Il pugile polacco (Il Mattino)

di Titti Marrone, del 27 Gennaio 2014

da Il Mattino del 27 gennaio

Il 27 gennaio 1945, quando la Prima Armata del Fronte Ucraino del maresciallo Konev tirò giù i cancelli di Auschwitz, si trovò di fronte i sopravvissuti ridotti a un cumulo di ossa mobili e una storia si chiuse. Un’altra ne cominciò quel giorno stesso, ma sarebbe più corretto dire che da lì mille altre storie ebbero inizio. Come quella raccontata nel 1962 da Primo Levi ne La tregua, o quelle poco note di famiglie disperse ai quattro angoli del mondo e impegnate per anni nel tentativo di ricongiungimenti spesso tragici. Come le storie, appena accennate in alcune testimonianze, di donne uscite dai lager e ricoverate in centri di raccolta temporanei ma insidiate dalle truppe dei “liberatori” affetti da appetiti sessuali a dir poco incredibili, viste le circostanze. Come le vicende dei bambini che nei lager ci erano nati e non avevano altri termini di paragone ” dell’umano, vivendo poi un definitivo “spaesamento della normalità”.
E a dirci che il 27 gennaio 1945 è la fine di una storia ma l’inizio di sofferenze nuove ci sono le esperienze del “dopo”, delle seconde generazioni. I figli dei deportati, al cospetto con esistenze di genitori definitivamente bloccati nella relazione umana. Tutte tessere di un mosaico ancora incerto ma da raccogliere se si vuole ricomporre l’altra metà del quadro delle lacerazioni provocate dalla ferocia nazista. Anche per questo, se nelle scuole, parlando di Shoah, si vuol evitare di ridune la ricorrenza del 27 gennaio a un rituale anniversaristico qualsiasi, è importante non raccontarla come un “happy end” in cui arrivano i nostri, tutto è cancellato, i “buoni” trionfano, le cose si mettono finalmente per il verso giusto, parte la sigla e esplodono gli applausi. Un’esperienza che documenta l’onda lunga dei lager fu raccontata nel 1951 da Sophie Dann e Anna Freud, figlia di Sigmund, su un centro di prima accoglienza per bambini dispersi. Qui i piccoli arrivati dai campi ignoravano gli adulti, come se avessero voluto chiuderli fuori dal proprio mondo, avendo sperimentato ciò di cui erano capaci. In particolare il gruppo che veniva da Terezin si comportava muovendosi come una truppa di auto difesa aggregata a testuggine, quasi fossero stati un unico bambino. E tutti insieme, abbarbicati l’uno all’altro per darsi forza, tenevano sempre stretto a sé il proprio cucchiaio: mostravano un attaccamento ossessivo per quell’unico oggetto posseduto, quasi fosse stato una persona, avendo imparato a proprie spese che possederlo o no significava avere accesso alla zuppa o esserne privati. E perderlo poteva fare la differenza tra vivere o morire. I traumi infantili prodotti dal lager sui pochissimi piccoli sopravvissuti cominciano ora a essere oggetto di narrazioni specifiche: come Le mie nove vite – La costruzione dell’identità minata dal senso di colpa di essere viva di Carla Cohn, in uscita da Castelvecchi. E l’editore Rubettino, ne II pugile polacco di Eduardo Halfon, propone una visione di Auschwitz insolita perché filtrata attraverso gli occhi di un bambino che osserva il nonno, ebreo polacco deportato, con il numero di matricola tatuato sul braccio.
Dall’editore Leone esce il racconto di Riccardo Abati, Shoah in bianco e nero , storia di un ragazzo alle prese con la scoperta di una propria identità inaspettata: è nato dallo stupro di suo padre su una donna ebrea. Ma «ciò che è accaduto è inestirpabile», spiega Elena Loewenthal ne La lenta nevicata dei giorni (Einaudi), narrazione su Fernande e André, una coppia di giovani in fortunata fuga dai nazisti, però oppressi dal peso della sorte toccata ad altri. Ed è uno psichiatra francese, Boris Cyrulnik, a spiegare il tormento di chi è sopravvissuto, bambino, al lager ed ha alle spalle lo sterminio dei genitori: in La vita dopo Auschwitz (Mondadori) mette a fuoco l’esistenza di una memoria con il «meccanismo dal potere salvifico» che cancella i ricordi pesanti da portare e aiu-
ta a convivere con i fantasmi del passato. Con prospettiva di narrazione lieve e al tempo stesso profonda, Michel Kichka, uno dei maggiori disegnatori del fumetto israeliano, si mette nel solco dello Art Spiegelman di Mause illustra La seconda generazione -Quel che non ho detto a mio padre(Rizzoli Lizard). Una splendida graphic novel in bianco e nero tra Lione e Gerusalemme, una testimonianza preziosa su chi convive con l’esperienza di coloro che, come scrisse Primo Levi, «hanno tollerato la vista di Medusa, che non li ha impietriti», segnando però per sempre la vita di quelli venuti dopo.

di Titti Marrone

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