Francesco Delzio: Cercasi un partito del Pil (magazine.tipitosti.it)

del 9 Dicembre 2019

Francesco Delzio

La ribellione delle imprese

In Piazza. Senza Pil e senza Partiti

“Siamo secondi ed esportiamo grazie all’industria 450 miliardi. Il made in Italy è diventato negli anni più competitivo. Qualche evidenza? Rispetto a circa 1500 prodotti, siamo tra i primi cinque Paesi al mondo per migliore bilancia commerciale. Inoltre l’Italia detiene il quinto surplus manifatturiero con l’estero, ex aequo con Taiwan, dopo Cina, Germania, Corea del Sud e Giappone. E le nostre piccole e mede imprese manifatturiere con 10249 addetti sono prime per export nell’area Ocse, con 180 miliardi di dollari. Tutto ciò è avvenuto grazie allo straordinario sforzo di trasformazione compiuto a partire dal 2015 dalla nostra industria manifatturiera, favorito dagli incentivi del Piano Industria 4.0. Basti pensare alla crescita impressionante dei robot in Italia negli ultimi tre anni: + 48% nell’alimentare, +27 % nella moda, +21 nel legno arredo, +23 nella metalmeccanica. Lo conferma con gli occhiali profondi da economista industriale Romano Prodi, secondo cui la globalizzazione ha fatto una selezione dura e dolorosa, ma anche plasmato e migliorato il tessuto produttivo italiano: il cuore del nostro capitalismo sono le 2500 medie imprese. La loro capacità di combinare innovazione di prodotto e processo, il loro saper fare artigianale, ma molto raffinato e tecnologicamente complesso, è impareggiabile”.

E’ quanto scrive Francesco Fabrizio Delzio (Bari, ’74), nel suo ultimo libro, edito da Rubbettino, dal titolo: La Ribellione delle imprese – In piazza. Senza pil e senza partiti. Un bel lavoro, di poco più di cento pagine, in cui il manager, docente universitario e scrittore, paragona gli imprenditori a degli Atlante, che sorreggono il peso di un Paese, ma sono allo stremo, perché da tanti anni mal visti.  Se non odiati. Tanti sforzi, nessun sostegno e in più una narrazione negativa davvero incomprensibile. Ma, a sentire l’autore,  sarebbe un errore di lettura considerare l’ostilità sociale e culturale verso gli imprenditori esclusivamente come effetto dell’ondata populista.

“L’Italia è un Paese diviso, gli imprenditori si sentono soli come mai”, denunciava già nel 20111, l’allora Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. “Nel rapporto con il mondo dell’impresa – scrive ancora –  infatti, il populismo ha semplicemente cavalcato un’onda negativa che esisteva in Italia e che probabilmente si è formata durante la Grande Crisi degli anni Duemila”.

Così, gli imprenditori, motore dello sviluppo di un Paese, vivono in affanno. E in un paradosso: la rendita sembra più coccolata del lavoro. Eppure, ci fa sapere Delzio, persino lo stesso partito comunista era anticapitalista, ma non anti industriale. “Non avrebbe potuto esserlo –  dato che puntava a egemonizzare la classe dei salariati dell’industria. Adesso è l’anti-industrialismo, più che l’anticapitalismo, a tenere banco”.

Che in Italia sia in atto una controrivoluzione illiberale? E cosa succederebbe se gli Atlante, che reggono il Paese ogni giorno, sulle proprie spalle, decidessero improvvisamente di alzare la testa e scrollarsi dalle spalle il loro peso? Gli imprenditori, vittime di una concezione del tempo che mette il futuro alla gogna – perché inaffidabile e ingestibile – mentre rivaluta il passato, che diventa l’unica prospettiva? E se è così, quale sarà il futuro dei nostri figli, considerando che secondo le stime dell’European Parliamentary Research Service (il centro di ricerca ufficiale del Parlamento europeo) tra 15 anni l’Unione Europea brexizzata non comparirà piu tra le tre economie mondiali (che saranno Cina, Stati Uniti e India), nonostante una crescita media dell’1,4% l’anno nei prossimi anni e che nessun Paese europeo sarà tra le prime sette potenze industriali del Pianeta? A queste domande, che richiederebbero se non una ribellione immediata, almeno una riflessione, l’autore prova a tracciare delle risposte.

Nel frattempo qui facciamogliene altre.

Delzio, allora perché questa resistenza nei confronti di questa categoria? L’invidia sociale, se non è nata con i populisti, si sarà con loro accentuata?

È la domanda decisiva per capire in quale società siamo immersi oggi. Nel libro analizzo una serie di fenomeni che hanno radici antiche e profonde, perché risalgono almeno agli anni Novanta, e che sono in gran parte comuni all’intero mondo occidentale. Ad esempio, la mistica della battaglia contro la Casta. Non è un fenomeno solo italiano e in origine rappresentava una sfida dal grande valore etico contro gli abusi, i misfatti e gli eccessi del potere. Tra i suoi effetti indesiderati e pericolosi, però, c’è stata l’identificazione dell’intera categoria degli imprenditori con la Casta: quattro milioni di protagonisti positivi  – salvo le mele marce, come in tutti gli ambiti – dell’economia e dell’innovazione sociale di questo Paese spinti per necessità dall’altra parte del fiume, perché classificati come attori “negativi” nella percezione sommaria e superficiale di molti italiani in quanto sfruttatori del lavoro altrui, prenditori di contributi pubblici, evasori fiscali e così via. Che tutto questo accada nella patria delle piccole imprese, nelle quali da sempre imprenditori e lavoratori operano quotidianamente fianco a fianco, è davvero impressionante. Ma ancora più preoccupante è il rovesciamento in atto della mappa dei valori della società italiana.

Cioè?

Il lavoro, pilastro delle nostre fortune e del modello valoriale della società del Novecento, viene oggi sostanzialmente equiparato alla rendita sociale. Il reddito di disoccupazione ne è l’esempio più evidente. Non è un caso se in Italia il tasso di occupazione è significativamente più basso che nei Paesi europei comparabili e se più di 10 milioni di italiani, che sarebbero nell’età e nelle condizioni fisiche di lavorare, scelgono di non farlo. Se volessimo individuare la causa prima di una società destinata alla stagnazione e in cui l’odio sociale e l’invidia tendono a prevalere sull’ambizione e sul rispetto dei successi altrui, dovremmo accendere i fari sul blocco dell’ascensore sociale. Un male molto più forte ed evidente in Italia rispetto ad altri Paesi, che priva la nostra società e la nostra economia della naturale forza rigeneratrice del merito e del talento. Se i medici di domani saranno in gran parte i figli dei medici di oggi e i figli degli operai di oggi non avranno alternative ad acconciarsi a lavori umili domani, l’intera società rischia di ripiombare in un Medioevo buio e triste. 

Scrive che oggi gli imprenditori sono senza rappresentanza. La convincono le posizioni antitasse di Italia Viva e il suo piano shock con cui si sbloccherebbero opere pubbliche sul modello Expo per un valore di 120 mld? La Lega, che si proclama vicina agli imprenditori del Nord, come la vede?

La gran parte degli imprenditori italiani oggi non si sente rappresentato dalla politica. Oggi il pil è sostanzialmente senza partito. La tragedia italiana nasce proprio da qui. Imprenditori piccolissimi, piccoli, medi e grandi non hanno riferimenti, spettatori smarriti di una politica nazionale in cui non si riconoscono più. Per molti anni hanno creduto, sperato, addirittura tifato, nella rivoluzione liberale di Berlusconi. Perché nonostante i suoi vizi pubblici e privati, era uno di loro. Parlava la loro lingua e coltivava i loro stessi sogni. Poi molti imprenditori hanno spostato le loro attenzioni verso Matteo Renzi e la sua foga riformista: digerendo la politica non ortodossa del prescelto, a favore delle sue idee innovative e del suo spirito pro impresa. Non per simpatia e senza alcuna identità antropologica, come era stato nel primo caso, ma semplicemente in nome di quel pragmatismo che deve necessariamente caratterizzare l’attività dell’imprenditore. Oggi la maggioranza degli imprenditori guarda alla politica in modo strabico: ad esempio, vota e supporta spesso gli amministratori locali della Lega, assai sensibili e reattivi rispetto alle ragioni e ai valori di riferimento dei produttori, ma fatica a trovare uguali certezze a livello nazionale. Per venire alla sua domanda, le posizione di Italia Viva nell’area di maggioranza, della Lega e di Forza Italia nell’area dell’opposizione, sono sicuramente percepite da chi intraprende come quelle maggiormente pro-impresa, in uno scenario complessivamente sconfortante. Faccio solo un piccolo esempio: le due vere emergenze da affrontare per riportare l’Italia sul sentiero dello sviluppo, ossia il crollo della natalità e la mancata crescita della produttività del lavoro, sono quasi totalmente assenti dalle agende della politica e dal radar dell’opinione pubblica. Così come lo è la battaglia (planetaria) tra Rendita e Produzione. Non credo serva aggiungere altro sul fossato che oggi in Italia divide politica ed economia. Cito un dato: l’Italia è l’unico Paese europeo che sta perdendo popolazione. Negli anni 2015-2018 la popolazione italiana è diminuita di 300 mila unità. Al contrario nello stesso periodo i cittadini tedeschi sono aumentati di ben 2 milioni di unità e quelli francesi di 760 mila unità.  

Nel libro parla di un avvicinamento tra imprenditori e sindacati contro chi governa. Pensa sia autentico o che i sindacati si siano avvicinati al loro storico nemico solo per opporsi a chi oggi è all’esecutivo ed è per la disintermediazione?

L’avvicinamentoè autentico e destinato a durare a lungo, a mio avviso, proprio perché figlio del passaggio in corso dall’era della contrapposizione tra Capitale e Lavoro, a quella della sfida tra Produzione e Rendita. In questo nuovo assetto globale imprenditori e lavoratori si trovano naturalmente dalla stessa parte. Credo che la consapevolezza di questa svolta epocale nel corso dell’ultimo anno sia aumentata notevolmente e che darà vita, sempre più, a iniziative e manifestazioni comuni. Superando steccati ideologici e tabù del passato.

Tra debito (2400 mld), alte tasse, denatalità, burocrazia, populismo penale – si veda il caso dell’ex Ilva- cosa fa più male agli imprenditori e cosa fa scappare investitori stranieri?

Ciò che fa più male ad imprenditori e investitori è, semplicemente, la percezione complessiva di un ambiente non più favorevole all’attività d’impresa. Una percezione su cui può incidere sicuramente il Governo, ma che in realtà è determinata da molti fattori relativi al sistema-Paese. 

A proposito di tasse, è per la flat tax. Ma come si fa a legittimarla visto che è contraria al principio costituzionale di progressività?

La flat tax è un’opzione interessante, che non può essere demonizzata a prescindere e che potrebbe essere realizzata, a mio avviso, in modo graduale e a fronte di robusti e coraggiosi tagli alla spesa pubblica. Con un approccio liberale, non molto comune nel nostro Paese.

Quale potrebbe essere la miccia per una ribellione delle imprese?

Qui è giusto chiarire quale sia lo spirito del mio libro. La ribellione e lo sciopero in piazza sono in realtà metafore che indicano una situazione di profondo e strutturale disagio degli imprenditori, di cui analizzo le cause e le connessioni più recondite. E da cui potrebbero scaturire presto forme di protesta e proposta inedite. 

Dopo la ribellione delle Masse, con un rovesciamento di ruoli senza precedenti la Storia ci sta ponendo di fronte alla ribellione delle Imprese. Sessant’anni fa Ayn Rand ne La rivolta di Atlante aveva previsto che – in un futuro imprecisato – sarebbe avvenuta la sollevazione dei prime movers: la rivolta degli imprenditori contro il collettivismo. Sembrava pura fantasia.
Ma è ciò che sta accadendo, 60 anni dopo, in Italia. Staremo a vedere

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