Sulle tracce di se stessi in un mondo che svanisce (gazzettadelsud.it)

di Davide Emme, del 19 Giugno 2020

Se non sbaglio è in “Motherless Brooklyn” (Brooklyn senza madre) che Jonathan Lethem mette per la prima volta a fuoco la figura di un investigatore sui generis: Lionel Essrog (detto Testadipazzo), il protagonista del romanzo, è affetto dalla sindrome di Tourette, per cui l’indagine che conduce, da un lato, deve superare gli ostacoli che via via l’assassino mette sul suo cammino per far perdere le proprie tracce e, dall’altro, si deve districare negli aggrovigliati labirinti della sua stessa mente. Ebbene, anche il criminologo di fama internazionale Flesherman – protagonista del nuovo romanzo del cosentino Giuseppe Aloe “Lettere alla moglie di Hagenbach” (Rubbettino), che sarà presentato online oggi alle 19 sulla pagina Facebook del circolo culturale Guglielmo Calarco – si trova nelle condizioni di svolgere un’indagine «ingabbiato dalla malattia ma assetato di giustizia». Demenza senile, questo il verdetto del medico, in una forma che «prima o poi sfocerà in Alzheimer».

La voce di Flesherman non è greve, ma dura, senza illusioni, quando ci spiega come egli continua a perdere parti di sé: «La mia storia si sta assottigliando. Diventa giorno dopo giorno esile, come trasparente. Quasi fossi un ragazzo, proprio come uno di quelli che vedi correre sulla spiaggia, senza pena e rimorsi e non un uomo di sessantanove anni, affacciato sul limite del niente». Ecco, Giuseppe Aloe – autore cosentino al suo settimo romanzo (con “La logica del desiderio”, Perrone editore, fu nella dodicina dello Strega nel 2011) prende fin da subito saldamente in mano le fila della trama che vanno via via infittendosi, in modo tale che il lettore non può che affidarsi a lui come un bambino che dice: mi piaccion le fiabe, raccontane altre.

Come dire che la narrazione di Aloe ha la forza di penetrazione di una lama d’acciaio nel cuore del cuore della nostra coscienza. Ma succede che l’esprit de géométrie s’unisca all’esprit de finesse. E così, mentre leggiamo avviene la magia: da un lato seguiamo appassionati la linea avvincente, il disegno dell’indagine, dall’altro non possiamo non soffermarci sulla fragilità, la caducità, di fronte a cui vacilla intimorito il nostro destino di ogni giorno. E alla fine, il lettore ci arriva: non è solo un thriller metafisico quello che ha fra le mani, ma nientemeno che la meditazione au rebours sulla sua stessa esistenza. Flesherman riceve una telefonata da un suo collega di Berlino, il professor Bausch: nell’obitorio della Charité, è stato ritrovato il cadavere di Rosa Luxemburg, la fondatrice del partito comunista tedesco, torturata e uccisa nel 1919 dai Freikorps. Il cadavere, conservato nell’obitorio da più di novant’anni, è senza testa, senza mani e senza piedi.

E se fossero queste le spoglie mortali della Luxemburg e non quelle sepolte al cimitero monumentale? Al cimitero di Friedrichsfelde «avrebbero tumulato una donna qualsiasi?». Flesherman accetta di occuparsi del mistero, se ne fa carico. Vola in Germania. Ma una volta a Berlino, Bausch parla a Flesherman della scomparsa dello scrittore Hagenbach, Karl Hagenbach. Dello scrittore si sono perse le tracce. Sua moglie, Dora, soffre di demenza senile, ormai conclamata in Alzheimer. E si dà il caso che Hagenbach non riesca a rassegnarsi alla sua malattia. Da lungo tempo lei è ricoverata nel reparto di lunga degenza alla Charité, e Hagenbach, da lungo tempo, pur di continuare un ideale dialogo con lei (e con la sua assenza) continua a scriverle lettere. A Flesherman – che si occuperà della sua misteriosa scomparsa – toccherà prendere in mano e leggere una per una queste lettere. «È giusto legare in tal modo – chiede Hagenbach alla moglie – la propria vita a quella di un’altra persona?». È qui che quello di Aloe diventa un altro romanzo, un romanzo nel romanzo: Flesherman, che lotta con la propria malattia che lo incalza, insegue uno scrittore che ama e che ammira il quale a sua volta deve lottare con la malattia che ha messo al tappeto la moglie. Per fare questo il protagonista si deve fare largo a stento fra i cespugli contorti della memoria.

È come se Flesherman – via via che il suo percorso si scioglie nella trama – pur avendo conservato in tasca un biglietto di sola andata per una mèta sconosciuta, sia obbligato a chiedersi: ma chi mi dirà di scendere quando sarò arrivato? Insomma, Flesherman sta inseguendo se stesso? Dal cadavere della Luxemburg alla scomparsa di Hagenbach e della memoria della moglie, oltre che della sua stessa memoria, la verità è che, come ognuno di noi, sta seguendo le proprie tracce. Solo nel chiuso del retrobottega di se stesso, sta lavorando forse ormai da troppo tempo all’imitazione della propria persona.

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