Andrea Paganini e la sua ricerca della verità (Ilbernina.ch)

di Achille Pola, del 26 Maggio 2023

Il romanzo di Andrea Paganini “Le indagini imperfette” (ed. Rubbettino, luglio 2022) sta continuando a suscitare grande interesse sia per le vicende storiche in esso narrate che per il suo valore letterario. L’autore ha dedicato anni di intense ricerche per approdare a questo eterogeneo testo, a cavallo tra romanzo storico (o noir) e romanzo-inchiesta, in cui svela una non comune capacità narrativa e un’infaticabile volontà tesa alla ricerca della verità. Una verità – in questo caso – pertinente a fatti realmente accaduti fra Viano e la Val Grosina negli ultimi scampoli della Seconda guerra mondiale e che condussero all’uccisione, da parte di un plotone d’esecuzione di una brigata partigiana valtellinese, di un ingegnere milanese rimasto fino all’ultimo fedele all’ideologia fascista. A distanza di più di 75 anni dai fatti narrati, e dallo strascico giudiziario scaturitone, il romanzo di Paganini indaga su questa torbida vicenda facendo emergere tutta una serie di contraddizioni e alcuni tasselli che la magistratura di allora non poté o non volle considerare.

Il libro – che consta di ben 680 pagine – non tratta però soltanto di un’inchiesta volta a far luce sul preciso svolgimento dei fatti, su eventuali correttezze o manchevolezze dei giudici che all’epoca si occuparono del caso. Il romanzo offre infatti centinaia di pagine stese nel solco della migliore letteratura, contraddistinte da accuratezza del linguaggio e rigore storiografico. Mi riferisco in particolare alle puntuali ed evocative descrizioni di luoghi, oggetti e monumenti di cui la vicenda è disseminata, ma anche – a titolo di esempio – al
capitolo iniziale, dove è descritto con maestria l’ambiente milanese dopo il 23 settembre 1943, o a quello dedicato alla lotta partigiana in Valtellina. Inoltre, facendo leva su figure di primo piano come quelle di don Felice Menghini e del giudice istruttore Gion Willi, Paganini pungola  sapientemente il lettore inscenando dialoghi di natura religiosa e filosofica.

Ai potenziali lettori che non hanno ancora avuto “Le indagini imperfette” fra le mani, ma anche a quelli che lo hanno divorato con la smania tipica della lettura di gialli, il consiglio è dunque quello di tornare su alcune di queste pagine di rara bellezza estetica, dove Paganini – a mio modesto parere – è riuscito a dispiegare il meglio di sé.

Nell’intervista all’autore, che gentilmente qui ci concede, abbiamo voluto discutere con lui del metodo e di
alcuni temi affrontati nel romanzo.

Nelle interviste da te fin qui rilasciate parli di una “storia” che attendeva di essere narrata. Vi è stato un motivo decisivo che però ti ha indotto a scriverla? E in particolare a descriverla in modo così particolareggiato?

Per quanto possa sembrare strano, non è un artificio retorico: io non sono l’autore di questa storia, ma solo lo scrivano, l’autrice è la vita stessa (la cui fantasia supera di molto la mia). La vicenda – con un omicidio, una truffa, delle indagini e delle sentenze al di qua e al di là della frontiera – mi ha intrigato fin dal primo momento in cui mi ci sono imbattuto, per cui mi sono sentito sollecitato a svolgere delle ricerche e a raccontarla. Ovviamente all’inizio non sapevo se i protagonisti sarebbero risultati colpevoli o innocenti; e  nemmeno se ne sarebbe uscito un racconto o un romanzo, ma strada facendo ho trovato sempre nuovi elementi avvincenti e dettagli sapidi, venuti ad arricchire l’intreccio. Le motivazioni che mi hanno spinto sono forse due: la sete di verità e la ricerca di bellezza, oltre al desiderio di raccontare un momento storico cruciale in un contesto che mi è caro. Ho dovuto porre l’attenzione su tanti particolari perché, trattandosi di una storia vera, non potevo sorvolare o approssimare; e poi perché in molti casi i dettagli sono  risultati decisivi. Da un piccolo errore di lettura, ad esempio, è dipesa probabilmente la vita di un uomo.

La scelta di m mantenere i nomi reali dei personaggi richiede rigore e coraggio. Ci puoi descrivere con quale stato d’animo hai affrontato e stai affrontando eventuali reazioni dei lettori parenti dei personaggi principali?

Alcuni fatti e personaggi dei Promessi Sposi di Manzoni sono reali: cosa cambierebbe se lo fossero tutti? Nel mio romanzo, sentivo che bisognava superare gli steccati tra i generi. Non volevo che il mio fosse “solo” un romanzo storico, anzi volevo che lo fosse fino in fondo: che pur essendo narrativa, mantenesse il rigore di un saggio o di un’inchiesta seria, almeno negli aspetti con una rilevanza storica o giuridica. Sarebbe stato assurdo illustrare la fine del fascismo senza parlare di Mussolini, o del prete letterato di Poschiavo senza fare il nome di Felice Menghini, o del movimento partigiano valtellinese senza menzionarne i suoi esponenti, o del giudice
istruttore di Coira senza chiamarlo Gion Willi: proprio perché mi basavo su documenti autentici. Per quanto riguarda i nomi dei tre protagonisti, negli anni Quaranta e Cinquanta questa storia fece scorrere parecchio inchiostro, sul «Corriere della Sera» uscirono vari articoli, per cui i personaggi erano ben noti; se ne è parlato anzi pure in pubblicazioni importanti nell’ambito degli studi giuridici. D’altra parte il libro ha un’anima garantista per cui, smascherando un grave errore giudiziario, intende riscattare l’onore di persone che furono vittime di malagiustizia… ma non voglio rivelare troppo a chi non l’ha ancora letto.  Ovviamente prima della pubblicazione ho cercato i parenti dei protagonisti per spiegare loro il mio intento; alcuni di loro hanno poi anche partecipato a una presentazione del libro. D’altra parte sentivo che anzitutto dovevo “entrare” nella pelle dei personaggi, vivere la loro esperienza “dal di dentro”, cogliere il loro punto di vista, la loro umanità, con rispetto, volergli bene, e solo a quel punto potevo raccontarli e dar loro voce.

Se da un lato in numerose pagine del romanzo dai sfogo alla creatività letteraria, in altre non hai lesinato in citazioni e riproduzioni di verbali, a tratti in modo dettagliato: un registro che rimanda alla narrativa d’inchiesta o al saggio. Hai mai avuto dubbi sulla scelta di mischiare i generi?

Era importante raccogliere la sfida, ci ho provato. Se poi ci sono riuscito o no, lo lascio giudicare ai lettori. Comunque anche la narrativa – che rispetto alla saggistica è  emotivamente più coinvolgente, fa sperimentare atmosfere, sentimenti, stati d’animo – può far comprendere come sono realmente andate le cose, può avvicinare alla realtà, oltre che alla bellezza.

Al di là dei tre personaggi principali implica; nel delitto, nel romanzo si profilano con chiarezza le figure di don Felice Menghini e del giudice istruttore Gion Willi. Quanto ti sei identificato in questi due personaggi?

Anche per descrivere questi due personaggi mi sono basato sui documenti dell’epoca, sulla corrispondenza, su ciò che mi ha detto la vedova Willi (che ancora vive)… Con loro però mi sono permesso una maggiore focalizzazione interna, raccontando anche le riflessioni, le intuizioni o deduzioni. E in questo senso – essendo entrambi investigatori sui generis, uno con un animo religioso e artistico, l’altro con uno sguardo più giuridico – si può dire che mi sono identificato più con loro che con altri personaggi.

L’uccisione di Rezzani è avvenuta in un contesto di guerriglia in cui la logica sottesa alla convivenza civile (ossia allo stato di diritto) vien ribaltata in favore del mo6o – che riprendo dal tuo romanzo – “mors tua vita mea” o nel peggiore dei casi della rappresaglia. Non si riduce in fondo a questo indistricabile garbuglio etico l’impossibilità di trovare il vero colpevole di questo omicidio?

I colpevoli, vale a dire coloro che premettero il grilletto, mi interessavano poco (si trovano nel libro, anche se bisogna cercarli con attenzione): mi interessava molto di più la storia di coloro che erano accusati di essere i mandanti del crimine…; e poi mi interessavano i meccanismi – fallibili – della giustizia umana. D’altra parte la colpa non è sempre attribuibile integralmente a uno o due colpevoli, come in un film di Hollywood: è proprio il livello morale di certi momenti storici – e della guerra in particolare – che è infimo. Le indagini imperfette è, soprattutto, un romanzo che mette in luce l’assurdità e la disumanità della guerra, della giustizia sommaria, della pena di morte.

Malagiustizia, menzogne, occultamento delle prove sono solo alcuni degli elementi che emergono da questa incredibile quanto poco conosciuta vicenda accaduta sull’uscio di casa nostra. Ma anche la cronaca giudiziaria – e non solo giudiziaria – dei nostri giorni ne è stracolma. Quali suggerimenti ti senti di dare alle odierne giovani generazioni per far fronte con ottimismo a questo stato delle cose?

Penso che il garantismo sia un pilastro importantissimo della nostra civiltà (in teoria), che però troppo spesso viene dimenticato o consapevolmente violato (nella pratica). Quante volte la giustizia non è all’altezza della verità?! Ed è drammatico! Non può darsi che un’ipotesi “non esclusa” venga automaticamente fatta passare per veritiera! Altrimenti si trasforma il diritto umano alla presunzione di innocenza fino a prova contraria in una barbara presunzione di colpevolezza a priori. Nella mia dedica chiedo alle vittime della giustizia, che a volte è ingiusta, di fare il possibile per riscattarsi e a chi deve giudicare di andare oltre l’apparenza, per giungere alla verità dei fatti. Anche se spesso, in un mondo giustizialista che gode alla vista di un cappio o della gogna, vuol dire andare contro corrente.

Nelle battute finali del romanzo sostieni che la ricerca della verità è “un orizzonte verso cui tendere, un orizzonte senza fine”. Tuttavia è consolante osservare che sulla vicenda in questione tu sia riuscito a gettare molta luce su alcune zone oscure… Qual è il segreto di questo successo?

Ho avuto fortuna: non era scontato che, dopo così tanto tempo, trovassi tu; i pezzi del puzzle. E poi c’è voluto un lavoro sodo, fatto di pazienza e di perseveranza. Ma in fondo sono stato fortunato.