Il regresso dell’Italia? Colpa dello statalismo (Il Giornale)

di Carlo Lottieri, del 19 Marzo 2013

Da Il Giornale del 19 marzo 2013

Viviamo tempi amari. Se ci si trova in questa situazione è chiaro che esistono precise responsabilità. Negli scorsi anni pochi hanno avuto il coraggio di denunciare gli errori commessi. Certamente l’ha fatto Sergio Ricossa, che- anche nei suoi magnifici corsivi pubblicati su questo giornale – ha sempre criticato i fautori dell’interventismo. Se l’Italia muore di tasse e spesa pubblica, è anche perché nessuno gli ha dato retta. Grazie alle edizioni Rubbettino e a Lorenzo Infantino, autore di una lucida prefazione, torna ora in libreria Come si manda in rovina un Paese, un testo pubblicato circa vent’anni fa e in cui Ricossa ha tracciato, nella forma di un diario, una storia un po’ rapso dica della vita pubblica italiana tra il 1944 e il 1994.
Nato econometrista e poi convertitosi alla lezione di Hayek, il professore torinese è sempre stato un uomo libero: e ciò emerge anche dal modo in cui qui egli svela l’intreccio tra grande impresa e ceto politico, affari privati e spesa pubblica. Prima ci viene raccontata la vecchia Italia rurale uscita dalla catastrofe della guerra e alle prese con un’ eroica ricostruzione, grazie anche al contributo – si pensi a Luigi Einaudi- di chi seppe evitare populismo e demagogia. Poi il testo descrive la società che cresce e si modernizza, nonostante difficoltà divario genere. La stagione diEinaudi, però, non durerà a lungo. Subito la scena è occupata dai Dossetti e dai La Pira, e poi dagli eredi del togliattismo più spregiudicato e da una borghesia senza principi, consapevole delle opportunità che può offrire il solidarismo di Stato e la programmazione pubblica. E se l’autore non è tenero con i sindacati e con le loro responsabilità, forse è ancora più spietato con l’affarismo della Confindustria e dei maggiori gruppi industriali. La storia che il libro mette in scena non è comunque una galleria di eroi e farabutti, geni e ciarlatani. Al di là delle pennellate che riserva a questa o quella figura – da Fanfani a Mattioli, da Berlinguer ad Agnelli, a Berlusconi – il diario illustra una società corrotta in tanti, troppi suoi ambienti. Se oggi il Paese è in rovina è in primo luogo per il cinismo diffuso: per questi italiani refrattari a riflettere e che, nella migliore delle ipotesi, pensano solo a lavorare. Non a caso Ricossa non manca di citare Panfilo Gentile quando questi gli rivela: «tutti i lombardi sono cretini, insonni attivisti e null’altro». Un’aperta denuncia del comportamento di chi non sa comprendere il mondo in cui vive. Il disgregarsi della società italiana è allora da addebitare alla classe dirigente, ma anche a chi non ha saputo opporsi a tendenze che andavano fronteggiate. Quando il racconto si sofferma sulla marcia del 1986 contro la fiscalità oppressiva che lo vide alla testa del corteo (forse l’unico momento in cui egli fu una personalità pubblica di primo piano), risulta chiaro come quella sia stata una fiammata senza seguito. Perché in Italia il potere può dilatarsi senza difficoltà, occupando ogni spazio. Riletto oggi, il diario ricossiano illustra come muore una società dominata da furbi e parassiti. L’unica vera domanda, a ben guardare, è come mai la disfatta non abbia avuto luogo già molti anni fa.

Di Carlo Lottieri

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