Così Sciascia rinunciò a dire “io”

del 4 Gennaio 2013

sciascia_lacava_150Avvenire – 4 gennaio 2013

Molte, in questi mesi, le iniziative editoriali A legate al nome di Leonardo Sciascia, a cominciare dall’edizione Adelphi delle opere, per generi, di cui appare il primo volume: mi piace citare, tra le tante, i due bei libri di Ivan Pupo, «In un mare di ritagli. Su Sciascia raro e disperso» (Bonanno) e «Passioni della ragione e labirinti della memoria» (Liquori), e quello di Pietro Milone, «Sciascia: memoria e destino. La musica dell’uomo solo tra Debenedetti, Calvino e Pasolini» (Salvatore Sciascia editore).

In tale profluvio, però, non bisognerà mancare due bellissimi epistolari, che lo impegnarono con due grandi meridionali oggi quasi completamente, se non del tutto, dimenticati. Mi riferisco al pugliese Vittorio Bodini, ispanista di rango e poeta tutt’altro che insignificante («Sud come Europa. Carteggio 1954-1960», a cura di Fabio Moliterni per Besa), e al calabrese Mario La Cava («Lettere dal centro del mondo 1951-1988», a cura di Milly Curcio e Luigi Tassoni per Rubbettino), i cui «Caratteri» (1939) impressionarono Sciascia trentenne, che poté leggerli solo nel ’51. Da non mancare almeno per due motivi. Il primo: perché si tratta di lettere che, come tutto il corpo epistolare, e per rigorosa volontà testamentaria, sarebbero dovute rimanere inedite e che ora invece la famiglia, con generosità, mette a disposizione. Il secondo, non meno importante, perché illuminano gli anni d’un apprendistato che, nonostante i risultati critici raggiunti, resta in larga parte ancora incognito. Un esempio? Prendete la questione della poesia che, com’è noto, tentò Sciascia una sola volta nella vita, quasi all’esordio, per essere poi violentemente rimossa, coi versi di «La Sicilia, il suo cuore» (1952), così carichi di riecheggiamenti ermetici e tramati da motivi autobiografici, anche inquietanti, che continuamente affiorano. Quello stesso Sciascia che, per altro, si farà editore della seconda raccolta poetica di Bodini, «Dopo la luna» (1956): e che, in queste lettere, mostra una conoscenza di primissima mano della poesia non solo contemporanea, e non soltanto italiana, con particolare predilezione per quella spagnola. Del resto: si potrebbero capire fino in fondo la retorica e lo stile della scrittura sciasciana, le sue strategie, le ellissi e le reticenze, le elusioni, senza tener conto del ruolo che vi assumono le accelerazioni liriche? Alla luce di questi documenti sarà meno difficile provare a rispondere ai perché della rimozione della poesia, che ho provato altrove a spiegare, riferendola alla drastica negazione di una letteratura che si risolva colpevolmente in privatissima e disimpegnata nostalgia, per quello che nei suoi libri fu il silenzio dell’amore. Ci sarebbe molto da dire sul prezzo pagato dallo Sciascia uomo, con la sua grande ricchezza emotiva, allo Sciascia scrittore: di modo che le ragioni del «noi» fossero sempre anteposte a quelle dell’«io» e dei suoi rischiosi egotismi. L’uomo che invece emerge in tutta la sua profondità e onestà nei carteggi, soprattutto in quello col sempre insoddisfatto La Cava. Quando si dice un maestro.

di Massimo Onofri

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