T.S. Eliot e l’elogio di Machiavelli (L'Opinione)

di Giulio Battioni, del 3 Ottobre 2012

Da L’Opinione – 03 ottobre 2012
«La politica è divenuta una materia troppo seria per essere lasciata ai politici». È la prima metà del Novecento e Thomas Stearns Eliot già intravede la desolazione del mondo contemporaneo ormai prossimo allo sfacelo del totalitarismo. Idealismo e ideologia del progresso illudono e l’arte e la letteratura li scimmiottano sino a estraniarsi in un mondo senza forma, surreale, in un’astrazione della realtà che diviene disincanto, disumanizzazione. Marxismo e fascismo compiono lo stesso cammino, inventando regimi politici destinati a dissolversi nel «suicidio della rivoluzione» cui, come spiegò Del Noce, la società del benessere avrebbe dato il colpo di grazia, riducendo l’ars governandi a gestione funzionale e insignificante della vita sociale.L’attualità della filosofia politica di Eliot, «poeta, critico letterario, drammaturgo ma anche direttore editoriale, saggi st a e commentatore», appare in tutto il suo splendore nello studio di Angelo Arciero, edito da Rubbettino, T.S. Eliot. Alle origini del pensiero politico. Il lavoro di Arciero, specialista del Novecento inglese e docente di Storia del pensiero politico contemporaneo e Storia dell’integrazione europea presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma, ha un indubbio valore scientifico. La conoscenza approfondita delle fonti primarie, la premurosa organizzazione dei testi originali, e l’esposizione ragionata delle loro principali interpretazioni, alternata al sagace argomentare personale dell’Autore, consentono un accesso privilegiato alla complessa personalità dell’uomo di lettere statunitense per nascita e suddito britannico per volontà. Entrando nell’ambito pressoché inesplorato, almeno in Italia, dell’interesse civile e politico di Eliot, se ne ricava la profondità intellettuale, oltre alla vastità degli scritti, dalle raccolte di drammi alle poesie, dai saggi alle corrispondenze epistolari, sino alle recensioni e agli articoli apparsi sulla rivista The Criterion. Dante e soprattutto Machiavelli sono le pietre angolari della dottrina politica eliotiana, una teoria molto “italiana”, in cui realismo e religione s’intersecano con mutuo profitto.

Il poeta anglo-americano non fu un pensatore sistematico, né, tanto meno, speculativo. Seppe tuttavia attraversare i secoli e l’universalità della civiltà europea sul sentiero di una storia delle idee intimamente meditata e vissuta. Otre ai grandi “classici”, la poetica e la vocazione politica del suo impegno letterario hanno attinto alla prossimità linguistica e culturale di autori come Francis Herbert Bradley, Thomas Ernest Hulme, Irving Babbitt, come pure di Charles Maurras e Maurice Barrés. Per questi ultimi la stima fu essenzialmente “negativa”, alla stregua di altri protagonisti della composita tradizione culturale francese, dai “contemporanei” Bergson, Sorel e Péguy agli antenati Descartes, Pascal e Rousseau. Con il filosofo ginevrino la polemica fu cruciale.

Procedendo da una precisa scansione storiografica che divideva l’età medievale dal Rinascimento, e imputando a quest’ultimo l’inizio della fine della tradizione classica, Eliot riconosceva nell’inferno dantesco le categorie e le rappresentazioni dell’evo moderno, incapace di elaborare il dato naturale e il mistero sovrannaturale del “peccato originale”. Alla preoccupazione per le “cause finali” e la salvezza delle anime, tipica della visuale cattolica medievale, la modernità ha sostituito, complice il razionalismo della scolastica spagnola tardo-rinascimentale, la scorciatoia misticheggiante dell’analisi psicologica e ha abbandonato il campo della ricerca della verità che metafisica e religione, fede e intelletto avevano praticato in precedenza. Rousseau è il culmine teoretico-letterario di un “romanticismo” ideologico e secolarizzante al quale Biot oppone un “classicismo” ontologico e realistico.

La declinazione politica di questa posizione è l’insolita lettura di Machiavelli: un Machiavelli pazientemente mondato dalle incrostazioni storiografiche che ne hanno a lungo falsato l’interpretazione. Eliot rigetta l’esegesi di un presunto cinismo machiavelliano e distingue il vero significato dalla ricezione dell’opera del 9lgretario fiorentino. A differenza di Hobbes, al quale è stato sovente e impropriamente accostato, il Machiavelli eliotiano ha un profondo sentimento delle storia e una visione equilibrata e ragionevole del problema politico per eccellenza, cioè il rapporto fra ordine e libertà. Mantenendo un distacco critico dal mondo, che l’autore del Leviatano non ebbe, Machiavelli si dedicò alla ricerca dell’unità d’Italia consapevole del fatto che la felicità dei governati è data da una virtù e una libertà che i cittadini non inventano con l’artificio di un contratto sociale ma costituiscono in conformità alla storia e alla tradizione.

Per questo il fv1achiavelli eliotiano risolve il conflitto fra Stato e Chiesa nella maniera che meno ci si aspetta: apprezzando il valore storico-istituzionale della Chiesa cattolica, l’autore de Il Principe non ne disdegna la presenza nel tessuto sociale e civile italiano. Certo, anche secondo Eliot il sentimento religioso di Machiavelli è un sentimento di natura esclusivamente politica, ma ciò non toglie che egli possa ipotizzare una soluzione alla “questione romana” secondo una prospettiva anglo-cattolica che molto deve allo spirito realistico del Segretario fiorentino.

Di Giulio Battioni

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