Lo scetticismo della libertà, la lezione di Oakeshott (Le Cronache del Garantista)

del 30 Gennaio 2015

Da Le Cronache del Garantista del 30 gennaio

É davvero impressionante la mole di studi e la fama che Michael Oakeshott sta avendo ultimamente nel mondo anglosassone. È una fama postuma, cresciuta soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel suo cottage sulla costa del Dorset nel 1990 (era nato nel 1901). I motivi che la originano sono connessi senza dubbio alla forza del suo pensiero, che ha la capacità di farci vedere le cose della politica da un angolo prospettico nuovo e originale, particolarmente utile dopo la fine delle grandi ideologie novecentesche. Ma il ritardo del riconoscimento si spiega anche con il fatto che in vita Oakeshott, pur trovandosi ad operare in importanti università (prima Cambridge, poi nel dopoguerra la London School of Economics), rifuggi alquanto dai riti, anche autopromozionali, della vita accademica. D’altronde, Oakeshott si trovò ad operare in un periodo in cui la scuola idealistica, nella quale egli insieme all’amico Robin George Collingwood si era formato e ai cui assunti restò fedele, era alquanto isolata. E in più egli pubblicò poco, arrivando a considerare il libro un’ “impresa costruttivistica”, come tale sempre insufficiente a capire la realtà delle cose che vorrebbe imbrigliare in schemi astratti.
Per avvicinare il lettore italiano al suo universo di pensiero, la casa editrice Rubbettino è partita proprio da un’opera mai pubblicata dal pensatore inglese in vita e recuperata in forma dattiloscritta dopo la sua morte: La politica moderna tra scetticismo e fede, a cura di Thimothy Fuller, edizione italiana a cura di Agostino Carrino (pp.183, euro 16). Uscita nel 1996 ma scritta presumibilmente nel periodo compreso fra il 1947 e il 1952, l’opera, per la chiarezza e la capacità di arrivare al nocciolo del suo pensiero, si presta molto a introdurre Oakeshott al pubblico italiano. Nonostante si tratti, a mio avviso di un’opera “minore”, almeno rispetto al breve e influentissimo saggio Razionalismo in politica del 1961 (appena tradotto da Giovanni Giorgini per gli ebook dell’Istituto Bruno Leoni) e a quei due capolavori che hanno quasi aperto e chiuso la carriera negli studi del nostro: The Experience and Its Modes (1933) e On human conduci (1975, ne esiste anche un’introvabile traduzione italiana per il Mulino dell’anno successivo). Il libro è costruito sull’identificazione di due diversi stili, prima ancora che di due teorie, che, secondo l’autore, contraddistinguono l’approccio alla politica nell’età moderna: la politica della fede e la politica dello scetticismo. La prima crede in valori e ideali da realizzare politicamente, al limite (nei totalitarismi) nell’idea di una perfezione razionalmente fondata. Crede in un mondo pacificato e senza conflitti in cui un’autorità pubblica controlli minuziosamente i comportamenti dei singoli, dettando loro regole d’azione “giuste” e “razionali” e a cui è è appunto “irrazionale” opporsi. Quasi come se l’individuo avesse bisogno di balie e non avesse, fra gli altri diritti, anche quello di sbagliare o anche di rovinarsi con le proprie mani. La fede non è ovviamente quella delle religioni, nemmeno nelle loro versioni politiche o o teocratiche (come è oggi nell’Islam): può essere anche quella dei tanti millenarismi politici, anche atei e materialisti, che abbiamo conosciuto nella nostra storia.

Ugualmente lo scetticismo non è quello filosofico, ma un approccio cauto e non entusiastico alle cose della politica: un depotenziamento delle sue pretese salvifiche in favore di una pratica volta da una parte unicamente a gestire (non estirpare) i conflitti e dall’altra a dare e ad accettare per ognuno il massimo di libertà possibile. La politica dello scetticissimo non irride alle pretese della ragione umana, ma solo al suo uso collettivo o politico. E in qualche modo la tematica hayekiana dell’ “abuso della ragione”, ma interpretata ad un livello più profondo, depurata dalle incrostazioni metafisiche che conservava nell’autore de La via della schiavitù. Un’opera a proposito della quale Oakeshott scrisse che la giusta lotta al razionalismo in essa presente si era a sua volta «convertita in un’ideologia», aggiungendo che “un piano per resistere a tutte le pianificazioni può essere meglio del suo contrario, ma appartiene allo stesso stile di politica”. Più in generale, rispetto ad Hayek non solo ma a quasi tutta la “filosofia politica” (termine che egli riteneva un ossimoro) contemporanea, Oakeshott non riteneva che ci potesse essere un passaggio dalla comprensione della politica alla sua realizzazione, che deve essere integralmente affidata al genio individuale (idealisticamente non esiste per lui una “realtà oggettiva” da “rispecchiare” nel pensiero). La stessa dicotomia fede-scetticismo non va considerata un assoluto, anche se è esigenza dei nostri tempi dominati dal “pensiero unico”, anche democratico o politically correct, riequilibrare la barra in favore della scepsi. In sostanza, rispetto a politologi e filosofi della politica, Oakeshott è stato più accorto perché era prima di tutto un filosofo. E filosofi erano i suoi quattro punti di riferimento filosofici, di cui ci parla Carrino nella postfazione: Montaigne, Hobbes, Pascal e Hegel. Un altro equivoco è poi quello di Oakeshott “pensatore conservatore”: nulla di più lontano da lui della esaltazione della triade Dio, Patria e famiglia. «Non è affatto incongruo – egli scrive – essere conservatori per quanto riguarda il governo e radicali per quanto riguarda ogni altra attività». Che era poi una descrizione di se stesso, ove il conservatorismo non era altro che la diffidenza per i grandi progetti governativi. Quella di Oakeshott è sicuramente una filosofia della libertà: un’esaltazione continua del “pensiero laterale”, cioè della possibilità che bisogna sempre conservare di vedere le cose della politica e della vita da altri e non praticati punti di vista

do Corrado Ocone

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