L’addio a Boudon sulla stampa italiana

del 12 Aprile 2013

Corriere della Sera
Addio a Boudon, avversario dei maitre-à-penser
di Dario Fertilio

Se i bantù fanno la danza della pioggia avranno le loro buone ragioni, pensava Raymond Boudon. E se questo sberleffo all’illuminismo progressista lo sommiamo agli innumerevoli altri – i bersagli erano i mostri sacri della cultura francese, da Bourdieu a Foucault, da Lacan a Lévy-Strauss fino a Derrida – possiamo capire quanto la sua scomparsa lasci un vuoto nella sociologia, improvvisamente priva di un bastian contrario di riferimento.
Perché Raymond Boudon, morto a Parigi a 79 anni, era un liberale senza compromessi, animale raro nell’ambito della sua disciplina; e in più un teorico dell’individualismo metodologico, secondo il quale tutti i fenomeni devono essere spiegati mettendo al centro dello studio la persona umana. Esattamente il contrario dello strutturalismo dominante nel secolo scorso, che cercava di collegare ogni cosa attraverso costanti economiche, psicanalitiche, comportamentali, naturalmente preparando così il terreno alla politica «costruttivista», secondo la quale basta cambiare le leggi per rovesciare il mondo e «rifare» l’umanità. Isolato dalla sociologia dominante perché liberale, e per di più cattolico, Boudon aveva una predilezione particolare per tutto quanto mandava in bestia la sociologia critica francofortese, di derivazione marxista: basti pensare alla sua teoria degli effetti perversi, secondo la quale la politica massimalista finisce per conseguire risultati opposti a quelli voluti (i riferimenti a certe iniziative dell’Onu, o alla stessa riforma universitaria francese non erano casuali). Riformista e gradualista, nemico delle ideologie collettivistiche che ogni tanto tornano a diffondersi tra chi non ha memoria del passato, Boudon aveva messo a frutto l’insegnamento di Raymond Aron: non l’homo economicus che agisce in base agli interessi, ma quello sociologicus, che con le sue credenze, sentimenti e valori interpreta l’umanità. Alla fine, nonostante tante provocazioni, i riconoscimenti per lui erano arrivati: accademico di Francia, insegnante nelle università americane, inglesi, tedesche e in Italia alla Luiss. Discepolo di Boudon e poi suo interprete privilegiato in Italia, Enzo Di Nuoscio ne ha fatto conoscere l’opera curando per l’editrice Rubbettino Tocqueville oggi e in particolare l’ultimo saggio, provocatorio fin dal titolo: Perché gli intellettuali non amano il liberalismo. Dove la risposta dell’autore è tagliente e amara: se i principi del liberalismo non piacciono ai sociologi e ai filosofi, è perché non promettono la verità. Un pane troppo duro da masticare per gli intellettuali desiderosi di potere sociale, convinti in cuor loro d’essere tuffi quanti potenziali, e incompresi, maitre-à-penser.

Avvenire
Addio a Boudon, paladino della libertà individuale
di Dario Antiseri

Tre giorni fa si è spento a Parigi all’età di 79 anni Raymond Boudon, uno dei più grandi scienziati sociali dei nostri tempi. Professore alla Sorbona, ha insegnato in numerose università: negli Stati Uniti, in Canada e nell’America Latina come anche in Svezia, Svizzera, Germania e Italia. Già presidente del Centro di studi sociologici del Cnrs, membro dell’Accademia americana di arti e scienze, nel 1991 è stato insignito dell’onorificenza di membro dell’Accademia di Francia.
I lavori scientifici di Boudon si caratterizzano sia per profondità intellettuale che per coraggio morale. Difatti, in un ambiente culturale dominato prima dal neomarxismo e successivamente dallo strutturalismo, Boudon ha difeso con insistente coerenza l’individualismo metodologico: una posizione, questa, che mentre, da una parte, possiede grande forza nella spiegazione dei fenomeni sociali, dall’altra è a base di una solida concezione liberale della società. Nella grande tradizione di pensatori come Adam Smith, Tocqueville, Bastiat, Weber, Popper e i rappresentanti della Scuola austriaca di economia, Boudon è contro la reificazione dei concetti collettivi (partito, società, classe, stato, nazione, pubblica amministrazione ecc.), nel senso che ad essi non corrisponde una sostanziale realtà autonoma e indipendente dagli individui che pensano, ragionano, agiscono e interagiscono. L’oggetto specifico delle scienze sociali sono uomini reali che agiscono in base alle loro idee e le cui interazioni producono effetti intenzionali ed effetti inintenzionali.
Fu Weber a sostenere che lo spirito del capitalismo nacque come conseguenza inintenzionale dell’etica protestante e Boudon, da parte sua, ha proseguito sulla stessa strada di Weber con illuminanti esemplificazioni sviluppate nel volume Effetti perversi dell’azione sociale. Un solo esempio: supponiamo, afferma Boudon, che tutti i clienti di una banca abbiano buone ragioni per dubitare della sua solvibilità; ciascuno di essi sarà allora indotto a ritirare i suoi depositi, e poiché le riserve di una banca sono sempre minori della somma dei depositi, ne risulterà un effetto indesiderabile – il fallimento della banca.
Questo tipo di comportamento, prosegue Boudon, è stato osservato soprattutto durante la grande crisi de11929 e da esso Robert Merton dedusse la sua nozione di «profezia autorealizzantesi». Sin qui Boudon; ma per essere ancora più chiari, ecco un esempio tratto dalla vita quotidiana: qualcuno si dirige verso Piazza del Popolo, nel cuore di Roma, per incontrare degli amici; altri passano di li volendo andare a Piazza San Pietro; altri ancora puntano verso Piazza del Popolo per passare una serata al ristorante o per fare due passi in Via del Corso. Nessuno di questi cittadini intende arrivare in ritardo, eppure tutti arriveranno in ritardo perché, pur non volendolo, intaseranno la Via del Muro Torto. Come dice la sapienza del proverbio: di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno; ed è saggio anche l’altro proverbio dove si afferma che: non ogni male vien per nuocere – cosa, questa, dimostrata da un autore apprezzato da Boudon quale Bernard Mandeville con la sua “scandalosa” Favola delle api dove si argomenta per l’idea che è possibile che i vizi privati producano pubblici benefici. Ebbene, una simile concezione, che vede attori della storia uomini concreti non onniscienti né onnipotenti, ha posto Boudon nel più netto contrasto con la prospettiva marxista di una storia umana dominata da una legge dialettica ineluttabile e negatrice di qualsiasi libertà, come anche con le idee della scuola di Francoforte.
Ma è soprattutto contro strutturalisti come Lévi-Strauss e Foucault che Boudon ha puntato strali più incisivi. La convinzione di fondo di Boudon è che «le strutture non sono niente senza gli individui» e «gli individui non sono marionette in balia di forze deterministiche della storia odi strutture che dissolverebbero autonomia, creatività e libertà degli individui». Da qui la difesa, da parte di Boudon, delle ragioni della libertà. A tal proposito significativo, tra altri suoi lavori, è il volume Perché gli intellettuali non amano il liberalismo edito da Rubbettino

Libero
Il liberale che sfidava i governi tecnici
Di Simone Paliaga

«Diversi governi si mostrano sensibili alle esigenza e ai consigli dei gruppi di influenza e di connivenza che finiscono con l’imporre in numerosi casi agli uomini delle visioni che di par loro non condividono. È vero che alcune questioni scavalcano la competenza degli uomini ma altre non richiedono di possedere delle conoscenze particolari, per cui se si consulta il pubblico su di esse in numerosi tenderanno a dare una risposta richiamandosi al buon senso».
Così ammoniva, nel corso di una seduta dell’Académie des sciences morales et politiques e in anticipo sui tempi, non un populista dell’ultima ora ma un liberale tutto d’un pezzo: Raymond Boudon. Allora, ne12010, i governi tecnici non c’erano ancora, oggi che accampano pretese di guida sulla politica non c’è più un Raymond Boudon per metterci in guardia sulla loro pericolosità. Mercoledì scorso, anche se la notizia è di ieri, si è spento all’età di 79 anni uno dei padri della sociologia francese contemporanea e il fondatore dell’individualismo metodologico continentale. Nato a Parigi ne11934, dopo i primi studi alla Sorbona e prima di laurearsi con Raymond Aron Boudon preferisce trasferirsi negli Stati Uniti per portare aria nuova nelle scienze umane parigine. Dominate allora dall’ombra di Marx e Freud, le ipotesi sull’individualismo metodologico creano subito scompiglio. Perorare la causa dell’individuo, pensarlo come la sola realtà esistente contrapposta alle collettività equivaleva a mettersi in contrasto con le correnti egemoni dopo il Sessantotto ma a Boudon il coraggio non mancava. Eppure il suo era un individuo particolare, contrario alla tecnocrazia contro tutti i proto-Mario monti del mondo. Per il sociologo francese l’uomo andava sempre considerato nella situazione in cui si trovava prendendo in considerazione il suo legittimo corredo di valori e credenze. Questa convinzione lo porta piano piano a lasciarsi alle spalle la rigidità americana dell’individuo puro e semplice e del self made man per avvicinarsi a quello che ha sempre riconosciuto come il suo vero maestro, il liberai-conservatore Alexis de Tocqueville la grande icona della liberaldemocrazia moderna. come si vede in particolare nei suoi lavori più divulgativi come Tocqueville oggi, Elogio del senso comune e Perché gli intellettuali non amano il liberalismo pubblicati in Italia da Rubbettino. A lui e a Montesquieu, oltre che ad Aron, Boudon deve la sua formazione liberale.
Questo lo porterà a difendere a spada tratta la democrazia rappresentativa, fino a mettere sotto torchio, durante la campagna elettorale del 2007, gli slogan propagandistici della ex candidata socialista alla presidenza francese Ségolène Royal e a strizzare l’occhio verso il pragmatismo di Nicolas Sarkozy. Ai classici francesi deve la convinzione che senza la divisione dei poteri nessuna democrazia è possibile. Quando, dopo gli anni Settanta, questo caposaldo della democrazia salta e corporativismi sindacali, lobby di interesse economico, gilde intellettuali pretendono di influenzare la direzione politica della cosa pubblica il pericolo è sottile. Il richiamo constante agli esperti e ai tecnici esautora i cittadini e indebolisce il gioco della democrazia rendendola «soggetta alla tirannia delle minoranze e dei gruppi di influenza. Quando l’opinione è ostile alle loro idee, ogni cittadino ha la tendenza ad aspettare che altri vi si oppongano. Consideriamo per esempio le riforme scolastiche: molti genitori erano convinti della loro pericolosità, ma l’opinione pubblica alla fine si è dimostrate impotente di fronte alle lobby di esperti di didattica. E così vale per altre questioni, come per esempio il dibattito sul velo integrale, intorno al quale si cercar opinione di numerosi teologi: senzai tecnici del momento, il buon senso dice che non possiamo nascondere il viso per strada o in ospedale o a scuola per ragioni di sicurezza, certo, ma anche per le semplici norme richieste dallavita sociale». Non saranno i tecnici, gli esperti a salvare i nostri sistemi democratici. «La base del liberalismo è la fiducia nell’uomo: il buon senso è una delle sue caratteristiche. È capace di vedere se una istituzione favorisce o meno la dignità o i bisogni dell’uomo. E lo stesso vale per l’opinione pubblica».

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