«L’anima della Calabria l’ha sporcata lo Stato prima ancora della mafia» (Il Giornale)

di Eleonora Barbieri, del 16 Luglio 2015

Da Il Giornale del 16 luglio

Il film ha vinto nove David di Donatello, tre Nastri d’argento, è tornato nelle sale per il grande successo di pubblico e, oggi, è in lizza per il premio Amidei a Gorizia, riconoscimento internazionale per la migliore sceneggiatura. Ma dietro Anime nere, girato nel 2014 da Francesco Munzi, ci sono l’anima, il libro e la sceneggiatura (scritta a quattro mani) di Gioacchino Criaco, cinquant’anni, calabrese di Africo, ai piedi dell’Aspromonte, la terra protagonista del film. «Che non è un film di mafia, o di criminalità, come non lo è il mio libro: è una tragedia. La storia di un’amicizia estrema fra tre ragazzi» dice Criaco, che oltre ad Anime nere ha scritto altri libri sull’intreccio fra illegalità e mondo dell’Aspromonte come Zefira e American taste (tutti pubblicati da Rubbettino).
La criminalità non conta?
«C’è, ma conta fino a un certo punto. Io volevo raccontare cose che partono dalla Calabria ma arrivano a tutto il resto d’Italia. E volevo farlo da calabrese nato in Aspromonte: così ho fatto parlare la voce dei protagonisti. Poi la mia visione calabrese ha incontrato quella romana di Munzi».
Quanto ha impiegato a girare il film?
«Quasi quattro anni. Ha girato ad Africo e in una serie di altri posti della Locride dove nessuno l’aveva mai fatto».
Com’è crescere ad Africo?
«Estremamente difficile. Però oggi ne sono grato, perché veramente si comprende meglio il mondo. Dopo l’ alluvione, Africo fu spostato di 70 chilometri, dalla montagna dove gli abitanti avevano vissuto per millenni. Sono stati trasformati in una popolazione marinara e concentrati in un chilometro quadrato: un campo profughi».
È lì che è nato e ha vissuto?
«Siamo tutti nati in case popolari, tutti destinati a prendere una valigia e a emigrare. Lo Stato ci ha fatto questo, togliendoci terra e opportunità. Ed è lì, in questo spazio, che nasce una devianza».
È colpa dello Stato?
«Più che dello Stato, di chi lo rappresenta in quel territorio. Le faccio un esempio. Moltissimi sono stati trasferiti in baracche di legno rivestite di amianto: ad Africo ci sono le vie della morte, e non per i morti della criminalità, per i morti da tumori da amianto. Questa è l’illegalità».
Quindi la cosiddetta «contiguità», una brutta parola…
«Bruttissima. Gli aspromontani non sono geneticamente tarati al male. È una conseguenza sociale. Sarebbe successo lo stesso a Stoccolma. E Munzi ha dimostrato che si poteva lavorare in quei posti e, dietro il film e il suo successo, c’è anche la mano di centinaia di calabresi».
Ha detto: «Volevo raccontare il male come è». Che significa?
«Capire le ragioni del male, non perché abbia ragione, ma perché ha una causa scatenante. Così ho raccontato la storia di questi ragazzi, che diventano dei cattivi: perché, dopo anni passati a gridare aiuto senza che la cavalleria arrivi, poi ti accorgi che, quando finalmente arriva, aiuta i cattivi».
Chi sono i cattivi?
«In quegli anni fra i Settanta e gli Ottanta tutto era al servizio di un potere locale, al di sopra anche dell’ antistato. Un potere oppressivo e dominante sulle classi povere, che ha sempre avuto interesse a rappresentare una realtà utile a sé, una realtà fatta di criminalità. Non si parla di male e bene, ma di male e male».
È così negativo?
«Dico dipiù: nulla è come sembra ».
Non è un discorso assolutorio?
«No. Noi sappiamo benissimo chi siano i buoni e i cattivi. E nel film la fine è una punizione, perché chi compie un’azione sbagliata ne è responsabile».
Perché parla sempre di paradiso e inferno, in riferimento all’Aspromonte?
«Non è fiction. L’Aspromonte è la metafora della Calabria. Già nel nome, che non significa monte aspro bensì, dal greco, Monte lucente, per la sua cima bianca che era sempre innevata. E non è arido, bensì ricco di acqua e risorse, tanto che per millenni ha sfamato i suoi abitanti. Purtroppo, come molte altre risorse della mia terra, rimangono nascoste».
Come si riscoprono?
«Devi inventarti, come ho fatto io che ora vivo raccontando le storie di calabresi».
È vero che ha scritto Anime nere in quattro giorni?
«Sì. È una storia viscerale, di tre ragazzi delle rughe, della loro amicizia che sfida tutto e tutti».
Che cosa sono le rughe?
«La Calabria in cui sono nato io, quella dei figli dei poveracci che devono riverire i potenti o chiedere loro favori, oppure lasciare la propria terra. Io me ne sono andato. Sono i ragazzi destinati a una brutta fine, o a fare lavori da poveracci. Ecco, io scrivo per i ragazzi delle rughe, per dire che è tutto un inganno».
Che cosa è un inganno?
«Fare credere che non abbiamo una chance in casa nostra. L’intellighenzia paesana ha interesse a farci finire in galera. Invece il film è la prova del contrario. Con Munzi ne stiamo scrivendo la storia, uscirà in autunno sempre per Rubbettino e si intitolerà Anime nere: dal libro al film».
Che cosa racconterete?
«La favola di questo film, come Munzi sia entrato in un territorio ritenuto impossibile e come le riprese siano state vissute coralmente: è stato un fenomeno sociale, un grande sogno per gli aspromontani».
Perché nelle sue storie cita sempre Senofonte?
«L’Anabasi è il testo base per comprendere i calabresi. I meccanismi mentali dei generali, le loro complicazioni di ragionamento… solo noi possiamo capirle. E quella guerra, quel viaggio di ritomo sono la diaspora dei calabresi, che vanno via dalla loro terra a combattere una battaglia non loro».

Di Eleonora Barbieri

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