Carceri, per una pena visibile (Agenzia radicale)

del 29 Maggio 2013

Da Agenzia radicale – 28 maggio 2013

Per alcuni il nome deriverebbe da ‘coercere’. Ma secondo altri è nell’ aramaico che la parola carcere affonda le sue radici: carcar, si scriveva nell’antica lingua semitica. Tumulare. Un verbo che Salvatore Ferraro, giurista ed ex detenuto (condannato nel 2003 a 4 anni di reclusione per favoreggiamento nell’omicidio della studentessa Marta Russo, uccisa a Roma nel 1997) ha usato spesso durante la presentazione del suo ultimo saggio, ‘La pena visibile‘, edito da Rubbettino.
Forse perché anche la sua mente, prima ancora del suo stesso corpo, è stata seppellita nel terreno arido del sistema giudiziario italiano: spogliato – e non solo metaforicamente – delle sue vesti di cittadino, il detenuto viene estirpato dalla comunità che ha ‘infettato’ con il suo carico di minaccia per essere inumato nel limbo della passività. Qui, nelle prigioni di Stato, Ferraro ha trascorso un anno e quattro mesi di carcere preventivo, per poi scontare altri otto mesi ai domiciliari. Da quel momento fu chiaro lo scopo da perseguire: impegnarsi affinché la “tumulazione carceraria” sia sostituita da una sanzione che restituisca il condannato alla società attraverso relazioni e attività ad essa utili, cosicché la pena diventi ‘visibile’ e l’espiazione della colpa fruttuosa.
Non si tratta di abolire la punizione, ma di riformare drasticamente un sistema che, spiega Ferraro, è fallito: la reclusione, oramai da trecento anni, non soddisfa nessuna delle esigenze per cui è applicata. L’uomo è privato della sua libertà perché ha un debito da estinguere nei confronti della società in cui vive, ma la pena carceraria non farà altro che farlo sentire creditore rispetto a un mondo che lo ha dimenticato, cancellato, annullato.
Dietro le sbarre c’è l’invisibilità. Ed è contro questo mantello stregato fa scomparire l’uomo che Ferraro punta la sua bacchetta magica: il condannato deve pagare, ma deve farlo fuori, attraverso un percorso sanzionatorio a cui partecipano lui stesso, la vittima del reato e la comunità.
Il reo potrebbe ad esempio lavorare in un ospedale, in un museo e, svolta la sua attività quotidiana, potrebbe tornare a dormire a casa propria, agli arresti domiciliari, oppure in strutture d’accoglienza pubbliche. Un sistema ovviamente da applicare soltanto ai condannati non pericolosi che, come sottolinea ancora il giurista, in Italia rappresentano il 94,% dei reclusi: per ognuno di loro – è bene ricordarlo – ogni mese lo Stato spende più di 4000 euro.
Negli ultimi dieci anni il sistema penitenziario italiano nel suo insieme è costato circa 30 miliardi di euro. E un tasso di recidiva altissimo. E la condanna di Strasburgo. E diritti persi. E centinaia e centinaia di suicidi. Quella di Ferraro, questo è certo, oltre a rappresentare un interessante spunto di riflessione (e l’ennesima occasione per un profondo mea culpa di società e istituzioni) è probabilmente un’utopia intessuta di proposte intriganti e teorie poco praticabili.
Ma è sicuramente questo il punto di partenza per lasciare ai fantasmi le loro catene e ridare agli uomini la loro carne, le loro ossa, i loro muscoli. La loro visibilità.

Di F. U.

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