Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema (it.paperblog.com)

di Daniela Sessa, del 13 Luglio 2018

Marco Olivieri, Anna Paparcone

Marco Tullio Giordana

Una poetica civile in forma di cinema

L’intervista. Fare cinema, fare letteratura. Intervista a Marco Olivieri sul libro Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema

 

Marco Olivieri scrive di cinema, quello cosiddetto d’impegno civile e, se è concesso, anche estetico. Di Roberto Andò il cui cinema incarna il mistero di esistenze e di memorie risolte da una macchina da presa raffinata e suggestiva. Di Marco Tullio Giordana che ritrae “Pezzi di storia densi di ambiguità e dal fascino perverso, spesso rimossi da una realtà nazionale che tende a rifiutare ciò che appare sgradevole o non pacificato”. Un giudizio, questo, su “Sangue pazzo” da estendere a tutta la concezione della scrittura e della regia di Giordana. Marco Olivieri ha pubblicato un saggio sul cinema di Roberto Andò, “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” ora in ristampa per Kaplan, ed è in libreria con “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino), scritto con Anna Paparcone della Bucknell University negli Stati Uniti (ha scritto saggi anche su Pasolini, Garrone, Pif e Quatriglio) e con i suggerimenti di Christian Uva, direttore della Collana Cinema di Rubbettino. Il libro di Olivieri ripercorre la cinematografia di Giordana dagli esordi nel 1980 con “Maledetti vi amerò” fino a “Lea” -film per la televisione-, passando attraverso i capolavori del cinema d’impegno: “I cento passi”, “Romanzo di una strage”, “La meglio gioventù”, “Sanguepazzo”, “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, solo per citarne alcuni. Dal lavoro di Olivieri e Paparcone emerge tutta la cifra del cinema di Giordana teso tra memoria e letteratura, volto a indagare i misteri della storia italiana, a filmare la storia di una nazione molto spesso racchiusa dentro conformismo e ideologie asfittiche, un Paese (come si legge nella premessa) “condannato all’incompiutezza”. Al centro Pasolini, un personaggio che portava in sé il dramma: di uomo, di poeta, di regista, di intellettuale. Interessante nel libro è il rapporto tra il regista e Pasolini, un rapporto ambivalente fatto anche di tensioni e prese di distanza. Non è solo l’analisi su “Pasolini, un delitto italiano”, il film del 1995 che ricostruisce le indagini sul delitto e la risonanza mediatica dello stesso come “scatenamento dell’interpretazione”. Pasolini è il coprotagonista del libro: recuperarne la memoria è per Giordana, e forse per gli stessi autori, “una forma di resistenza…rispetto a un clima di anestesia politica e morale”, è riflettere sulla morte come “montaggio della vita”. Il libro di Olivieri e Paparcone ha il pregio di una scrittura lucida, talvolta didascalica come si addice a un lavoro saggistico, rigorosamente analitica e precisa nell’idea di fondo che il cinema di Giordana -come quello di Andò- sia letteratura per immagine, storia per immagine. Due citazioni letterarie per tutte: la bambina pascoliana del film di esordio e la citazione di “Supplica a mia madre” di Pasolini. Le immagini della storia sono quelle dalla Resistenza di “Notti e nebbie” (da un romanzo di Carlo Castellaneta) alle mafie e ai  testimoni di giustizia. E’ qui che il cinema di Giordana rivela il significato del suo impegno “dar voce non tanto alla Storia, ma alle storie, quelle dei vincitori ma anche dei vinti, perché è solo in questo modo che si può rimettere in moto la possibilità della convivenza”. Abbiamo posto a Marco Olivieri alcune domande sul libro.

-Il libro su Giordana è scritto a quattro mani. Racconta la genesi del libro?
Ho conosciuto Marco Tullio Giordana in occasione della presentazione del mio volume dedicato alla filmografia di Roberto Andò. Subito maturò in me l’idea di avviare un nuovo progetto che esplorasse i capitoli più noti e quelli meno conosciuti realizzati. È stato proprio lui a segnalarmi una studiosa che stimava, Anna Paparcone, che insegna alla Bucknell University negli Stati Uniti, era in procinto di dedicarsi a un’analisi approfondita delle sue opere. Ci siamo trovati d’accordo di scrivere un libro sul cinema di Giordana che ne esplorasse gli aspetti tecnici, estetici e tematici e capace di diventare punto di riferimento sia in Italia sia negli Stati Uniti. Il lavoro insieme, grazie ai continui confronti via Skype, è stato proficuo e ci siamo avvalsi dei suggerimenti di Christian Uva, direttore della Collana Cinema di Rubbettino.

-Tra le tante definizioni e riflessioni sul cinema di Marco Tullio Giordana vi è quella di Giovanni Grazzini che sul modo di esporre la storia da parte di Giordana afferma “Giordana non vuole scordarsi di essere un cinefilo”. Concorda con quest’affermazione? Chi è il cinefilo Giordana?
Giordana è un regista che s’inserisce in una tradizione significativa, non a caso abbiamo dedicato il libro alla memoria di Francesco Rosi. Possiamo definire la sua una vera cinefilia, con passioni che si estendono da Rossellini e De Sica a Loach e i Dardenne, senza dimenticare Bellocchio e Amelio. Da qui la nostra analisi serrata delle componenti tecniche e filmiche che caratterizzano il suo mondo per immagini: dall’amore iniziale per la pittura all’apporto di elementi melodrammatici e a una ricerca creativa sull’essenza di ogni inquadratura.

-Cinema e Letteratura, Giordana e Pier Paolo Pasolini. Cosa è stato questo connubio o cosa sarà?
Sin dal titolo, evochiamo Pasolini e, nel libro, s’indaga in profondità sulla dialettica che investe il cinema di Giordana e la letteratura e sul suo rapporto costante con i vari aspetti della personalità di Pasolini, anche del regista Pasolini, con il quale Marco Tullio si confronta a volte direttamente e a tratti in maniera implicita. Scriviamo «la sua poetica civile in forma di cinema contempla le dimensioni familiari e affettive, consce e inconsce, fondendole in una relazione vitale con la collettività, la storia, la politica, la letteratura, la poesia e la musica».  Così ci siamo sforzati di analizzare le relazioni fra immagine e scrittura e il continuo richiamo alla figura pasoliniana, vista non in modo agiografico ma funzionale a sollecitare pensieri e interrogativi sull’Italia e le sue irresolutezze.

-Il cinema di Giordana, e quello di Andò, è oggetto del suo studio. Quanto sono diversi i due registi nell’uso della macchina da presa? Sebbene nel modo di illuminare i primi piani appaiono simili…
Sì, sono due autori profondamente differenti e, di conseguenza, il loro uso della macchina da presa, come del montaggio e delle musiche o della sceneggiatura, corrisponde a suggestioni e ispirazioni, se non antitetiche, comunque davvero diverse. Nei primi e primissimi piani, potremmo cogliere, pur nelle differenze già evidenziate, vicinanze con l’idea di Bergman sui volti come rivelazione dell’anima, oltre alle affinità nel rapporto tra scrittura e cinema che possono vantare, sul piano delle radici, punti in comune con autori quali Truffaut, ad esempio. In relazione al cinema di Andò, ho approfondito gli elementi romanzeschi delle sue storie per immagini: romanzesco come «opzione dell’immaginazione che insegue l’aspetto congetturale della vita, quella zona che si colloca tra i fantasmi del passato e il non detto», come ricorda il regista palermitano. Nel libro sul cinema di Giordana, invece, io e Anna Paparcone abbiamo analizzato altre sfaccettature, come il rapporto dialettico che mette in gioco realtà e ricostruzione filmica. Crediamo che il cinema di Giordana adotti un approccio di tipo “realista” ma che allo stesso tempo non si astenga dal proporre momenti in cui emerge un certo cinema di genere, di intrattenimento o di metanarrazione sul cinema stesso. Non mancano, nei suoi film, scene di pura invenzione e di finzione che non trovano riscontri nella realtà storica analizzata. In questo senso, come si legge nel libro, si accolgono con favore le riflessioni di studiosi come Millicent Marcus e Pierpaolo Antonello che, in recenti dibattiti, hanno sostenuto la possibilità di coesistenza nello stesso prodotto artistico di categorie antitetiche come quella del realismo e del postmodernismo.”

-Il cinema di Giordana è d’impegno civile, dove l’impegno, come affermate nel saggio, coincide con la capacità di porre domande e non di dare soluzioni, un cinema non timido né reticente. Si pensa soprattutto a “I cento passi” e “Lea”, e anche il lavoro per la televisione che è mezzo generalista per eccellenza. Questo investe in un certo senso il ruolo dell’intellettuale?
Questo elemento investe decisamente il ruolo dell’intellettuale e la sua capacità, questa sì pasoliniana, di porre domande scomode e analisi non convenzionali e di alimentare un dubbio utile per interrogare la realtà. Non a caso citiamo Gustavo Zagrebelsky quando osserva che «al di là delle apparenze, il dubbio non è affatto il contrario della verità. In certo senso ne è la riaffermazione, è un omaggio alla verità». Il dubbio contiene un elogio della verità, ma di una verità che ha sempre di nuovo da essere esaminata e riscoperta. Così l’etica del dubbio non è contro la verità, ma contro la verità dogmatica, che è quella che vuole fissare le cose una volta per tutte e impedire o squalificare quella cruciale domanda: di questo si occupa pure il cinema di Giordana, compresa l’assenza di un atteggiamento snobistico nei confronti del mezzo televisivo, fondamentale per incidere sulla realtà.

-Scrivere di cinema. Si nota, anche nel suo saggio su Roberto Andò, come la scrittura riesca a far vedere il film…
Prima di tutto credo che la mia scrittura risenta della passione per letteratura e cinema e sono felice se sono riuscito a far percepire sensazioni legate alla visione e alla mia interpretazione di questi film. I due saggi, su Andò e su Giordana, manifestano l’intenzione di coniugare passione e competenza scientifica con una scrittura che possa coinvolgere anche i non addetti ai lavori. Se l’esperimento è riuscito, sono soddisfatto.

-Gli elementi cinematografici di Giordana: la fotografia e le musiche
Considerando la fotografia, si può sostenere che Giordana valorizzi il ruolo del cinema stesso come strumento di potenziale accesso all’anima dei suoi spettatori, coinvolti da una storia che investe l’interiorità e i destini umani e sentimentali di personaggi ai quali in molti si sono affezionati. Questo riguarda La meglio gioventù ma, in generale, la sua filmografia. Ogni scelta cromatica, pensiamo alla fotografia di Roberto Forza, è frutto di intuizioni e ispirazioni artistiche e non manca un confronto intenso che coinvolge immagini e motivi musicali. L’elemento sonoro rappresenta una lente deformante e a volte ingrandente, che mette in contatto con una dimensione altra, lirica o astratta, nei suoi film, musiche non originali e composizioni originali, dal melodramma alle canzoni.

-Una provocazione: Andò e Giordana, quale cinema preferisce e quale dei due racconta meglio la contemporaneità?
In forma esplicita o implicita, ogni autore si confronta con la contemporaneità. Da parte mia, sono grato a entrambi per lo scambio intellettuale che si è creato e penso che, esplorando il loro cinema, possano emergere dettagli e chiavi di lettura preziosi per esaminare questo presente inquieto, in un ponte che lega Storia, passato, memoria (spesso non elaborata o rimossa), presente, individui e massa, interiorità e inconscio collettivo. In generale apprezzo come Andò e Giordana si pongano nel solco della tradizione di Luchino Visconti.

-“Nome di donna” è l’ultimo film di Giordana, uscito nelle sale a marzo e non compreso nel vostro saggio, è stato un insuccesso di critica e botteghino. Quando l’impegno civile diventa retorica?
In una futura edizione aggiornata, analizzeremo Nome di donna e l’inedito Due soldati, girato per la Rai. Nella storia di ogni regista, ci sono film accolti meglio e altri meno bene. Noi, nel volume, ci siamo confrontati ad esempio con il mondo accademico anglosassone e statunitense, che ha sempre riservato attenzioni al suo cinema, e a volte ci siamo discostati da certe letture e interpretazioni. Nel complesso, direi che un antidoto alla retorica sia l’intenzione da parte di Giordana di tenersi lontano dall’agiografia e dalla narrazione didascalica. Il desiderio artistico è quello d’interrogare lo spettatore senza imporre presunte verità elargite dall’alto.

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