Fellini politico? Conversazione con Andrea Minuz, autore del libro Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico (Il Lavoro culturale)

di Francesco Zucconi, del 5 Novembre 2012

Da Il Lavoro culturale – 5 novembre 2012
Francesco Zucconi: Fellini è il regista del sogno, dell’autobiografismo, della Tabaccaia e della Saraghina. Di Marcello, Casanova, Roma e Otto e mezzo. I dizionari, alla voce “felliniano”, annoverano una serie di tratti del tutto privi di implicazioni politiche. Anche la critica, o almeno una parte consistente di questa, sembra aver sviluppato altri percorsi interpretativi. In che senso si può parlare di un Fellini politico?

Andrea Minuz: Fellini è considerato la quintessenza del genio cinematografico. Uno “stregone”, un “mago”, un creatore assoluto. Al di là del valore della sua opera, a creare questa immagine hanno contribuito soprattutto due fattori. Da un lato, l’immagine di sé che Fellini ha sapientemente costruito e diffuso nei media. Dall’altro, il fatto che gran parte della letteratura felliniana è composta da testi scritti da suoi amici o sedicenti tali. Anche per questo, l’autobiografismo è divenuto il grande luogo comune delle pubblicazioni su Fellini.
Nelle mie ricerche, ho trovato un interessante articolo apparso sulla rivista teorica del partito comunista sovietico, «Kommunist», alla fine degli anni Sessanta. La rivista polemizzava con le interpretazioni dominanti del cinema di Fellini, nonché con Fellini stesso, dicendo che nei suoi film c’era un senso oggettivo che apriva orizzonti molto più vasti di quelli che la critica e lo stesso regista indicavano. Uno di questi orizzonti, a mio avviso, riguarda proprio lo stretto rapporto che tanto l’opera che il “mito” Fellini intrattengono con l’ideologia italiana. Un rapporto di interdipendenza che si apre oggi anche a letture politiche. Ovviamente, si tratta di un “politico” che va messo tra virgolette. E che indica semmai i modi in cui nel cinema di Fellini prende forma la complessa relazione tra l’ideologia italiana e la spinta della modernità nelle varie implicazioni sociali, ideologiche, culturali. Utilizzando il termine come sottotitolo del mio lavoro, non voglio certo suggerire che Fellini sia da considerare un cosiddetto “regista impegnato” al modo in cui, nella tradizione del nostro cinema, lo sono ad esempio, Francesco Rosi o Elio Petri. Tutt’altro. Fellini non faceva film-a-tesi. Fellini, come tutti sappiamo, parlava di sé. Ma parlando di sé, delle sue ossessioni e dei suoi ricordi inventati, ha parlato anche di noi. Secondo una tradizione della nostra cultura che risale almeno a Dante, Fellini ha cioè identificato la sua opera con il proprio Paese e ha trasformato l’autobiografia in una mitografia nazionale. Quella felliniana è una memoria privata che, proprio perché sospesa sul crinale tra ricordo e invenzione, si offre invece come un racconto “corale”.

F. Z.: Basandosi sulla ricerca d’archivio, il tuo lavoro restituisce l’immagine di un Fellini che prende parte ai dibattiti culturali e politici suscitati dai suoi film. In che misura si può parlare di un Fellini polemista?

A. M.: Cecilia Mangini lo ha detto recentemente con grande efficacia: «Fellini non era di sinistra, ma era gradito alla sinistra. Non era cattolico, ma gradito ai cattolici. Non era laico, ma gradito ai laici». In occasione dei suoi funerali, poi, Ettore Scola dichiarò che a suo avviso Fellini era stato «il più politico dei registi italiani». Non c’è contraddizione in queste due affermazioni. Questa astuzia tipicamente felliniana di collocarsi oltre gli schieramenti ideologici e le contrapposizioni così forti e nette del nostro Paese, lo metteva nelle condizioni ideali per svolgere un discorso sull’italianità e i suoi archetipi. Durante le ricerche su quotidiani e rotocalchi che sono servite come base per questo libro, mi ha stupito la frequenza con cui, sin dall’inizio degli anni Sessanta, ci si imbatte in dichiarazioni di Fellini sul carattere nazionale, tanto nei suoi stereotipi consolidati che nelle letture più raffinate. Fellini, ad esempio, invitava a leggere Giulietta degli spiriti, che è del 1965, come un film sull’impossibile autonomia della donna nella cultura italiana, dunque come un film a favore del divorzio, diceva. È una lettura che oggi ci sembra insolita, ma che restituisce un’immagine assai differente rispetto a quella consolidata dell’artista preso nel suo mondo di ricordi, magie e incantesimi. Senza dimenticare che poi, a partire dalla fine degli anni Settanta, Fellini si mette in scena sui media in chiave apertamente polemica. Basti pensare all’acceso confronto con le femministe in occasione de La città delle donne, oppure con Silvio Berlusconi, a ridosso del referendum sulla legge che avrebbe dovuto regolamentare le interruzioni dei film trasmessi in TV.

F. Z.: C’è un paragrafo del libro nel quale descrivi la capacità di Fellini di dare i nomi alle cose, di mettere a lavoro la figura retorica dell’antonomasia e, si potrebbe dire, dell’“antonomasia visiva” (da “Vitellone” a “Paparazzo”, ad “Amarcord”) per descrivere forme di vita e aspetti dell’“italianità”. È come se in tale capacità si concentrasse l’espressione massima della critica sociale felliniana e, al contempo, la sua fascinazione nei confronti degli aspetti decadenti, puerili e patologici della cultura del Paese.

A. M.: Fellini era un prodigioso intreccio di creatività e seduzione, al modo in cui ad esempio lo è stato Picasso. Si esprimeva per simboli che catturavano l’immaginario collettivo, ma non di meno era affascinato dalle parole e anzitutto dalla capacità evocativa dei suoni delle parole – e c’è tutto un lavoro da fare sulla vocalità dei suoi film che rivelerebbe aspetti decisivi dell’opera felliniana. Non fosse diventato cineasta sarebbe stato un ottimo pubblicitario (come peraltro ha dimostrato alla fine della sua carriera) o un’icona dell’arte contemporanea. Non dimentichiamo però che aveva anche la capacità di circondarsi di grandi collaboratori, nonché di “rubare” tutto ciò che captava per poi rielaborarlo e venderlo come un marchio felliniano (basti ricordare che il termine Vitelloni era di Flaiano). Fellini, se così si può dire, pensava e si muoveva in un postmoderno naturale. Lavorava per echi, rimandi, appropriazioni, suggestioni appena intraviste. Ciò gli permetteva di riassumere in una parola – come nel caso di Vitelloni o Amarcord – fenomeni tipicamente italiani che erano oggetto di estenuanti analisi da parte di intellettuali e giornalisti.

F. Z.: Gilles Deleuze, uno degli osservatori più acuti del cinema del maestro riminese, ha parlato di “procadenza” per descrivere la mescolanza, l’intersezione continua tra decadenza e rigenerazione creativa, tra pulsioni di morte e slanci vitali, che caratterizza i film di Fellini.

A. M.: Credo che Deleuze si riferisca al finale de La città delle donne, ma il termine usato da Fellini è un altro: “progressenza”. Una parola scritta su un cartello retto da un gruppo di femministe. In un’intervista in cui lo interrogavano sul significato di questa parola, Fellini osservava: «Progressenza vuol dire progresso più decadenza, e nel vocabolario d’Italia dovrebbe proprio esserci: non capita da noi che i due termini convivano, intrecciati e inestricabili?». La tua osservazione però è molto interessante perché mi permette di sottolineare meglio l’operazione che ho tentato di portare avanti in questo lavoro. Deleuze, infatti, oltre a non ricordarsi il termine giusto (ma questo non è importante) lo riconduce giustamente a categorie estetologico-filosofiche, all’intersezione cioè tra rinascita e inabissamento, tra freschezza e deterioramento; a un gioco di “forze”, se vogliamo dirla con Deleuze. Ma condotto nell’orizzonte filosofico, il termine “progressenza” e il gioco che esso indica diventano assai più utili per Deleuze che per noi. Intendo dire che esso viene svuotato di quella specificità italiana richiamata come abbiamo visto dallo stesso Fellini. Una specificità che appunto va invece recuperata in tutta la sua dimensione antropologica e storica. È vero, tuttavia, che questa “progressenza” trascende anche la dimensione italiana di Fellini. E allora, le indicazioni di Deleuze potrebbero essere preziose per avvicinare ad esempio l’opera di Warhol e quella di Fellini.

F. Z.: E infatti, nella prima parte del libro, associ il fenomeno di trasformazione (forse inevitabile) de La dolce vita in un marchio glamour alla ricerca visiva di Andy Warhol, anch’essa costantemente in bilico tra l’esaltazione di una bellezza plastificata e l’esibizione di un principio di decomposizione che sta per colpirla, tra la pura evasione e la critica sociale.

A. M.: Il senso è proprio quello di un “principio di decomposizione”. Una decomposizione che preme sotto la bellezza, dietro il glamour delle pose alla moda; come una crepa invisibile da cui si intravede una noia mostruosa dipinta sui volti, sia che ci si trovi nella café-society di via Veneto che nel variopinto mondo della Factory e del jet-set artistico newyorchese. La celebre frase di Warhol, «Roma è l’esempio di ciò che accade quando i monumenti durano troppo a lungo», è un ottimo esergo per comprendere l’opera di Fellini e quel rapporto tra decadenza e spinta vitale di cui parlavamo. D’altro canto, nella Dolce Vita si disegna il gioco di fascinazione e repulsione per quella insopprimibile inautenticità del moderno che nutre anche l’opera e la filosofia di Warhol.

F. Z.: Una delle sequenze sulle quali ti soffermi con maggiore attenzione è quella del “falso miracolo” di La dolce vita. Ernesto De Martino attribuì a Fellini la capacità di cogliere e riprodurre alcune “verità etnografiche” dell’Italia. Ma in quell’episodio straordinario del film, nell’attesa del miracolo che diventa show, leggi anche una sorta di prognosi figurale della tragedia del pozzo di Vermicino, che sarebbe avvenuta vent’anni dopo, e più in generale di una deriva dell’immaginario televisivo. È forse anche in questa capacità di trasfigurare la realtà una delle implicazioni politiche di Fellini?

A. M.: Fellini è stato un artista che, come un sismografo, seppe registrare e spesso anticipare i mutamenti delle mode, del costume, della vita del Paese. Da un lato, ha avuto la fortuna di attraversare un periodo di formidabili quanto repentine trasformazioni. Dall’altro, era dotato di una naturale predisposizione a collocarsi nel mezzo di queste mutazioni, anziché a guardarle da fuori; a lasciarsi trasportare da quel fiume in piena che era la modernizzazione italiana non già per cercare di capirla, al modo di intellettuali come Calvino o Pasolini, ma per restituirci semmai in tutta la sua potenza immaginifica un’infantile, frenetica curiosità verso tutto un mondo nuovo che avanzava e allo stesso tempo una profonda melanconia per ciò che svaniva e si perdeva. Oggi, questo moto di adesione e paura che Fellini ha saputo fermare in portentose immagini simboliche è un archivio prezioso per comprendere il rapporto tra l’italianità e la modernità. Il caso della sequenza del Falso Miracolo che tu citi è a mio avviso esemplare. Da un lato, c’è l’Italia arcaica, l’epifania mariana, il bisogno popolare di illusione che da noi sfocia nella superstizione; c’è insomma il mondo magico indagato da De Martino, appunto. Dall’altro, e contemporaneamente, ci sono i rituali dei media, la conversione della cronaca in spettacolo, finzione, simulazione, cioè in un altro, più cinico e “moderno” bisogno di illusione. Nell’eccesso felliniano, poi, tutto ciò diventa fantascienza pura, col set televisivo che in quella scena pare un’astronave atterrata nella campagna italiana.
E allora sì, tra le pieghe di questa sequenza, c’è tutto il senso della tragica cerimonia dei media che anni dopo verrà allestita a Vermicino. A rivederle oggi, le immagini di quella drammatica diretta Rai, sembrano uno strano incrocio tra un film neorealista, lo sbarco sulla Luna organizzato con scarsi mezzi e il remake della sequenza del Falso Miracolo, appunto. Un’Italia arcaica e postmoderna; questa mi pare una delle cifre specifiche del Paese che mette in scena Fellini.

F. Z.: Il 1979 è una data importante: Prova d’orchestra segna per Fellini un’esplicita presa di posizione nei confronti del periodo di forti tensioni che, nell’ultimo decennio, avevano scosso il Paese. Al di là dell’allegoria politica, questo film ti offre anche l’occasione per un interessante confronto con un altro grande interprete di quegli anni: Leonardo Sciascia. In che direzione credi che sia possibile sviluppare un confronto tra due autori così diversi?

A. M.: Fellini e Sciascia sono stati due grandi irregolari della cultura italiana. Mi interessava tentare un confronto tra il film Prova d’Orchestra e L’Affaire Moro accostando i dibattiti che più o meno negli stessi giorni hanno innescato sui giornali italiani. Entrambi, Sciascia e Fellini, erano accusati in quel caso di fare politica travestita da arte. Entrambi col loro gesto avevano lasciato perplessi gli intellettuali schierati a sinistra. Ho trovato un articolo della rivista «Il Borghese» che accostava queste reazioni scrivendo che «mettere la mordacchia a Sciascia e Fellini è difficile; ricondurli all’ovile del conformismo è impresa ancora più ardua». Certamente, si tratta di due personalità estremamente diverse, forse opposte. Anche se entrambi, a mio avviso, hanno svolto due tra i più lucidi discorsi sulla dimensione storica e antropologica del fascismo, del suo consenso sociale e del rapporto col carattere italiano, nella consapevolezza dei rischi di qualunquismo che pure comporta una posizione del genere. Inoltre, se Sciascia fa della Sicilia la metafora della storia e del carattere italiani, Fellini si può dire che compia la stessa operazione con Roma.

F. Z.: Gli anni Ottanta sono segnati dall’avvento delle TV commerciali e dalla battaglia di Fellini contro l’interruzione dei film da parte delle strisce pubblicitarie.

A. M.: Quello degli anni Ottanta è forse il Fellini meno studiato. Ma credo dipenda anzitutto da un fatto molto semplice: nel contesto complessivo della sua opera, si tratta di film sensibilmente inferiori. Stanchi, ripetitivi, ripiegati sulla celebrazione compiaciuta del proprio mito. Allo stesso tempo però sono film molto interessanti per comprendere la parabola compiuta dall’idea stessa di cinema d’autore nella nostra cultura, idea che proprio in quel decennio entra definitivamente in crisi. La battaglia di Fellini contro gli spot pubblicitari (una battaglia che lo vide fianco a fianco al PCI, un partito per cui non votò mai, tanto per inciso) fu una battaglia che, nei suoi slanci ideali come nelle sue miopie, riflette un passaggio decisivo in cui si giocano alcune trasformazioni antropologiche dell’Italia contemporanea. Ricostruire quel dibattito mi è parsa la premessa migliore per guardare ai film di Fellini degli anni Ottanta. Film che sono segnati da una radicale idiosincrasia verso la società italiana. Dallo smarrimento di un senso di appartenenza a una spinta comune che lo aveva sin lì sorretto e ispirato. La nostalgia felliniana, che in Amarcord trovava uno dei suoi vertici di popolarità, si faceva ora più tetra; fino a sfiorare le forme dell’invettiva.

F. Z.: L’elaborazione di una riflessione politica deve insomma fare apertamente i conti con una trasformazione avvenuta nelle comunicazioni di massa. Ma, per riprendere una celebre categoria introdotta (e criticata) da Umberto Eco, la figura dell’ultimo Fellini non può essere identificata con quella di un apocalittico. Allo stesso modo, la realizzazione di alcuni spot televisivi non fa certamente di lui un integrato.

A. M.: La posizione di Felini verso la TV non era di rifiuto radicale, secondo il moralismo di molti intellettuali del periodo. Nell’ascesa inarrestabile delle TV private, erano espresse indicazioni e bisogni provenienti dal basso. Indicazioni che la cultura di sinistra e il mondo del cinema d’autore, in gran parte legati alla vetusta idea dello spettatore passivo, condizionato e costruito dall’alto di una nuova egemonia sottoculturale, non potevano cogliere. Fellini, infondo, avvertiva sì una deriva della società italiana, ma avvertiva anche e a mio avviso anzitutto la sua inevitabile esclusione dal presente. Esclusione che, per uno che ha vissuto giocando sempre d’anticipo su tutto e tutti, era una cosa difficile da accettare. Sono tante le sue dichiarazioni in quel periodo, e sono in molti a chiedergli che ne sarà del cinema nell’era della TV e del computer. Ma c’è una risposta di Fellini che mi è rimasta impressa più di altre, perché contiene la sincera ammissione di uno sgomento. Una constatazione al contempo lungimirante e amara. Dice Fellini: «Questo salto culturale non va guardato con sospetto e nemmeno con paura. Anche se mi sgomenta veder cancellata tutt’una serie di valori, comprese le emozioni nelle quali mi sono sempre riconosciuto e che mi hanno suggerito un punto di vista sul mondo, io sono tentato di stare a guardare tutti questi mutamenti con rispetto. Mi domando soltanto com’è successo, quando, dov’ero io quando accadeva. C’è questa nuova creatura umana, che apparentemente ci somiglia, nonostante le sue cuffie stereofoniche e i suoi pattini a rotelle, ma che sa fare straordinariamente a meno delle cose alle quali noi siamo stati educati».

F. Z.: Ha senso parlare di un’eredità artistica di Fellini e di Fellini politico? Se sì, questa si è concentrata su un autore in particolare oppure è piuttosto una lezione diffusa, capace di influenzare in modo diversificato la produzione contemporanea non solo italiana?

A. M.: Credo abbia senso rileggere la storia del cinema italiano con strumenti e metodi interpretativi in grado di rinnovarsi costantemente. Quello che a me interessa, in particolare, è la storia culturale; il rapporto di prossimità e costante sovrapposizione tra il cinema e lo spazio pubblico; il modo in cui i film esprimono e rilanciano conflitti sociali, culturali, politici. Non “rispecchiano”, come verrebbe da dire secondo la vulgata di una peraltro mai nata sociologia del cinema. Non c’è un gioco di specchi tra arte e società. C’è semmai un nodo di conflitti e tensioni che si rilanciano in altrettante forme simboliche e discorsi sociali. Questa è a mio avviso la migliore lezione del New Historicism americano che però qui da noi non ha ancora avuto il seguito che meritava. Il lavoro su Fellini rientra in questo orizzonte di metodo. Da un lato, Fellini anticipava e cavalcava la modernità italiana. Dall’altro, mostrava l’irrimediabilità della perdita che la trasformazione portava in sé. Da qui proviene quell’intreccio di euforia e malinconia poeticamente sovrapposti in altrettante visioni. Da qui, insomma, si genera una galleria di simboli come il cristo in elicottero e il mostro arenato sulla spiaggia de La dolce vita, il Rex di cartone di Amarcord, l’oscuro maglio d’acciaio del finale di Prova d’orchestra; visioni che si offrono anche come un formidabile archivio immaginario per comprendere la dimensione radicalmente traumatica della nostra modernità. Anche se Fellini è amato in tutto il mondo, il confine che separa l’imbalsamazione monumentale di un’artista dal suo oblio è assai labile. Oltre l’intestazione di strade, piazze e aeroporti, oltre le commemorazioni e le rassegne, è attraverso la ricerca negli archivi e il costante aggiornamento e la revisione dei saperi messi in gioco che l’opera di un autore può continuare a parlarci.

Di Francesco Zucconi

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