Kissinger, in principio era la stabilità (La Stampa)

del 14 Dicembre 2012

RdP_PiattoDa La Stampa – 13 dicembre 2012

Da ragazzo Henry Kissinger, futuro segretario di Stato americano, fu maltrattato in Germania perché ebreo. Emigrato con la famiglia negli Stati Uniti, mantenne sempre l’accento tedesco, perduto subito dal fratello, perché – timidissimo – parlava poco a scuola.

Reclutato nell’esercito mentre lavora in una fabbrica di spazzole, provando a seguire qualche corso universitario minore, sembra destinato a un’oscura carriera da marmittone quando la sua intelligenza e padronanza delle lingue attrae l’attenzione dello Psychological Warfare Branch, i servizi americani. Tornato in Germania da vincitore, prima soldato semplice poi sergente, Kissinger si trova ad amministrare da solo città liberate e a dà la caccia agli uomini della Gestapo in clandestinità. Il suo biografo Walter Isaacson racconta il trucco del giovane Kissinger per smascherarli. Quando il sospettato entra nella sua stanza, il sergente Kissinger lo rassicura bonario, aggiustandosi le lenti sul naso, «Stia tranquillo, sappiamo che lei è un pesce piccolo, di nessuna importanza, i veri capi della Gestapo ci confermano che non aveva responsabilità reali quindi…», e qui gli alti gradi della polizia politica nazista saltavano su inviperiti vantandosi sdegnati della propria importanza e cadendo in trappola.  

 Tornato negli Stati Uniti, Kissinger va a studiare a Harvard, ateneo n. 1, con una borsa di studio del GI-bill che garantisce la laurea ai veterani. E lì tesse rapporti con i politici e crea il seminario per studenti stranieri che vedrà tra i banchi gli scrittori Arbasino e La Capria. Nasce il Kissinger che, con il presidente Nixon, apre alla Cina nel 1972, chiudendo la Guerra fredda e aprendo il mondo globale del XXI secolo. Isaacson fa risalire l’importanza diplomatica, politica e strategica, che Henry Kissinger attribuisce alla stabilità internazionale e ai rapporti di forza imperiali tra grandi potenze, al senso di insicurezza che il bambino Henry, già Heinz, prova nel vedersi sradicato dal suo Paese, costretto in una metropoli di cui non capisce usi e costumi, mentre, da giovanotto, impara sul campo le devastazioni sociali e le umiliazioni personali innescate dalla rottura dell’equilibrio. È sempre rischioso far derivare dalla psicologia le scelte dei leader, ma nel caso di Kissinger l’idea è provata dalle 400 pagine della tesi di laurea di dottorato che, dopo molte elucubrazioni, scrive per Harvard: The Meaning of History: Reflections on Spengler, Toynbee and Kant, «Il significato della Storia: riflessioni su Spengler, Toynbee e Kant», ora stralciata e discussa in un numero della trimestrale Rivista di Politica diretta da Alessandro Campi. Il ventisettenne Kissinger riflette sulle tesi di Spengler e Toynbee a proposito di declino della civiltà occidentale, idea filosofica che ha visto incarnata nelle macerie dell’orgogliosa Europa illuminista, industriale e giudeo-cristiana. Esamina il più cupo Spengler e il più «politico» Toynbee, che prova già a indicare la coesistenza di una multipolarità di imperi, dopo che l’egemonia britannica seguita alla sconfitta di Napoleone lascia campo a una, più effimera, Pax Americana. A Kant, filosofo della ragione e dell’etica, Kissinger, disperatamente, chiede equilibrio, sperando di provare che non solo la nuda forza governi il mondo, ma che la libertà possa essere, se non un mezzo, almeno un fine. Quando i giovani filosofi neoconservatori della scuola di Leo Strauss – accorsi intorno alla Casa Bianca, prima con il vicepresidente di Bush padre, Dan Quayle, poi con il presidente Bush figlio – proclameranno la libertà «come mezzo» di governo del mondo, il realista Kissinger li avverserà dall’Aventino. Non si interrompe mai la «stabilità» in un’avventura come l’invasione dell’Iraq, se non si ha la «forza imperiale» di riempire il vuoto provocato. E nel XXI secolo, come il giovane Kissinger prevedeva e il vecchio Kissinger conferma amaro, quella forza l’aquila americana più non ha, né avrà. È questa la differenza filosofica che fa riscoprire agli studiosi della Rivista di Politica il giovane Kissinger: al contrario della stragrande maggioranza dei pensatori americani, «l’europeo» Kissinger non crede al destino «speciale» per l’America, rifiuta di vedere nella Costituzione un manifesto per l’umanità. Gli Stati Uniti sono «solo» una delle tante potenze imperiali che la Storia ha visto imporsi e declinare, e una saggia diplomazia può solo rallentare il declino, non diffondere i propri valori nel mondo. Definita dalla rivistaForeign Affairs nel 1979 «molto citata e poco letta», la tesi di Kissinger è perciò criticata da Peter Dickson nel saggio Kissinger and the meaning of History: anche il XXI secolo deve essere «americano». 

Il lettore può sovrapporre al fascicolo di Rivista di Politica il rapporto Global Trends 2030, che il National Intelligence Council, erede di quei servizi per cui lavorava il sergente Kissinger, ha appena pubblicato (https://goo.gl/NwfOh): il XXI secolo vedrà il predominio di Cina e Asia, strategico ed economico, ma gli Stati Uniti, nel declino imperiale europeo, possono rimanere primi tra pari se lavoreranno all’innovazione e alla difesa, con un sistema di valori e alleanze. Kissinger non lo criticherà mai apertamente, ma dalla sua tesi, all’opus Diplomacy, al recente suo saggio sulla Cina, come la pensa è chiaro: meglio un equilibrio, stabile, con Pechino e aree di influenza ben definite da solidi confini. Niente crociate, niente fedi se non nell’esame della realtà, come insegnava, prima di tutti, il fiorentino Machiavelli.
di Gianni Riotta 

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