Intervista esclusiva: Tiziana Maiolo si racconta. La storia del padre Serafino “Cantore del paese che non sa cantare” (Il Redattore.it)

di Bruno Vellone, del 16 Marzo 2015

Da Il Redattore.it

Serafino Maiolo, il cantore del “paese che non sa cantare”, quel grembo umido tra le viscere della montagna non l’aveva mai dimenticato. Era cresciuto a Fabrizia, un lembo di terra che aveva portato con se al nord nel petto gonfio di ricordi, popolati da timide presenze e accarezzati da quel vento che d’inverno domina nei vicoli scuri, dove si rincorrono giornate fredde ma pulite. Nato a Laureana di Borrello nel 1911, aveva vissuto buona parte della sua infanzia a Fabrizia, per poi trasferirsi in un primo momento a Roma per conseguire gli studi giuridici, e successivamente al Nord dove ebbe l’incarico di provveditore agli studi. Si spegneva prematuramente nel paese delle Serre a soli 55 anni nel 1966. Lo scrittore fabriziese non è stato mai decantato o commemorato, né dal successo editoriale – a causa delle case editrici minori con le quali aveva preferito pubblicare i suoi scritti – né dalla sua Calabria che – come avviene sempre per i suoi figli migliori – lo dimenticò velocemente a causa della sua prematura scomparsa. E’ grazie alla casa editrice Rubbettino, che lo scorso anno ha pubblicato – con introduzione dello scrittore Gioacchino Criaco – in una nuova edizione il romanzo di maggior successo “C’è ancora una stella”, che si è riacceso il dibattito intorno a Serafino Maiolo, considerato uno dei maggiori scrittori calabresi appartenente al tardo neorealismo italiano. Ne parliamo con Tiziana Maiolo – giornalista di successo e più volte parlamentare – figlia del compianto scrittore fabriziota che del padre ha ereditato quel tratto d’inchiostro che aveva saputo incantare.

Onorevole Tiziana Maiolo, com’è stato per lei vivere per 24 anni insieme ad un intellettuale meridionale come suo padre? Ci può spiegare la sua personalità?
Mio padre esprimeva una genialità silenziosa e un po’ austera. Lo ricordo, ogni sera, seduto su una poltrona, con la “giacca da camera”, usanza dei tempi, mentre stringeva tra le mani un quadernetto e una vecchia stilografica. I suoi libri –i saggi sul Manzoni e i romanzi- nascevano lì. E i suoi quaderni sono conservati religiosamente in un mio cassetto. Con sincerità, io ammiravo l’intellettuale che, nei miei anni di adolescente, mi ha messo in mano i classici russi e francesi. Se ho imparato a scrivere, lo devo a lui e alle letture fatte allora. Anche se, ovviamente, avevo le mie piccole trasgressioni, come l’approccio a Madame Bovary, che era la lettura segreta da leggere di nascosto, la sera a letto, con il libro nascosto sotto il cuscino, mentre mia madre mi gridava di spegnere la luce. Ma con altrettanta sincerità devo dire che il suo essere intellettuale meridionale, possessivo con la moglie e noi figlie, mi ha fatto soffrire molto. La sua intransigenza sullo studio, per esempio. Pensi che una volta, ero in prima media, ha telefonato alla mia insegnante chiedendole di interrogarmi perché “non ero preparata”. Non era vero, ma secondo lui non avevo studiato abbastanza e tutti dovevano saperlo. E pensare che ero la prima della classe!

Ci racconta un aneddoto?
Un’estate eravamo a Fabrizia, era agosto, eravamo tutti rilassati. Dopo un mese di mare, un po’ di aria pura di montagna. Avevo nove anni e aspettavo, con un anno di anticipo, di andare alla scuola media. Mio nonno Ricciotti, con un bel nome garibaldino e di mestiere un po’ notaio e un po’ avvocato, aveva convinto mio padre che fosse giunta l’ora di insegnarmi il latino. Se non sono diventata anoressica è stato un miracolo, perché a tavola mi si rivolse la parola, per un mese intero, solo in latino. Mia nonna, che era di nobile casato (veniva chiamata “donna Angiolina” ), ma non di profondi studi, cercava di salvarmi e di sgridarli, dicendo che dovevo mangiare, visto che ero così magrolina. Una battaglia persa. Sono stata torturata, ma il latino lo so ancora adesso.

Serafino Maiolo è stato figlio e “vittima” del “paese”, quello che per Sharo Gambino era “questo male oscuro che ti si radica dentro quando sei ragazzo indifeso … che si fa nostalgia, dolore e angoscia a volte, e tu non aspiri altro che a tornarci per restarci dentro in abbraccio di terra nera odorosa”. Cosa era solito raccontare di Fabrizia e della gente della montagna calabrese?
Mio padre era un fuggitivo innamorato, che respirava e faceva respirare l’anima della Calabria, da cui pure si era allontanato da giovane. Era stato un “signorino”, cui i contadini-mezzadri portavano i prodotti della terra, camminando a dorso di mulo da Nardodipace, le donne con enormi pesi sulla testa, con il vino, la frutta e le ricottine fresche nei canestrini. Immagini che hanno fatto parte anche della mia infanzia, di quel pezzetto di vacanza che anche mia sorella e io facevamo ogni anno a Fabrizia. Solo che noi ridevamo come pazze, nel sentirci chiamare “signorine”. Ma nostro padre, con la sua ironia un po’ inglese, si divertiva più che altro a sfottere i signorotti del paese, chiamando “Tripepi” la farmacia Trimarchi, come mirabilmente descritto nel suo primo romanzo, “Ciaramaca”. Dalla sofferenza, dalla miseria e l’ignoranza cercava di tenerci lontane. Quando ho letto la storia di Ornella di “C’è ancora una stella”, mi è tornato alla mente di quanti pianti e strepiti mi erano costati quei pomeriggi d’estate in cui non potevo uscire di casa, se non accompagnata almeno da una zia, e non potevo indossare i pantaloni, che restavano addormentati per un mese in valigia. Non potevo capire i pregiudizi, il perbenismo e anche l’ipocrisia: che senso aveva tenere le ragazze chiuse in casa, se poi quella con cui avevo giocato da bambina era stata messa incinta da suo padre.

“C’è ancora una stella” è considerato un romanzo tardo neorealista. Lei la pensa cosi?
Direi di si. Quando l’ho letto la prima volta, nella sua edizione originale, ho pensato subito a Fontamara di Ignazio Silone, uno dei miei autori preferiti sia dal punto di vista letterario che sociale e politico. Ho ritrovato la storia della sofferenza, ma soprattutto della mortificazione dei diritti nel ventennio fascista, e insieme la storia del periodo della mia infanzia, il dopo-guerra, la ricostruzione e quelle sacche di orgoglio misto a ingenuità e sub-cultura che erano la storia contadina e “montanara” dei paesi di Calabria, proprio come quelli d’Abruzzo. Gli anni della speranza, che per noi “di città” erano un modo normale di svegliarsi la mattina, aprire il rubinetto e avere l’acqua, e la ghiacciaia ( la nonna del frigorifero ) dove tenere in fresco il cibo e il pane bianco che nei luoghi come Fabrizia non era ancora arrivato, così come il burro e il dado di pollo.

L’attenzione del componimento narrativo si concentra sulle classi subalterne, quelle che per Verga erano i “vinti” e per Ignazio Silone i “cafoni”. Quali valori trasmette il libro? E ancora possibile rinvenire questi valori nella società moderna? Se si, dove?
Questo libro, proprio come quelli di Silone, rifugge dalla tentazione del populismo, dell’esaltazione della terra povera e avara feconda di anime pure e incontaminate da contrapporre alla corruzione del potere, dell’altro da sé. E’ una storia intrisa di quell’orgoglio che ben conosco. Ricordo ancora quando mia madre, un po’ burbera un po’ compiaciuta mi apostrofava “sei proprio come tuo padre, una calabrese testa dura!”. L’orgoglio nella lotta per l’acqua, nella dignità del lavoro, quando c’è. Ma anche la dignità del non considerarsi mai vinti anche quando si appare come tali. La forza di guardare quella lucina là in alto, sul monte Pecoraro…

E’ un romanzo d’amore ma anche di pregiudizi. C’è l’amore verso una donna del Nord ma ci sono anche i pregiudizi e le credenze della gente del Sud. Che ruolo hanno ancora oggi questi due sentimenti apparentemente contrastanti?
Mi pare che oggi, al sud come al nord, e anche nella città in cui io vivo, Milano, considerata la più progredita d’Italia, ci siano poco amore e molti pregiudizi. Certo oggi le ragazze -grazie anche alle battaglie di quelle della mia generazione- sono più emancipate e libere. Ma permane nella società un certo moralismo, che giudica i comportamenti, più di quanto non lo faccia lo stesso papa Francesco, che un anno fa disse: “Chi sono io per giudicare un omosessuale?”. I principi liberali, la concezione dello Stato laico in contrapposizione allo Stato etico, la stessa società dei diritti, che fine hanno fatto? Chi sono oggi i successori di Calamandrei, di Pannunzio, Silone, Vittorini? Ho messo insieme nomi un po’ alla rinfusa, cui potrei aggiungere mio padre, che è morto troppo giovane e non ha avuto il tempo, pur avendo vinto qualche premio letterario, di veder valorizzati il suo ingegno e le sue opere. Penso anche a due suoi studi manzoniani, “Osti e osterie dei Promessi sposi” e “Riabilitazione di Fra Galdino”, che mi piacerebbe veder ripubblicati, insieme ai suoi romanzi e a qualche inedito in mio possesso.

Visto il dibattito che si è riacceso intorno alla figura di suo padre, cosa si aspetta dalla sua gente ed in particolare dalla Calabria?
Oltre a vedere ripubblicate le sue opere, il sogno mio e di mia sorella è di ripartire da Fabrizia. Esiste ancora la casa dove nostro padre è cresciuto, nella vecchia piazza del paese davanti alla chiesa, ma non è più abitata, dopo la morte di nostra zia Maria. Noi, in occasione dei 50 anni dalla morte di nostro padre, abbiamo intenzione di donarla al Comune di Fabrizia, perché ne faccia la sede di una Fondazione intestata a Serafino Maiolo. Potrebbe diventare il luogo di incontri culturali che esaltino le tante intelligenze delle donne e degli uomini di Calabria. Spero che il sindaco Minniti, con cui, come con i suoi predecessori, abbiamo ogni tanto qualche contatto, accolga questa nostra proposta, che potrebbe valorizzare anche il Comune da lui amministrato e amato da tutta la nostra famiglia.

Grazie.

Sono io a dire grazie a lei.

di Bruno Vellone

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