Gherardo Marone, “Il Saggiatore” imbavagliato (L'Indro)

di Annamaria Barbato Ricci, del 23 Luglio 2013

Da L’Indro del 22 luglio 2013

“Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”: di diritto o di rovescio, il Padre Dante ha disseminato la sua Commedia di versi ancora più eterni degli altri. 
L’incipit ne riporta uno, usato, a torto o a ragione, ogniqualvolta il dibattito s’incentra sul concetto di libertà. Una parola iguana, si potrebbe dire, perché si mimetizza con l’ambiente in cui è pronunciata, anche quello meno libero. La politica italiana docet.
E, nel caso di specie, anche di politica italiana, oltre che di saggistica e cultura, stiamo parlando: il Grande Esule medievale di quella dei tempi suoi; noi di un libro che fa luce sull’apparente meteora di una rivista di politica e cultura, “Il Saggiatore”, creata da un intellettuale “libero per davvero”, fine e fecondo, Gherardo Marone, in quel di Napoli e durata l’espace d’un matin, sei mesi appena, a cavallo fra il 1924 ed il 1925.
L’occhiuta censura fascista la soffocò per sempre… ma il messaggio “libero” si può far tacere per un lasso più o meno lungo di tempo; continuerà comunque a fluire come un fiume carsico, irrorando le radici di quella che poi è diventata la nostra democrazia.
Il libro è “Una battaglia per la libertà – “Il Saggiatore” di Gherardo Marone (Napoli 1924 – 1925)” (Rubbettino) e, riguardo al suo Autore, Sergio Zoppi, meridionalista insigne, saggista, economista, uomo integerrimo e retto, non sarei la più obiettiva della recensore, perché lo considero una specie di padre spirituale, che ammiro ed ho sempre reputato un gigantesco modello, rispetto alla tribù dei pigmei nei quali, da trent’anni a questa parte, mi sono imbattuta nella giungla istituzionale che ho avuto modo di “esplorare”.
Ritengo, infatti, che Sergio Zoppi si sia occupato della storia paradigmatica di questa rivista, ricca di lieviti intellettuali, non solo per la curiosità dello storico e dello studioso che identifica un’inesplorata miniera di diamanti (dello spirito), ma anche per un’affinità intellettuale che abbia percepito con il personaggio fulcro della vicenda, quel Gherardo Marone imbevuto di stimoli intellettuali e di amore per la libertà nei tempi bui della dittatura fascista.
“Il Saggiatore”, così come il trattato di Galileo Galilei da cui prende il nome; o come la omonima rivista romana sua predecessora, uscita quando ancora la città era Capitale dello Stato Pontificio, a partire dal 1844 e fino al 1846, che intrecciava scienza ed erudizione, in una concezione romantica non rispecchiante certo le linee d’ispirazione della cultura papalina imperante.
Insomma, un nome di per sé evocativo di libertà di pensiero; di rifiuto dei dogmi precostituiti.
Il fondatore de’ “Il Saggiatore” baricentro del saggio di Zoppi, Gherardo Marone è davvero un personaggio da scoprire e da amare. Innanzitutto, per la sua formazione (e vocazione) cosmopolita. In lui si fondono due anime, quella italiana – anzi, salernitana; la sua famiglia aveva origini in Monte San Giacomo, cittadina del Vallo di Diano, ultima propaggine verso la Lucania di una provincia che si distende per oltre 150 km – e quella argentina, Nazione in cui suo padre, Benedetto, visse per alcuni anni e trovò moglie; successivamente Gherardo vi si trasferì per sfuggire all’asfissia fascista.
Questa miscellanea genetica lo rende culturalmente prismatico e dunque, altresì, in grado di attrarre magneticamente, sin da giovanissimo, altri “cervelli”, in una miscela di intelligenze che diedero vita, appena prima e poco dopo la Prima Guerra Mondiale, a due riviste dense di sollecitazioni culturali e politiche: la “Diana”, prima; “Il Saggiatore”, poi.
Di quest’ultimo se n’era quasi persa la memoria, conservata forse solo in ristretti circoli culturali e familiari. Qualcosa ne sa, fra le generazioni “anziane”, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, visto che suo padre Giovanni, avvocato ed autore di saggi e poesie, collaborò con la rivista – ed è questa una delle chicche che emerge dal libro di Zoppi -.
Colpisce che entrambi, Giovanni Napolitano e Gherardo Marone, dopo la traumatica chiusura de’ “Il Saggiatore”, scelgano il medesimo atteggiamento di “ritiro” dalla vita pubblica, conseguentemente a una dittatura che voleva cieca e abulica sottomissione, anche dai più grandi intellettuali e liberi professionisti.
Un personaggio, nella vicenda de’ “Il Saggiatore” e nella vita del suo creatore (e della famiglia Marone) emerge gigantesco: è Giovanni Amendola, giornalista, docente universitario, eletto nel collegio di Salerno nelle liste di Democrazia liberale, prima, e dell’Unione Nazionale, poi, bete noire del fascismo al pari di Giacomo Matteotti e promotore, con Benedetto Croce, del famoso Manifesto degli intellettuali antifascisti.
Intorno a lui si coagulò il sostegno politico ed intellettuale di Marone e dei grandi collaboratori della rivista: Vincenzo Arangio Ruiz, Mario Grieco, Mario Vinciguerra sono i primi che mi vengono in mente del gruppo di giovani studiosi meridionali letterati, storici, giuristi, economisti che riempirono di talento i sei numeri appena de’ Il Saggiatore. E, da Torino, Piero Gobetti, giovanissimo, diede il suo apporto.
Una vicenda esemplare, quella della rivista “maroniana” che si spegne, mentre, proprio nel 1925, il 20 luglio (il giorno in cui sto scrivendo questa recensione: Requiescat in pacem) viene fatto tacere anche Giovanni Amendola, vittima di una “spedizione punitiva” di una turpe torma di squadristi, avvenuta a Ponte a Nievole, nel Pistoiese; ne riporterà ferite incurabili che lo condurranno, dopo una lunga agonia, a morire a Cannes, nell’aprile 1926. Nel commemorarlo, l’allora Presidente della Camera dei Deputati, Antonio Casertano, ebbe a dire che era morto “per un male incurabile”.
Ricordo, inoltre, che a Giovanni Amendola è dedicato l’INPGI, l’Istituto di Previdenza dei Giornalisti.
Il libro di Zoppi è l’occasione per far riemergere nella memoria collettiva queste grandi figure che avrebbero voluto risparmiare agli italiani il tunnel della dittatura fascista. Ma sappiamo che siamo afflitti da una sindrome pavloviana nel farci male da soli. Oggi, come allora.

Di Annamaria Barbato Ricci

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