La guerra come oggetto di studio dell’economia (avantionline.it)

di Gianfranco Sabattini, del 4 Giugno 2015

Da avantionline.it

La guerra può essere oggetto di studio della scienza economica? Se sì, può l’economia suggerire “mosse strategiche” per evitare l’insorgere di conflitti armati tra gli Stati? Sono domande, queste, che sollecitano risposte al cui studio Renata Allìo, docente di Storia economica all’Università di Torino, ha dedicato il volume di recente pubblicazione “Gli economisti e la guerra”. L’interesse dello studio non sta tanto nel considerare l’economia quale strumento per calcolare, se mai fosse possibile, tutti i costi reali di una guerra, quanto nel considerare come la “scienza triste” possa servire a prevenire lo scoppio di conflitti armati, soprattutto di quelli che potrebbero svolgersi con l’impiego degli strumenti di morte dei quali il mondo moderno dispone.
Le risposte date dagli economisti ai quesiti prima formulati sono state, come osserva l’autrice, molto diverse nel tempo; nel senso che, dall’epoca dell’attenzione riservata alla guerra dai primi economisti mercantilisti dei secoli XVI e XVII, si sarebbe giunti “al disinteresse della scuola attualmente prevalente, quella dei neoclassici”. Nell’arco di tempo intercorso, di circa quattro secoli e mezzo, gli economisti avrebbero preso in considerazione aspetti diversi del fenomeno guerra e delle cause che lo determinano, secondo le motivazioni “dettate dai problemi che di volta in volta si ponevano con maggiore urgenza”.
E’ vero che, tra il tardo Cinquecento e il Seicento, i mercantilisti, facendo della potenza dello Stato il paradigma fondamentale dell’agire economico, hanno posto alla base della loro concezione della politica economica la guerra, in quanto strumento indispensabile per raggiungere le finalità stesse dell’economia; è ancora vero che, tra il tardo Settecento e il primo Ottocento, gli economisti classici, sostituendo il paradigma della potenza con quello del “surplus”, hanno sostituito alla guerra, intesa come fattore di arricchimento a spese degli “altri”, l’accumulazione, intesa come esito del funzionamento razionalmente organizzato del sistema economico.
In luogo della guerra, gli economisti classici hanno scelto come loro oggetto di studio la struttura più conveniente dell’attività economica con cui soddisfare i bisogni degli individui, attraverso l’organizzazione, in una situazione di libero scambio, della produzione. Il principio dei costi comparati di ricardiana memoria ha potuto così consentire di giustificare la possibilità di realizzare una situazione di potenziale “pace perpetua” internazionale, rispetto alla quale il fenomeno della guerra perdeva ogni rilevanza.
La guerra, tuttavia, come fattore economico di possibile impiego, anche se non auspicabile, è stato invece ricuperato dalla scuola storica tedesca, nata dopo la rivoluzione industriale, in opposizione alla scuola classica e, soprattutto, agli effetti, non sempre positivi, sul piano delle relazioni tra gli Stati, del regime di libero scambio, attraverso il quale si era preteso “di sostituire la sovranità nazionale e popolare della politica con le presunte leggi universali del commercio”.
Con la teoria economica neoclassica, affermatasi a partire dalla seconda metà del XIX secolo, la guerra, con l’adozione di un nuovo paradigma, ha continuato a risultare irrilevante; in luogo del “surplus” degli economisti classici, i neoclassici hanno assunto alla base dell’agire economico la posizione di equilibrio del sistema economico, rispetto al quale è stata conformata l’intera analisi della teoria economica. Al contrario degli economisti marxisti che, ancora più radicalmente di quelli della scuola storica tedesca, consideravano la guerra come una dimensione intrinseca al modo di funzionare dell’economia capitalista, gli economisti neoclassici hanno espunto dall’oggetto di studio dell’economia tutti i fenomeni, compresa la guerra, che disturbavano il conseguimento dell’equilibrio. A loro avviso, almeno sino alla seconda metà del secolo scorso, la guerra era da considerarsi un fenomeno che apparteneva alla sfera politica, indipendentemente dai problemi che esso avrebbe potuto comportare dal punto di vista della conservazione dell’equilibrio del sistema economico.
Nel secondo dopoguerra, però, la “Teoria dei giochi”, ovvero l’analisi matematica delle decisioni di un soggetto in situazioni di interazione con altri soggetti rivali, in cui le decisioni del primo possono influire sui risultati degli altri secondo un meccanismo di retroazione, sino alla massimizzazione di un determinato risultato finale, è stata applicata tanto all’analisi economica, quanto allo studio della strategia militare, considerando sia il comportamento economico che quello militare alla stregua di un “gioco”. La comune base metodologica delle due forme di comportamento ha reso possibile che la guerra tornasse a fare “irruzione”, a pieno titolo, nell’oggetto della teoria economica, divenendo così anche scienza che studia la “deterrenza”, quale fattore che può evitare lo scoppio di guerre devastanti.
Con la teoria dei giochi è stato possibile dimostrare, attraverso il famoso “dilemma del prigioniero”, che l’interesse di ogni singolo giocatore può essere meglio soddisfatto se conciliato con quello degli altri, evitando così che la mancata soddisfazione dell’interesse di uno di essi potesse essere causa di un possibile conflitto armato; lo scenario del “dilemma” può essere “stilizzato” nel modo seguente: due prigionieri, rei d’aver commesso un reato, sono interrogati separatamente, potendo tacere entrambi, oppure ognuno dei due può denunciare l’altro. In corrispondenza delle loro risposte possono aversi tre situazioni: se solo uno dei due prigionieri denuncia l’altro, viene mandato libero, mentre il secondo viene condannato al massimo della pena; se i due si denunciano a vicenda, sono condannati entrambi a una pena più lieve; se entrambi rifiutano di denunciarsi reciprocamente, la pena sarà minima per entrambi, o sono mandati assolti. Anche se i “prigionieri” hanno entrambi interesse a non denunciarsi (la terza opzione), è probabile che, se non possono cooperare, la paura di essere puniti col massimo della pena, qualora l’altro scelga una risposta diversa, li conduca a denunciarsi reciprocamente.
Ciò che di positivo sta alla base della soluzione ottimale del “dilemma” è la dimostrazione della superiorità della cooperazione rispetto alla non-cooperazione; se ciascun prigioniero ragionasse in funzione del proprio interesse, si allontanerebbe dalla soluzione ottimale che è possibile conseguire razionalmente solo se si i prigionieri sono cooperativi. John Nash, formalizzando la logica del comportamento cooperativo, ha dimostrato che le implicazioni del “dilemma” rivestono una particolare importanza nella soluzione dei problemi connessi allo svolgimento dell’attività politica in tutti quei campi di attività relativi, ad esempio, alle relazioni politico-militari tra Paesi, quando siano impegnati nella soluzione di un loro “conflitto di interessi; campo di attività, quest’ultimo, che si è espanso soprattutto durante il periodo della Guerra fredda.
Nel mondo contemporaneo tuttavia, le condizioni richieste per il ricorso alla teoria dei giochi per la rimozione del pericolo di una guerra non sempre sussistono, a causa della mancata individuazione dei “giocatori” coinvolti; è questa la situazione in cui, mancando l’organizzazione di uno Stato, come nel caso dell’Isis, non è possibile ricorrere ad opzioni comportamentali appropriate per prevenire il pericolo di conflitti armati. Ciò dimostra che la guerra è ancora fonte di preoccupazione per l’umanità e, sin tanto che non sarà compresa la sua intrinseca inutilità, nessuna scienza potrà mai costruire apparati formali capaci di fornire l’illusione che il loro impiego possa assicurare la possibilità di evitare definitivamente i conflitti armati, indipendentemente dal fatto che essi siano considerati giusti o ingiusti.

di Gianfranco Sabattini

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