Come vivere nell’impero dell’algoritmo (Startmag.it)

di Michele Magno, del 17 Giugno 2023

Domenico Talia

L’impero dell’algoritmo

L'intelligenza delle macchine e la forma del futuro

Imparare a immaginare il futuro per evitare che per noi lo immagini soltanto l’intelligenza artificiale. Il Bloc Notes di Michele Magno

Pubblicato nel 2021, “L’impero dell’algoritmo. L’intelligenza delle macchine e la forma del futuro” (Rubbettino) è un testo in cui vengono affrontati con grande semplicità e chiarezza i temi più innovativi del mondo digitale. Il suo autore, Domenico Talia, professore ordinario di ingegneria informatica all’Università della Calabria, ci ricorda che gli algoritmi sono procedure per la soluzione di un problema o per il calcolo di un risultato tramite una sequenza di passi operativi elementari. Secondo questa definizione generale, ognuno di noi tutti i giorni si serve di algoritmi: quando prepara il caffè a casa con la caffettiera, cuoce gli spaghetti, guida la sua auto o fa la spesa n un supermercato. Dunque, gli algoritmi -che oggi rappresentano gli elementi più sofisticati nella gestione dei processi industriali, scientifici e organizzativi- hanno una storia millenaria.

Tuttavia, il termine “algoritmo” è legato al nome del matematico arabo (trattenete il fiato) Abū Ja’far Muhammad ibn Mūsā Al-Khwārizmī, vissuto intorno all’800 d.C. È suo un libro, successivamente tradotto in latino, intitolato “Algoritmi de Numero Indorum” (825). È considerato il più importante trattato antico sul sistema numerale indiano, e ha permesso la diffusione del sistema dei numeri indo-arabi in Europa. Contiene numerose procedure di calcolo espresse come sequenze di operazioni matematiche, algoritmi, appunto. Utilizzando anche questo materiale, il matematico toscano Leonardo Pisano, più noto con il nome di Fibonacci, scrisse nel 1202 il “Liber Abaci”, i cui numerosi algoritmi tuttora si usano frequentemente. Molti di essi, peraltro, sono stati sviluppati in diversi programmi software eseguiti dai calcolatori moderni.

Ma andiamo ancora più indietro nel tempo. Le tavolette di argilla conservate al Louvre e al Museo di Berlino dimostrano che già verso il 1800 a.C. i babilonesi usavano algoritmi per calcolare l’ampiezza di un’area agricola, il volume di una vasca da scavare, la serie delle potenze successive di 2. Da allora per alcuni millenni gli algoritmi sono stati usati soltanto da una cerchia ristretta di matematici, ingegneri e scienziati. Con l’invenzione del calcolatore elettronico, avvenuta poco prima della metà del Novecento, e con la sua successiva larghissima diffusione, gli algoritmi ormai governano tutti i computer del pianeta e contribuiscono alla automatizzazione di gran parte delle attività umane.

Come sottolinea giustamente Talia, gli utenti degli smartphone e dei computer hanno per lo più un’idea assai vaga delle misteriose procedure matematiche che li fanno funzionare. A scuola cibè stato insegnato cosa è un’equazione o un’espressione algebrica, ma nulla o quasi ci è stato detto in merito agli algoritmi. Sono loro e la loro forma operativa, che si incarna nei programmi software eseguiti dalle macchine, il nuovo “logos”.

Uno studioso americano, Robert Proctor, ha coniato un neologismo, “agnotologia”, per descrivere lo strano fenomeno che produce ignoranza tramite i mezzi di informazione più avanzati. Il web, le piattaforme social, i blog, i sistemi di messaggistica istantanea stanno diventando una sorta di organismo collettivo -sostiene Talia- che può generare una “economia dell’ignoranza”. Proctor ha suggerito alcune semplici regole di buon senso che ognuno di noi, se agisce in buona fede, dovrebbe seguire quando si informa sia nella Rete sia attraverso i media tradizionali. Primo: chiedersi quale sia la fonte delle affermazioni o delle notizie. Secondo: domandarsi sempre qual è la reputazione di quella fonte. Terzo: riflettere su chi può trarre vantaggio dall’affermazione o dalla notizia che stiamo leggendo.

Morale della favola: come nel passato quelli che non sapevano leggere e scrivere erano alla mercé degli istruiti, bisogna imparare a pensare per non essere sudditi del pensiero degli altri. Imparare a valutare per non essere soltanto oggetto di valutazione. Imparare a calcolare per non essere soltanto calcolati da Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple. Imparare a prevedere per non essere soltanto strumento della previsione degli algoritmi. Imparare a immaginare il futuro per evitare che per noi lo immagini soltanto l’intelligenza artificiale. In altre parole, viviamo in un tempo in cui il sol dell’avvenire è sempre più digitale e non scalderà tutti allo stesso modo. Tuttavia, ancora oggi sono molti gli italiani, e quanti li rappresentano nelle istituzioni della sovranità popolare, che non sembrano comprendere questa inedita realtà. Realtà che non viene insegnata nelle scuole, sebbene riempia ormai le giornate degli studenti. Giovani che tra qualche anno saranno lavoratori e cittadini adulti in un secolo ormai plasmato dalle “macchine che obbediscono ai bit senza peso”, come scriveva profeticamente nel 1985 Italo Calvino nella prima delle sue “Lezioni americane”.