Lou Palanca: «Scrivere è esistere. E resistere» (Corriere della Calabria)

del 4 Maggio 2015

Da Corriere della Calabria del 3 maggio

Una piccola comunità si ritrova ad amare la storia e le storie, a leggere, scrivere, esplorare le pieghe di quella memoria che invoca il riscatto da un oblio per divenire patrimonio comune e condiviso. Lou Palanca è il nome di un collettivo di penne che raccontano, intrecciano e fanno decantare tante vicende, incarnando la voce dei tanti spesso dimenticati da una cultura distratta e privata delle sue vitali radici. Un gruppo aperto, che si fa comunità, con alle spalle già cinque anni di esperienza in cui scrivere è importante quanto essere parte di un progetto, contribuire alla sua diffusione. Diverse sensibilità per un racconto dalle mille sfumature. «Se, come diceva Sepulveda, narrare è resistere, scrivere è anche esistere, dare continuità ad un impegno sociale e politico in un tempo che sembra volere azzerare la scrittura, la condivisione, la politica».
Così le trame muovono i passi da misteri e pagine di storia più o meno note. È il modo attraverso il quale Lou Palanca appassiona il lettore compiendo il miracolo di corroborare la sua identità di testimone del tempo e della Storia, alimentando quel desiderio di restare lì ad ascoltare e di interpretare il futuro, attraverso uno sguardo corale dentro il presente. «La Storia – spiega Lou Palanca – è la miniera nella quale ritroviamo i frammenti delle nostre storie e quei contesti da indagare di cui la scrittura collettiva ha probabilmente più bisogno rispetto a quella singola».
Due romanzi, Blocco 52 e Ti ho vista che ridevi (appena uscito nelle librerie), e anche tre racconti pubblicati in rete, Mistero al cubo, un piccolo giallo ambientato nell’università di Arcavacata, e due al parco di Ecolandia, nella zona collinare nord di Reggio dentro una fortezza umbertina, ai tempi del terribile sisma nello Stretto del 1908. Di prossima uscita anche un contributo ad un esperimento coordinato dal collettivo Wu Ming e incentrato sulla figura di Scaramouche.
Come e perché nasce questo collettivo di scrittori?
«Il collettivo rappresenta, in qualche modo, il portato finale dell’esperienza di Altracatanzaro, una associazione e soprattutto un sito web attivi tra il 2006 e il 2008 su vari temi, tra cui quello del recupero della memoria: vanno sicuramente ricordati l’inchiesta sulla morte di Giuseppe Malacaria e l’impegno per la digitalizzazione degli atti del processo di piazza Fontana. Lì si intrecciarono alcune amicizie, che poi sfoceranno nell’idea di lavorare sulla vicenda dimenticata dell’omicidio di Luigi Silipo, dalla quale è nato il primo romanzo, Blocco 52».
Più mani per raccontare una storia unica. Com’è questa esperienza?
«Divertente, interessante, potente. Ciascuno di noi ha un lavoro, vive in posti diversi dagli altri, fa esperienze ed ha relazioni differenti, ma poi la scrittura collettiva riesce a produrre un’unica soggettività condivisa e indistinta. In una terra come la Calabria, dalla quale tutti proveniamo, è sempre più difficile essere e pensare come collettivo: in questo senso è una esperienza della quale siamo anche orgogliosi».
La vostra scrittura corale si pone come messaggio di condivisione e come provocazione rispetto all’individualismo e all’autoreferenzialità dilagante nella società ?
«Quando nasce o si sviluppa un progetto, quel che ci piace di più è poterlo condividere. Prima di tutto fra noi, ma subito in circuiti sempre più ampi, anche prima che esso sia compiuto o concluso, perché ciò non può che arricchirlo. Quindi la nostra scrittura è essenzialmente un messaggio di condivisione, che oggettivamente segnala un punto di vista critico rispetto all’individualismo di una società nella quale i corpi intermedi, le formazioni collettiva vanno dissolvendosi. Da qui nasce anche la scelta di dare un nome particolare al collettivo, identificabile nel mito calcistico, ma volutamente lontano dalle nostre identità, per noi sono più importanti le storie che raccontiamo rispetto agli autori».
Secondo voi la Calabria che rapporto ha con la sua storia e con la memoria?
«Ha un rapporto molto complesso. Come dappertutto, il fenomeno della globalizzazione richiede che funzioni la memoria breve, volatile, piuttosto che quella legata all’insieme delle storie e delle tradizioni. Ma esistono presidi di memoria sparsi in vari luoghi ed in diverse esperienze, magari ciascuno su un terreno specifico. Un lavoro come il nostro serve proprio a suscitare maggiore attenzione alla memoria a fare emergere quello che è stato dimenticato, in alcuni casi anche volutamente perché scomodo».
Sono tante le storie senza voce in questa terra?
«Prima o poi qualcuno dovrà narrare la storia dei fratelli Palamara, per esempio, dei giovani di Africo che contro la ‘ndrangheta ricorsero alle forme più estreme di resistenza. Al di là dei torti e delle ragioni è una storia che ha una sua valenza quasi epica, nella terra di don Stilo (speriamo che la memoria sia sufficiente a ricordare chi fosse quel prete che si voleva fare Stato e antistato…). La storia di Francesco Misiani, socialista e pacifista, che dalla lontana Ardore arrivò a fare il produttore cinematografico nell’Urss degli anni Trenta».
Di cosa è capace la scrittura di fronte a misteri irrisolti come quello che avete raccontato in Blocco 52?
«Una buona scrittura è in grado di appassionarti, magari non ti aiuta a trovare la soluzione dei misteri, ma almeno te ne dà una visione più ampia, qualche chiave di lettura e ti fa innamorare di qualche storia».
È appena uscito il vostro secondo libro, “Ti ho vista che ridevi”. Quale storia raccontate?
«È una idea germogliata dalle parole di Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, che in più occasioni ha affermato che le donne calabresi hanno salvato le Langhe in quel passaggio difficile che va dalla scomparsa del mondo contadino al boom turistico ed enogastronomico che quel territorio vive ormai da un ventennio. Da lì è nata la nostra curiosità ed abbiamo scoperto, a partire da L’anello forte di Nuto Revelli, la storia delle giovani che negli anni Sessanta e Settanta dalla Calabria andavano spose ai contadini piemontesi. Un’emigrazione femminile sconosciuta. Dalla conoscenza di queste storie ha preso avvio il nostro nuovo impegno narrativo, edito da Rubbettino con la prefazione di Carlo Petrini».

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