denaro, ma lontani anni luce dalla realtà». E la realtà più vera è quella del lavoro. Il dramma della disoccupazione. Su questo più che su ogni altro problema bisognerebbe concentrarsi. Un premio Nobel, l’eterodosso Paul Krugman, il suo ultimo libro (Fuori da questa crisi, adesso!) lo dedica non a caso «Ai disoccupati, che meritano di meglio ». Partendo dalla considerazione che la crisi «sta creando un danno colossale soprattutto sul piano umano». Lo ha saputo raccontare, probabilmente insuperato, un altro Nobel, ma per la Letteratura: John Steinbeck con la saga della famiglia Joad. Furore resta ancora oggi, insieme all’opera di Milton Friedman e Anna Schwarz, una guida imprescindibile per «capire» una Grande Depressione.

Di Marco Girardo

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