Hume e il liberalismo: colloquio con Lorenzo Infantino (L'Opinione - Idee e azioni)

del 28 Aprile 2017

Lorenzo Infantino insegna da quasi trentacinque anni alla LUISS Guido Carli di Roma, dove è titolare della cattedra di Metodologia delle Scienze Sociali. I suoi principali lavori sono stati tradotti in inglese e spagnolo. Dirige presso la casa editrice Rubbettino la collana editoriale “Biblioteca Austriaca”, attraverso la quale ha promosso la diffusione delle idee di Carl Menger, Eugen von Boehm-Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich A. von Hayek, Israel H. Kirzner. Il suo più recente impegno è la pubblicazione del carteggio fra David Hume e Jean-Jacques Rousseau: un agile volume che, sempre per l’editore Rubbettino, è giunto in questi giorni in libreria e che pone eloquentemente in evidenza la personalità e il diverso orientamento teorico dei due protagonisti. A partire da tale lavoro, abbiamo rivolto al professor Infantino delle domande, che toccano anche alcuni spinosi problemi dell’attualità politico-economica.

A parte l’indubbio interesse storico, quali spunti di riflessione ci offre oggi il contrastato rapporto tra Hume e Rousseau?

Si tratta di due mondi contrapposti. Hume condivideva con Adam Smith il primato all’interno di quello “sceptical” “scientific Whiggism”, a cui dobbiamo l’individuazione dei presupposti gnoseologici della Grande Società e delle moderne scienze sociali; dobbiamo cioè una penetrante e pioneristica indagine sulla dinamica di un ordine sociale basato sulla libertà individuale di scelta e sulla complessità derivante dagli esiti inintenzionali delle azioni umane intenzionali. È un “paradigma” difficilmente eguagliabile, il cui potere esplicativo getta una potente luce sullo sviluppo storico degli ultimi secoli e sul conflitto interno che esso ha ospitato. Sullo stato di natura, sul contratto originario, sulla proprietà privata, sul denaro, i commerci, le arti, la città, il lusso e su ogni altra questione, fra Hume e Rousseau c’era una totale inconciliabilità. Il primo era un “esploratore” che intendeva estendere il più possibile il territorio della libertà individuale di scelta; l’altro intendeva esattamente cancellare quel territorio. È significativo il fatto che Voltaire, ricevendo una copia del Discours sur l’inégalité parmi les hommes, abbia risposto: “Ho ricevuto, signore, il vostro nuovo libro contro il genere umano, vi ringrazio […]. Non è stata mai spesa tanta ingegnosità per renderci simili alle bestie. Quando si legge la vostra opera, viene voglia di camminare a quattro zampe”. Ma non meno significativo è il giudizio espresso, dopo il loro ultimo incontro, da Diderot: “quest’uomo [Rousseau] mi riempie d’inquietudine; in sua presenza, provo come se un’anima dannata si trovi vicino a me. Non voglio più vederlo”. Ernst Cassirer ha giustamente scritto: “Era questa l’impressione prodotta da Rousseau sui capi dell’Illuminismo francese”.

Per usare un’espressione di Jonathan Israel, è corretto allora dire che le idee di Rousseau hanno alimentato la “purga anti-illuministica” che ha portato al Terrore? 

Sebbene lacunoso in più punti, in particolare sulle questioni di natura economica, il lavoro di Israel è molto documentato. E non c’è dubbio che Rousseau sia stato un anti-illuminista. Ha collaborato all’Encyclopédie, ma la sua opera va in tutt’altra direzione. Gli Enciclopedisti ne erano perfettamente consapevoli; quando Mme de Boufflers (“la più distinta salonnière del Settecento”) ha chiesto a Hume di dare ospitalità a Rousseau in Inghilterra, non ha nascosto la “distanza” culturale che separava i rappresentanti dell’Illuminismo francese dal ginevrino. E di tale “distanza” era consapevole lo stesso Rousseau, il quale pensava che la “cricca holbachiana” cospirasse permanentemente contro di lui. C’è un episodio che merita un’attenzione maggiore di quella che gli viene di solito dedicata. Allorché d’Alembert pubblica sull’Encyclopédie la voce “Ginevra”, lamentando la mancanza in quella città di un teatro, Rousseau scrive la lunghissima e improvvida Lettre à d’Alembert nella quale, sebbene autore di opere già rappresentate, vede nell’attività teatrale lo strumento di un’irreparabile corruzione delle donne e dei costumi. E ciò dice molto più di quello che potrebbe sembrare. Una delle prime misure adottate dai Puritani giunti al potere a Londra era stata, non a caso, la chiusura di tutti i teatri. Per impedire qualsiasi libertà civile e politica, nulla deve essere permesso. Non sorprende pertanto che l’autore di riferimento di Rousseau sia stato Platone e che il suo modello di città sia stata Sparta. La virtù che egli ha predicato coincide esattamente con la soppressione della libertà individuale di scelta, che è poi l’obiettivo di ogni forma di totalitarismo.

Hume era un sostenitore delle istituzioni parlamentari e Rousseau ne era un nemico?

Esattamente. Hume riteneva che l’Inghilterra godesse, “se non del migliore sistema di governo, perlomeno del più completo sistema di libertà mai visto e conosciuto dal genere umano”. Richiamando l’esperienza del terrore vissuta durante la Rivoluzione puritana, era dell’idea che il “governo popolare” avrebbe sradicato ogni forma di libertà, perché avrebbe mandato in pezzi la costituzione e assunto un potere illimitato e vessatorio”. Rousseau era di tutt’altro avviso. Scriveva: “il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso”; “i deputati del popolo non sono […], né possono essere i suoi rappresentanti”; “nelle antiche repubbliche, e anche nelle monarchie, mai il popolo ha avuto rappresentanti”; “la stessa parola era ignorata”. Qual è il punto? Come Hume ben sapeva e come Benjamin Constant ha più tardi ribadito, “non appena la sovranità deve fare uso del potere detenuto o, in altre parole, non appena occorre procedere all’organizzazione pratica del potere […], l’azione posta in essere nel nome di tutti è necessariamente, ci piaccia o no, l’azione di un singolo o di pochi individui, accade cioè che, nel sottomettersi a tutti […], ciascuno si sottomette a coloro che agiscono nel nome di tutti”. Ne discende che non abbiamo nulla con cui sostituire il governo rappresentativo. Se questo ha deluso o delude le nostre aspettative, la soluzione non è certamente il “governo popolare”. La causa delle nostre delusioni sta nel fatto che quello rappresentativo, che dovrebbe essere un governo limitato, si è trasformato in una democrazia illimitata. Il che è avvenuto in conseguenza dell’interventismo economico, che restringe sempre più la nostra libertà individuale di scelta e che consente alla politica di divenire l’habitat di ogni forma di avventurismo, di quel demi-mondeaffaristico-clientelare che, con triste monotonia, viene alla ribalta delle cronache.

Lei scrive anche che la “caratura teorica di Hume era indubbiamente superiore a quella degli Enciclopedisti”. Che cosa vuole intendere?

Nelle sue Lettere filosofiche, Voltaire si sofferma su Locke. Nel Discours préliminaire de l’Encyclopédie, anche d’Alembert si riferisce a Locke. Hume apparteneva alla ristretta schiera dei “darwiniani prima di Darwin”. E la sua è una pagina nuova nella storia dei Whigs. Per gli evoluzionisti, non c’è un primo uomo e non c’è un inizio della società. L’uomo è a nativitate un essere sociale. Come in tempi più vicini a noi Karl R. Popper ha spiegato, “l’uomo o, meglio, il suo antenato è stato sociale prima di essere umano (se si considera, per esempio, che il linguaggio presuppone la società)”. Espresso in termini hayekiani, si può dire che ”non è ciò a cui diamo il nome di mente che ha sviluppato la civiltà […], ma sono piuttosto la mente e la civiltà che si sono sviluppate o evolute simultaneamente”. Quel che ci ha resi umani è pertanto l’interazione. L’uomo non ha programmato la crescita della propria mente, né ha progettato la società o le istituzioni sociali. L’essere umano non preesiste alla società. Quando infatti comincia a riflettere sulla propria condizione, vive già in società. Ha un linguaggio che non è un prodotto della programmazione di alcuno, ma una conseguenza non progettata dell’interazione. Ciò significa che non dobbiamo spiegarci i fenomeni sociali come proiezioni dell’intelletto del singolo, né come il risultato di cause “metafisiche o magiche”. Dobbiamo ricorrere all’agire reciproco, che genera sistematicamente esiti non programmati. Le più importanti istituzioni della civiltà sono nate in via inintenzionale: oltre al linguaggio, possiamo ricordare la famiglia, il mercato, il diritto, la città, il denaro. L’interazione è un processo ateleologico. Quando il movimento whig si è reso conto di ciò, liberalismo, evoluzionismo e scienze sociali hanno trovato un loro indissolubile legame.

Crede che leggere pensatori come Hume e Rousseau sia ancora utile? 

Certamente. Hume è stato uno dei primi teorici della “società aperta”. Leggere le sue opere è come trovarsi davanti a uno scrigno inesauribile, da cui possiamo attingere preziosi strumenti di decifrazione della condizione umana e dei fenomeni economico-politico-sociali. È una teoria che non si sofferma sulle intenzioni degli attori, ma sulle conseguenze del loro operato. Non ha il fascino ingannatore delle dottrine che promettono la liberazione da quella che Georg Simmel ha chiamato la “tragedia della condizione umana”. Ci fornisce però i mezzi per immunizzarci da quella promessa e per identificare le condizioni che rendono possibile la libertà individuale di scelta. Per chi crede nella fecondità dell’errore, è utile leggere anche Rousseau: perché i suoi scritti ci indicano esattamente quello che non dobbiamo fare. Sono ricolmi di “buone intenzioni”. E molti si lasciano facilmente abbagliare. Ma le “buone intenzioni” non hanno prodotto alcunché di positivo nemmeno nella sua vita privata, lastricata di contraddizioni e paradossi.

Hume è stato anche un economista?

La domanda giunge a proposito. Alcuni importanti suoi saggi sono dedicati ad argomenti economici. Esaminando certi errori commessi nell’ambito della teoria economica da Voltaire, Ludwig von Mises si è rammaricato del fatto che il francese non avesse letto i saggi economici di Hume. Sebbene non ci sia qui lo spazio per illustrarne il contenuto, è giusto rammentare che le bon David si è occupato di commercio, di moneta, del saggio d’interesse, della bilancia commerciale, delle imposte, del debito pubblico. Mi soffermo su un unico punto. Aderendo a quanto Richard Cantillon aveva già spiegato, Hume ha chiaramente compreso che l’incremento della circolazione monetaria può produrre effetti favorevoli all’attività economica solamente nell’intervallo di tempo in cui il processo sequenziale di riaggiustamento dei prezzi non giunge a completamento. Se avessimo tenuto conto di ciò, non ci saremmo fatti ingannare da quanti sostengono che lo sviluppo economico deve essere finanziato dalla cartamoneta.

Se Hume è stato anche un economista, forse ci potrebbe aiutare a rispondere a un ricorrente interrogativo dei nostri giorni. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ritengono che il vero liberismo in Italia debba stare a sinistra. Lei cosa ne pensa?

È un salto spericolato. I grandi del pensiero non hanno fatto il loro lavoro per consentire a ciascuno di noi di avere un sostegno nelle loro minute dispute quotidiane. Ma non mi sottraggo alla domanda. La parola “liberismo” non fa parte del mio lessico. È stata coniata nell’ultima parte dell’Ottocento, per separare la libertà politica da quella economica, attribuendo a quest’ultima una connotazione piuttosto negativa. Come ho argomentato in molte occasioni, un liberale non può abbracciare la libertà politica e respingere quella economica. Si è liberali o non si è. Non è possibile esserlo a metà. Venendo ad Alesina e Giavazzi, credo che abbiano voluto utilizzare il termine “liberismo” per rendere più chiaro il loro obiettivo di liberalizzazione dell’economia. Avrei usato un termine diverso. Ma riconosco che la loro indicazione può essere utile, “perché a partire dal 1900, e specialmente dopo il 1930”, l’espressione liberalismo economico ha “acquistato un significato differente e in realtà quasi opposto [a quello originario]: come elogio supremo, sia pure involontario, i nemici del sistema dell’iniziativa privata hanno ritenuto opportuno appropriarsi della sua insegna” (J.A. Schumpeter). Ecco quindi la ragione per la quale Alesina e Giavazzi hanno recuperato la parola “liberismo”. Ma il punto è: può uno schieramento socialdemocratico, storicamente nato con il proposito di sottoporre a controllo l’economia, fare propria l’idea della libertà economica? Alesina e Giavazzi probabilmente pensano che la loro opera “pedagogica” possa produrre un cambiamento culturale. E tuttavia le loro preferenze valgono, più o meno, quanto quelle di chi ritiene che un centro-destra corporativo e statalista possa essere spinto ad abbracciare un programma liberale. Detto diversamente, tutto ciò significa semplicemente che il liberalismo non è nato in Italia e che esso è stato fatto proprio solamente da minoranze.

Se le cose stanno così, è allora quasi impossibile trasmettere gli ideali e i princìpi liberali? Occorre abbandonare gli insegnamenti di uomini come Hume?

Non è proprio così. Ma ci sono ovviamente delle difficoltà. Come gli intellettuali di sinistra sono sovente affetti da una forma di “dandismo etico”, che li porta a ritenere la loro posizione moralmente superiore, alcuni studiosi liberali cadono spesso in una sorta di “dandismo intellettualistico”, che li spinge a credere che il livello teorico delle loro proposte sia l’unica cosa che conti. Non si pongono il problema del consenso. Ed è un errore fatale. I processi sociali sono carichi di interessi e di aspettative. Occorre pertanto essere cauti. Non bisogna mai presentare le proposte liberali come punitive. È necessario porre sempre l’accento sui vantaggi che potranno essere realizzati, mostrando tutte le contraddizioni e la “miseria” delle politiche interventistiche. Il che non è poi irrealizzabile. Siamo un paese sopraffatto dai debiti e che non riesce nemmeno a promettere un futuro ai propri figli. Per accrescere la produttività della nostra economia, abbiamo bisogno di liberare risorse. E, sebbene questo sia un problema ben noto, continuiamo con presunzione a percorrere la strada delle politiche clientelari e dello sperpero. Eugen von Boehm-Bawerk è stato un esemplare Ministro delle Finanze. Ha tuttavia potuto portare avanti i suoi programmi perché, come egli stesso diceva, “un Ministro delle Finanze deve essere sempre pronto a rassegnare le proprie dimissioni e deve sempre agire come se non intendesse mai presentarle”. Trova qualcosa di simile nella nostra storia recente?

Mi può portare un esempio di “dandismo intellettualistico”? 

Com’è noto, l’euro è nato da un progetto di ingegneria finanziaria. Da un punto di vista squisitamente liberale, è legittimo rivolgere alla valuta europea molte critiche. Ma occorre saper trarre vantaggio dagli inconvenienti. Giustamente, Jesús Huerta de Soto, economista di purissima estrazione “austriaca”, ha riconosciuto che l’introduzione dell’euro “ha portato nella maggior parte dei paesi dell’Europa continentale alla sparizione del nazionalismo monetario e dei saggi di cambio flessibili”. Ebbene, se si tiene conto della battaglia condotta negli anni Trenta da Lionel Robbins e da Friedrich A. von Hayek, non è un risultato irrilevante. E non solo. La valuta europea ci consente un rilevantissimo risparmio sugli interessi maturati dal nostro spaventoso debito pubblico. Ma molti dimenticano l’una e l’altra cosa. E portano ingenuamente acqua al mulino del nazionalismo monetario che, come Robbins non ha mancato di sottolineare, è la forma più “perniciosa” di nazionalismo, perché colpisce irrimediabilmente la civiltà e il benessere. Anche qui Hume ci potrebbe insegnare molto sul piano teorico. E potrebbe impartirci una matura lezione di vita. Sapeva bene che, quando i nostri ideali non sono immediatamente realizzabili, dobbiamo accontentarci di quel che meno compromette il nostro futuro. È stato questo suo senso della misura a scandalizzare molti allorché, nella sua History of England, ha voluto versare una “lacrima generosa” per il destino di Carlo I, vittima della sanguinaria Rivoluzione puritana.

Andrea Mancia

 

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