La democrazia all’italiana che è ora di rottamare

del 15 Aprile 2013

da Libero del 14 aprile 2013 

Venti anni sono un tempo sufficiente per fare un bilancio storico. Il nuovo libro di Giuseppe Bedeschi, La prima Repubblica (1946-1993), edito da Rubbettino (pp. 353, euro 16,15), intraprende, a quattro lustri dalla sua fine, un viaggio nel primo cinquantennio della nostra Repubblica, definendolo già nel sottotitolo «storia di una democrazia difficile». Come l’autore spiegherà nell’ultimo capitolo, l’aggettivo «difficile» allude a tre dimensioni: quelle di democrazia bloccata, statalista e partitocratica. Il sistema politico della prima Repubblica fu bloccato perché privo di alternanza; statalista perché tutte le forze rappresentate in Parlamento impedirono un libero sviluppo dell’iniziativa privata; fu infine partitocratico, in quanto basato sul predominio dei partiti rispetto alla società civile e sul condizionamento che questa subì da quelli in termini di assistenzialismo e privilegi. Un meccanismo che poi avrebbe trasformato l’Italia nel Paese delle caste e delle corporazioni. In molti passaggi del suo saggio, Bedeschi sostiene anche che la democrazia italiana fu poco democratica o, comunque, poco liberale. A partire dal primo presidente del Consiglio, Ferruccio Parri, il concetto di democrazia nel nostro Paese non ha mai fatto rima con quello di liberalismo. Si pensi all’atteggiamento censorio di Parri, che avallava chi si rifiutava di stampare giornali in cui si criticava l’Urss. Fu però soprattutto il Partito Comunista a marcare il distacco della politica italiana da una compiuta svolta liberale. Oltre alla politica economica e alla concezione dello Stato, illiberale era l’atteggiamento stesso del leader nei confronti dei militanti e degli intellettuali. Se si rileggono le parole di Togliatti indirizzate a Magnani e Cucchi, due dissidenti che avevano osato contestare la linea del partito, non si faticherà a ritrovare accenti simili a quelli usati oggi da Grillo. Valdo Magnani veniva definito «uno spregevole strumento nelle mani delle forze reazionarie», mentre Aldo Cucchi un «traditore, uomo senza princìpi, provocatore agente del nemico». Nei confronti dell’intellighenzia il Migliore non fu più tenero. Costrinse Elio Vittorini a chiudere la sua rivista, «Il Politecnico», rea di ospitare firme estranee agli intellettuali organici al partito. Ne11956 gli scrittori e i pensatori comunisti furono meno remissivi. In 101 inviarono una lettera al Comitato Centrale del Partito per contestare la posizione tenuta dal Pci sui fatti di Ungheria. Per tutta risposta, L’Unità rifiutò di pubblicare la missiva. Il libro di Bedeschi è interessante anche perché getta luce su dinamiche politico-economiche del passato, ancora di sconcertante attualità. Nel 1963, ad esempio, l’Italia appena uscita dal miraco – lo economico si trovò ad affrontare una fase di profonda crisi: l’inflazione cresceva, i consumi diminuivano e la disoccupazione raggiungeva livelli record. Allora come oggi le misure adottate furono ispirate più al rigore che alla crescita: vennero aumentate le imposte sui consumi, istituita una sovrattassa sulla vendita delle automobili, ci fu un rincaro sul prezzo della benzina. Gli artefici della manovra erano consapevoli che questa politica economica avrebbe acuito la recessione, ma si sentivano rassicurati dall’avallo della Comunità europea. Facendo un balzo in avanti, ne11983 Craxi pose problemi di riforma costituzionale, che sono ancora all’ordine del giorno. Il segretario del Psi contestava il bicameralismo perfetto, lo squilibrio tra potere legislativo ed esecutivo, la debolezza del presidente del Consiglio, auspicando una riduzione del numero dei parlamentari. Le onde lunghe della storia, a distanza di 30 anni, hanno riportato gli stessi limiti allora denunciati da Craxi come emergenze della Seconda Repubblica. Ciò che tuttavia va salvato della prima esperienza repubblicana è la capacità dei partiti di distribuirsi le cariche, nella consapevolezza della frammentazione politica del Paese. Nel 1978, a fronte di uno scenario molto eterogeneo, la Dc aveva i presidenti del Consiglio e del Senato, il Pci il presidente della Camera, mentre il Partito Socialista riuscì a strappare la più alta carica dello Stato, con l’elezione di Pertini al Quirinale. Forse non sarebbe male ripetere quell’esperienza anche oggi, in un panorama politico per molti versi
analogo. Detto questo, considerate tutte le sue falle e le sue imperfezioni, il sistema di democrazia parlamentare all’italiana dovrebbe essere rottamato, secondo Bedeschi. Sono passati 67 anni dalla nascita della Repubblica: un’età giusta per andare in pensione.

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