La lunga battaglia tra l’Italia e Giolitti piccolo colpo di Stato per la Grande Guerra (Moleskine)

di Girolamo Cotroneo, del 9 Giugno 2015

Luigi Compagna

Italia 1915

In guerra contro Giolitti

Da Moleskine di maggio

In una delle sue opere più importanti e più note, La storia come pensiero e come azione, risalente agli anni ’30 del secolo scorso, Benedetto Croce ha scritto che «tutta la cultura storica […] sta in rapporto al bisogno generale di mantenere di accrescere la vita civile ed attiva dell’umana società»; e questo fa sì che, pure affrontando eventi e problemi molto lontani nel tempo, la storia presenta sempre «il carattere di “storia contemporanea”, perché per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano la loro vibrazione».
Naturalmente non “tutti” i libri di storia – si pensi a quelli scritti esclusivamente per motivi accademici – presentano questa caratteristica; non tutti nascono – cito ancora Croce – da «un atto di incomprensione e di intelligenza, stimolato da un bisogno della vita pratica». Nasce però senz’altro all’interno di questo apparato concettuale un volume di recente pubblicato presso Rubbettino, di cui è autori un noto storico delle dottrine politiche, il senatore della Repubblica Luigi Compagna, la cui formazione “crociana” non poteva che indirizzarlo verso il modo di sentire, di pensare e di scrivere la storia indicato dal filosofo napoletano.
Il titolo di questo suo ultimo libro – Italia 1915; in guerra contro Giolitti – è già indicativo delle sue genesi: da una parte, la ricorrenza, caduta proprio in questi giorni, precisamente il 24 maggio, dell’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale, e dall’altra una rilettura di quel “maggio radioso”, che Compagna non vede semplicemente come l’inizio di un evento di carattere militare le cui vicende e i cui esiti sono noti a tutti, ma come un evento politico diretta alla”defenestrazione” di Giolitti, e che ha prodotto una frattura della vita civile e politica, le cui conseguenze furono decisive per la storia. Una vicenda che dovrebbe metterci in guardia verso atteggiamento e scelte che possono costituire un pericolo per il regime liberaldemocratico in cui, dal 1° gennaio 1948, data di entrata in vigore della nostra Costituzione, viviamo. Rievocarla quindi non è un semplice impegno “accademico”, una ricerca disinteressata ma un discorso di politica attuale.
Fermiamoci un momento sul titolo del libro di Compagna che contiene un espressione singolare e inconsueta che sembra dire, anzi dice, che nel 1915 l’Italia – non ancora intervenuta direttamente nel conflitto in corso dall’anno precedente in Europa – era impegnata in un’altra, strana, guerra: quella contro Giolitti, uno dei maggiori uomini politici dell’Italia post-unitaria, il cui nome indica una stagione della nostra storia, l'”età giolittiana”, appunto, che occupa l’intero primo quindicennio del secolo, l’intera stagione precedente la prima guerra mondiale. E in che cosa sia consistita la “guerra” di cui parla Compagna lo ricordano già le prime righe del suo libro: «Nel 1915 l’Italia entrò in guerra oer ragione sopratutto, se non esclusivamente, di politica interna. Contro Giolitti, ma col consenso del sovrano, si scelse a maggio di zittire, o comunque non lasciare che si esprimesse, il Parlamento».
La posteriore storiografia – o, forse meglio, la posteriore propaganda politica nazionalista – chiamò questo momento quando la “piazza” si sostituì al Parlamento, e decisi in sua vece, appunto, il “maggio radioso”. Una vicenda che vive la dura sconfitta di Giolitti che, scrive ancora Compagna, «da liberale impenitente, […] da quando vi era entrato aveva riconosciuto nel parlamento la sua chiesa e, quindi, nel parlamentarismo la sua religione». Dovevano trascorrere soltanto di poco più di sette anni da quel maggio 1915, da quella svolta radicale del sistema e sopratutto nella cultura politica italiana, per vederne le estreme conseguenze: il 16 novembre del 1922, infatti, in un Parlamento esautorato, Benito Mussolini parlano per la prima volta nella veste di Presidente del Consiglio, fece quel tristemente famoso discorso – il “discorso del bivacco” – il cui pronunciò queste ignobili parole: «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».
Come sappiamo, dopo lo volle e lo fece. Ma non è del colpo di stato di Mussolini, iniziato appunto, con il discorso del 16 novembre 1922 e portato a termine con quello del 3 gennaio del 1925, quando si assunse l’intera responsabile del delitto Matteotti, che qui intendo parlare, quando invece di quello che Luigi Compagna, mutuando in parte, come egli stesso dichiara, quest’espressione da Giuliano Procacci, chiama il «piccolo colpo di Stato per la Grande Guerra», che sarebbe appunto la vicenda dalla quale ho preso le mosse, e che ha come protagonista appunto Giovanni Giolitti, il cui fantasma «sia aggira nella storia d’Italia», e che è stato a lungo oggetto, starei per dire con Manzoni, «d’inestinguibil odio, / e d’indomato amor»; oppure, usare termini più prosaici motivi di giudizi fortemente contrastanti come quello di affatto favorevole del “liberale” Benedetto Croce, e del tutto negativo di quel “liberale mancato”, che a mio parere è stato Gaetano Salvemini.
Ma di là di tutto questo, ritengo momento decisivo di tutta l'”avventura” di cui qui Compagna ci dice, quella crisi e quell’esautoramento del Parlamento che allora si verificò, e andò ben oltre le intenzioni di chi, in odio a Giolitti, l’aveva provocato, come si vide all’inizio degli anni Venti. Luigi Compagna ricorda qui le parole di Giacomo Perticone, secondo cui «il Parlamento era stato messo fuori causa nelle radiose giornate del maggio 1915 ed altrettanto nell’ottobre del 1922»; un Parlamento che fu messo “fuori causa”, almeno per la prima volta, per mettere fuori causa Giolitti, il suo «capo riconosciuto», del quale godeva largamente la fiducia. Scrive Compagna: «Nei giorni del maggio radioso si era cercato, in modo maldestro, eppur spietato, di cancellare definitivamente Giolitti dalla storia d’Italia. Invece che separata, la politica estera fu intrecciata alla politica interna. Non solo le decisione sul se, il quando e al fianco di chi maturarono al di fuori dei tradizionali canali politici e diplomatici. Ma l’eccezionalità dell’evento e della procedura furono consapevolmente pensate e scelte per essere usate in alternativa al “sistema” impersonato da Giovanni Giolitti».
Poiché quella “alternativa” non viene dal Parlamento, dalle sue decisioni, dalle sue scelte ma da pressioni – a cominciare da quella di Vittorio Emanuele terzo – alle quali non seppe (o non volle?) resistere, Compagna ha senz’altro ragione nel sostenere che «per quanto piccolo quello consumatosi nel maggio 1915 era stato un colpo di Stato. L’Italietta si era lasciata intontire dalle ambiguità di un liberalismo nazionale (introvabile o perché c’era già, ed era quello giolittiano, o perché l’aggettivo fagocitava il sostantivo). Il re certo non aveva onorato alla lettera quel principio del diritto costituzionale britannico per cui un re non può avere che un consigliere, cioè il capo della maggioranza dei suoi “fedeli comuni”. Ad aggirare Giolitti, negandogli notizie e informazioni di politica internazionale, il Quirinale, non era stato da meno di Salandra e Sonnino». E qui la sua considerazione finale, praticamente conclusiva: «Nel “maggio radioso”, in termini politici Giolitti fu sconfitto, ignorato, umiliato. La sensazione è che si sia mosso tardi, quando già le fila erano state tirate e abbia finito col fare la figura del montanaro sceso in città per venir burlato. Infinite su questo tasto le caricature dei Giornali del 1915. La sua maggioranza parlamentare intimidita dalla piazza […] parve crollare. Dissoltosi il prestigio del parlamento sembrò dissolversi la sua credibilità».
Ma in un sistema politico liberaldemocratico, quando il Parlamento perde la proprio credibilità, e di conseguenza la propria autorità, quel sistema politico è finito, non esiste più. Certo allora qualcosa sopravvisse e tentò di riguadagnare, alla fine della guerra, il centro della scena: e lo tentò proprio con il ritorno di Giolitti che non era certo un révenant, un fantasma, come dimostra, e ricorda Compagna, «il bellissimo discorso» – qui riportato quasi per intero – «con il quale […] il 12 ottobre del 1919 avrebbe presentato a Dronero la sua candidatura». Ma, come sappiamo, il rinnovamento che proponeva, il suo progetto di riforma costituzionale, non riusciva ad imporsi, e poco dopo l’Italia iniziò ad attraversare quello che, con intuizione precoce, Piero Gobetti chiamò “il Medioevo di Mussolini”.
Ma il libro di Luigi Compagna va ben oltre quanto ho detto finora. Ho voluto soffermarmi sopratutto su questa particolare vicenda, perché è in essa che la lunga “guerra” – di cui Compagna ricorda molte vicende politiche e le molte discussioni storiografiche – dell’Italia nei confronti di uno dei suoi migliori statisti, ha raggiunto il momento più drammatico, perché per “far fuori”, come usa dire, Giolitti, una parte del nostro sistema politico-istituzionale non esitò a “far fuori” il Parlamento e di conseguenza la nostra democrazia liberale, morta proprio in quel radioso maggio del 1915, e di cui il discorso di Mussolini del novembre del 1922 si limitò a celebrare il funerale.
Ma ciò di cui sopratutto credo di dover dare ragione, è il perché ho inaugurato questa nota riproponendo l’idea di Croce secondo cui uno storico autentico – e Luigi Compagna certamente lo è – scrive del passato pensando al presente, sollecitato dal presente. Certo, siamo di fronte ad un anniversario, e gli anniversari dei grandi eventi vanno celebrati; e di solito con una buona dose di retorica. In questo libro, però, non soltanto la retorica è lontanissima ma quel che ci ricorda è il momento più drammatico di quella vicenda: perché quel maggio non portò soltanto una guerra devastante, anche se vinta; non provocò soltanto l'”inutile strage” – come ebbe a definirla il 1 agosto del 1917, nella Lettera ai capi dei popoli belligeranti, Benedetto XV – di intere generazioni, e che in Italia ebbe come ulteriore, e non certo secondaria conseguenza, la fine dei quella cultura politica che aveva voluto e realizzato l’Unità del nostro paese.
A mio parere, quello che percorre come un fiume carsico le pagine di questo libro, ciò che forse lo ha sollecitato, inducendolo a sottolineare sopratutto certi momenti della “guerra” contro Giolitti, potrebbe essere stata la visione di un Parlamento – quello di oggi, quello nostro – sempre più esautorato in direzione di un progetto dove il potere esecutivo dovrebbe occupare uno spazio sempre più grande: un progetto che va in direzione opposta rispetto alla nostra Costituzione che, dopo vent’anni di predominio assoluto del potere esecutivo, ha voluto giustamente ridare lo spazio che adesso tocca al potere legislativo, al Parlamento.
Una convinzione, questa mia, che trova un importante riscontro nella prefazione al libro di Compagna di un autorevole studioso di Diritto Internazionale, Luigi Vittorio Ferraris, il quale ha scritto che il discorso, cui ho prima accennato, di Giolitti a Dronero nel 1919, «rimane magistrale nella sua chiarezza e induce ancora oggi alla meditazione con l’invito ai governi rappresentativi di fondarsi sul fondarsi sul Parlamento e non sull’esecutivo».
Un messaggio dunque, quello di Luigi Compagna, sopratutto “politico”, che ci raggiunge da un luogo a questo sopratutto deputato: un libro di storia.

di Girolamo Cotroneo

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