Giustizia: “lo scudo di cartone”, tra magistrati e parlamentari rapporto sempre più difficile (Ristretti.org)

di Giovanni Sacchetti, del 13 Luglio 2015

Giampiero Buonomo

Lo scudo di cartone

Diritto politico e riserva parlamentare

Da Ristretti.org del 12 luglio

Se prima si eccedeva nel negare l’autorizzazione a procedere, ora deputati e senatori non sono più tutelati nell’esercizio del loro mandato. Quando il professor Coppi ha ricordato i fondamenti costituzionali della libertà dell’attività parlamentare, il pubblico ministero Woodcock ha reagito indicando l’illiceità del passaggio di danaro che diede luogo alla compravendita di senatori. Il Tribunale di Napoli ha dato ragione al secondo, ma il problema teorico sollevato dalla difesa di Berlusconi è lungi dall’essere risolto.
Le immunità parlamentari, nelle democrazie moderne, registrano una diversa latitudine, ma restano un baluardo invalicabile della funzione rappresentativa: ciò anche quando si affrontano – come fa Giampiero Buonomo, “Lo scudo di cartone” (ed. Rubbettino pp. 254) – le prospettive di revisiono delle garanzie del Parlamento e dei suoi componenti. Anche oggi che la maggioranza propende per la concessione degli arresti, per i parlamentari inquisiti, resta alto il timore che la “giustizia politica” non sia meno lontana dalla verità di quando negava ad oltranza l’autorizzazione.
La polemica contro gli abusi nel diniego delle autorizzazioni si rivela passeggera, ma non lo è quella intorno al fumus persecutionis: è difficile ricavare dalla prassi di questi giorni una valutazione del Parlamento, che non sia dettata dalle priorità politiche del momento. L’invito del libro è, allora, quello alla sincerità semantica: da sempre permeata di giudizio di opportunità, l’immunità parlamentare tale deve diventare, formalmente, abbandonando la falsa etichetta “giurisdizionale” di cui si ammanta. La Camera concede o nega, quindi, se intravede un pericolo nel privarsi di un suo componente, maggiore di quello derivante dal ritardo nel processo fino alla fine del mandato.
Nella proposta contenuta nel testo, che attinge dallo statuto europeo del 2003, il diniego parlamentare sarebbe una mera facoltà, assunta a maggioranza qualificata dopo l’informativa obbligata alla Camera di appartenenza. La decisione sarebbe sottratta dalle maggioranze “da quattro amici al bar”, con cui in passato si sono capovolte – con un pugno di presenze in Aula – le richieste avanzate dalla magistratura. Ma, soprattutto, il vero scopo delle informative obbligatorie dei giudici al Parlamento sarebbe quello dì evitare la frode alla Costituzione: un problema tutt’altro che pretestuoso, come dimostra la crescente elaborazione della Corte costituzionale nel presupposto della difesa dell’Assemblea più che del singolo.
Quanto all’insindacabilità, essa pare vivere una nuova primavera: neppure i grillini hanno osato metterla in dubbio durante l’esame della riforma Boschi; mezzo Parlamento ha rimbeccato De Luca dichiarando che la lista degli impresentabili resa nota da Rosy Bindi era coperta dall’articolo 68, primo comma della Costituzione.
Eppure l’abuso della guarentigia, qui, non è stato meno dirompente: la Corte ha reagito prevedendo l’obbligo di un “nesso funzionale”, che deve stringere l’atto parlamentare e l’esternazione sui giornali del suo contenuto. Si tratta di una linea oramai costante, con cui, da vent’anni la Corte costituzionale si erge a giudice tra magistrati e Parlamento. Ma si tratta di un principio utile anche per comprendere quanto è ancora giustificata la deroga, allo Stato di diritto, che spesso rivendicano per sé gli organi costituzionali.
La disciplina dei lobbysti, il conflitto di interessi, l’utilizzo dei contributi ai Gruppi, l’accesso paritario ai mezzi di comunicazione in campagna elettorale, i requisiti per le nomine parlamentari alle autorità indipendenti: sono tutti casi in cui il dogma della sovranità parlamentare offriva uno scudo a chi compiva atti fisicamente nei palazzi della politica.
Il libro spiega perché nessuna di queste “zone franche” può ritenersi più infrangibile: dopo la sentenza Amato del 2014 sull’autodichia parlamentare, non è più possibile sostenere che il diritto politico equivale alle regole del rugby. Non si tratta di una metafora coniata da Buonomo, anche se dobbiamo alla sua ricerca la sorprendente analogia inglese con l’Italia: nella sportiva comunità anglofona, sono definite così le regole applicate dagli stessi che le creano, senza alcuna mediazione di un giudice “terzo”.
Si tratta del prototipo di un certo modo di autogestire la normazione: ce ne accorgemmo negli anni Ottanta anche noi italiani, quando Luna Rossa si trovò a competere all’America’s cup sotto un regolamento, che era un altro modo di definire transazioni, volta per volta, sul modo di accordare i punteggi, in base ai rapporti di forza tra i concorrenti. Sembra quindi strano apprendere che il dogma della sovranità del Parlamento sia la cosa più vicina alle regole del rugby: eppure dopo lo scandalo dei rimborsi a Westminster, anche lì si è richiesta maggiore trasparenza e prevedibilità, per quello che da secoli era considerato il club più esclusivo di Londra.
E nel medesimo vizio ricade il cuore della politica italiana, con l’aggravante che non abbiamo neppure le solide coordinate morali che limitano gli abusi, alla Camera dei comuni, a poche mele marce. Da decenni le maggiori democrazie europee, invece, registrano una gestione tutto sommato prevedibile ed accessibile delle normative interne alle Camere: soprattutto, quando si tratta di confrontarsi con la Giurisdizione, a Parigi o Berlino non sorgono quegli psicodrammi con cui, da noi, vengono inalberati antichi feticci.
Un malinteso senso della convenienza fa sì che, in Italia, l’autodichia vada abrogata quando giova al nostro avversario, ma vada mantenuta ed utilizzata quando è utile alla nostra battaglia: si veda la vicenda soppressione dei vitalizi, che per i grillini andrebbe fatta “in casa”, con un tratto di penna, perché, si dice, “la legge ci metterebbe troppo tempo”. Occorre anche qui uscire dall’immediato “particolare” per seguire una traccia razionale, in cui dividere la funzione rappresentativa dal resto: lumeggiare su questo “altro dalla politica”, ripercorrerne le vicende contenziose e collocarlo in una visione prospettica è il merito del testo, che ne trae motivo di fiducia sulla vitalità degli istituti democratici anche nel nostro Paese.

Di Giovanni Sacchetti

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