Röpke, ovvero: «Il mercato rende miseri, la legge dell’utile degrada» (Avvenire)

di Luca Miele, del 22 Maggio 2015

Da Avverine del 22 maggio

Il mercato è un meccanismo autoregolantesi, come pretende buona parte del pensiero economico liberale? La legge della domanda e dell’offerta è, da sola, in grado di consentire, alla società che su di essa si edifica, di funzionare in maniera armoniosa? È davvero la “mano invisibile” quel codice segreto in grado di conciliare, in nome dell’interesse reciproco, il comportamento di tutti gli attori sociali? O al contrario, questa visione nasconde una sottaciuta dose di ingenuità, velata da altrettanto persistenti venature ideologiche? Trai pensatori liberali che più e meglio hanno pensato l’economia di mercato e colto i suoi limiti, va annoverato l’economista e sociologo tedesco, Wilhelm Röpke, considerato uno dei padri fondatori dell’economia sociale di mercato, la cui visione (come sottolinea Flavio Felice nell’introduzione al testo più importante di Röpke, riproposto da Rubbettino) restò ancorata «alla prospettiva antropologica cristiana».
Aldilà dell’offerta e della domanda, scrive Felice, è ormai «un classico dell’economia sociale di mercato: in essa Röpke descrive e analizza il senso della propria nozione di liberalismo e di personalismo economico, indicando i presupposti e i limiti dell’economia di mercato, e criticando anche gli abusi e i rischi racchiusi nella moderna società di massa e dello Stato assistenziale». Ma qual è il “cuore” della proposta dell’economista tedesco? La sua è una visione demistificante. Contro prospettive “deificanti” del mercato, Röpke sottolinea come «la società, concepita nella sua interezza, non può fondarsi esclusivamente sulla legge dell’offerta e della domanda, poiché lo Stato è qualcosa di più di una semplice società per azioni». Le forze economiche non esautorano né plasmano l’intero campo sociale. Lo attraversano, spesso lo tagliano in due, ma non lo strutturano.
«L’economia di mercato – scrive con lucidità l’economista- non è tutto; essa deve essere sorretta da un ordinamento generale, che non solo corregga con le leggi le imperfezioni e le asprezze della libertà economica, ma assicuri all’uomo un’esistenza consona alla sua natura. E l’uomo non può realizzare compiutamente se stesso se non quando si inserisce volontariamente in una comunità alla quale si senta solidarmente legato. Se così non è, egli è condannato a un’esistenza miserabile. E lo sa».
Dentro questa cornice, Röpke muove un attacco frontale allo spirito “animale”, acquisitivo, al «culto dell’utile», come lo definisce l’economista. Ebbene, il desiderio sfrenato di possesso è «sommamente pericoloso, poiché non farà che accrescere “il malessere della cultura” (Freud) e imporre a coloro che lo praticano una sfibrante gara fisica e spirituale per competere con lo stile di vita e con i guadagni altrui senza per altro lasciarli mai giungere alla meta». Esso non può che condurre all’ «insensato disconoscimento della vera gerarchia dei valori de la vita e a una degradazione dell’uomo».

di Luca Miele

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