Mitocritica e antropologia nel romanzo Coraìsime di Bernardo Migliaccio Spina: archetipo, simbolo e folklore (stiledicultura.it)

di Maria Cristina Caminiti, del 17 Aprile 2019

Premessa

Ho iniziato a leggere il romanzo d’esordio di Bernanrdo Migliaccio Spina un po’ per la curiosità delle tematiche trattate al suo interno, un po’ perchè durante l’ultima presentazione del suo libro alla quale ho assistito sono ritornati alla mente parte dei miei studi universitari riguardanti la critica letteraria e la mitocritica in particolare.

Così è venuto fuori un saggio che vuole dimostrare come un linguista e uno studioso di testi legge un qualsiasi romanzo. Da semplice lettore, che si sofferma alla trama, alle vicende dei personaggi e al piacere della lettura, si trasforma in un “individuo pensante che va oltre” e nella cui mente si intrecciano collegamenti interdisciplinari, interpretazioni personali e dunque teorie che possono fornire una chiave di lettura distinta dalla classicità letteraria, al di là della trama.

È bene sottolineare che la critica di un qualsiasi testo è uno studio puramente scientifico, poichè segue le tradizionali tappe del metodo della scienza, ovvero la nascita di un problema (cosa potrebbe intendere l’autore?), l’ipotesi, la deduzione, il controllo sperimentale della previsione (tramite ricerche, studi, approfondimenti), teoria e soluzione.

Naturalmente questo percorso rimane sempre aperto ad innumerevoli altre vie di studio, non è un luogo chiuso che porta ad una sola e unica soluzione. D’altronde la bellezza delle scienze umanistiche è proprio questa!

Questo saggio quindi vuole fornirvi un esempio di studio del romanzo,mostrando come esso può avere diverse chiavi di lettura, valido anche se ancora non lo si ha letto.

Sarà il primo esperimento che, spero, porterà alla realizzazione di molti altri. Con l’augurio di poter dedicare e pubblicare altri (i tempi di studio e stesura di un lavoro del genere non sono mai brevi), Stille di Cutltura vi lascia alla lettura del suo “saggio d’esordio”. Con le speranza che vi possa piacere e che vi conduca alla riflessione su come la mente è in grado di spaziare tra gli infiniti saperi.

Buona lettura!

 

Abstract

Bernardo Migliaccio Spina, alle prese con il suo primo romanzo Coraìsime, apre le porte ad un nuovo filone letterario che aveva già sperimentato nel suo lungometraggio Malanova, storia di amore e magia nel 2008, ovvero il gotico calabrese. Il libro è stato inserito anche nel genere del romanzo psicologico, grazie alla dimensione psichica che l’autore assegna ai suoi personaggi principali.

Tuttavia questo saggio vuole soffermarsi su alcuni aspetti rinvenuti durante la lettura di Coraìsime, che hanno suscitato idee e teorie nel pensiero dei lettori. Come ogni romanzo, le vie d’interpretazione sono molteplici, a volte lontane dalle vere intenzioni dell’autore. Ma il gioco sta proprio qui: estrapolare concetti ed elementi che conducono ad uno studio approfondito della critica letteraria. In questo caso, il saggio vorrà intenzionalmente considerare gli aspetti antropologici della popolazione calabrese, ripercorrendo a ritroso un iter di credenze, simboli, archetipi e tradizioni, attraverso lo studio della mitocritica. Questa, strettamente legata alla psicoanalisi, grazie agli studi condotti da Gustav Jung, è in grado inoltre di fornirci ulteriori informazioni su alcuni aspetti caratteriali dei personaggi, in particolare di Paolo e Marta, non trascurando mai gli elementi principali che ammantano di mistero l’immaginario paesaggio dell’Aspromonte dove si svolgono le azioni della vicenda.

Il presente saggio dunque è suddiviso in due macroaree: si partirà dal concetto di mitocritica, portando alla luce i quattro elementi naturali, per ampliare il discorso alla psicoanalisi e all’etnopsichiatria, per poi passare allo studio antropologico e folkloristico calabrese.

Keywords: mitocritica, antropologia, simbolo, archetipo, cultura, folklore, gotico, Calabria

I

La mitocritica è un indirizzo della critica letteraria che mira ad un’interpretazione del testo tramite miti, simboli e archetipi. Trascende l’individuo, la storia, il tempo, incentrandosi su ciò che accomuna gli esseri umani. Si parla dunque di “inconscio collettivo”: è lo stesso Jung, che non solo considera come un’ipotesi scientificamente fondata il fatto che l’osservazione dei meccanismi psichici individuali possa costituire un criterio atto a penetrare i segreti di creazioni artistiche o di fenomeni storici, bensì considera anche che, inversamente, si debba cercare luce nello studio di creazioni appartenenti al patrimonio culturale e, più genericamente, di fenomeni e comportamenti individuali e collettivi recanti con forza particolare il segno dello spirito umano, sia esso creatore o distruttore, divino o diabolico.[1]

Sin dalla prima pagina, Migliaccio Spina fornisce uno dei primi elementi validi che introducono al filone della mitocritica.

 

«Il racconto del bambino sottacqua

mi sveglia ancora di notte,

cerca di dirmi qualcosa, ma l’acqua lo soffoca,

lo spinge giù a lato del letto,

finisce per nasconderlo in fondo al tappeto verde.

A volte sembra morto, cullato dalla corrente fino a che

non riapre gli occhi e ripete qualcosa che l’acqua nasconde.»[2]

 

Norma Bärgetzi Horisberger afferma che l’acqua, il mare, «è il simbolo dell’inconscio per eccellenza, con i contenuti rappresentati da tutti gli esseri che vivono nelle sue profondità». Tali espressioni simboliche, sostiene Jung, non sono altro che la proiezione inconscia dei drammi dell’anima, riflessi poi nei fenomeni naturali.

Il significato dell’acqua, molto presente nel testo di Migliaccio Spina, insieme agli altri tre elementi naturali – terra, aria e fuoco – ha radici profonde. Già nella mitologia greca, in particolare nell’Iliade, Oceano è una delle divinità che sta all’origine del mondo, «Oceano, che a tutti i numi fu origine.»[3] Ma il significato dell’acqua non si esaurisce nella mitologia, anzi esso si evolve e si sviluppa anche nella storia delle religioni per poi approdare nella letteratura e nella scienza della psicoanalisi.

A tal proposito Jung inserisce l’acqua tra gli aspetti profondamente radicati nella mente umana definiti archetipi, appartenenti a quello che lui definisce “inconscio collettivo”.

 

«Esso (l’inconscio collettivo) poggia su uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali, ma è innato […] non è di natura individuale, ma universale […] ha contenuti e comportamenti che (cum grano salis) sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui […] è identico in tutti gli uomini e costituisce un sostrato psichico comune, di natura soprapersonale, presente in ciascuno.»[4]

 

L’inconscio collettivo dunque è un substrato dell’inconscio freudiano che conterrebbe tutti gli aspetti psichici strutturanti, definiti appunto da Jung archetipi. Possiamo quindi riferirci agli archetipi come una grammatica universale del nostro immaginario.

Migliaccio Spina gioca con i vari stati dell’archetipo dell’acqua e infatti nel primo capitolo essa si presenta sottoforma di umidità, «Frugò nella tasca una piccola torcia e l’accese. Le pareti della grotta erano irregolari e pregne di umidità.»[5]

In questo caso l’archetipo dell’acqua si rivela nel suo aspetto più oscuro. Gilbert Duran, esponente della mitocritica, nel suo libro Le strutture antropologiche dell’immaginario, afferma che l’immaginario possiede due regimi, uno diurno e uno notturno, dotati di simboli, miti e archetipi.

All’interno di Coraìsime è frequente il regime notturno di Duran, in quanto l’oscurità e le tenebre delle scene e dell’inconscio dei personaggi ripercorrono l’intero testo. Nel caso specifico, sebbene sottoforma di umidità, l’acqua si trova nel suo stato “stagnante”, che rappresenterebbe, simbolicamente, una stasi dei processi psichici o il legame con la morte.

Oltretutto questo elemento si ritrova correlato all’archetipo della grotta. Nel regime notturno la grotta apparterrebbe al suo archetipo originario, cioè la “dimora” di cui si intendono vari luoghi, come ad esempio la cantina, la taverna o comunque parti sottostanti ad essa, dove il colore nero prevale e, essendo la dimora un “recipiente”, rimanderebbe a sua volta al concetto di “tomba” e ancora una volta alla morte, anch’essa molto presente nel romanzo. La grotta dunque è relativa alla terra, che nutre, ma anche divora e ingoia.

Sul concetto di dimora ritorneremo più avanti, in quanto questo archetipo si farà ancora più vivo nelle scene in cui attua il personaggio di Marta.

Il primo capitolo intitolato Il rapimento è caratterizzato dai quattro elementi naturali sottoforma di immagini implicite: piromani(fuoco), mare (acqua), vento (aria) e infine terra, l’unico ad apparire esplicitamente.

 

«Il passo deciso spingeva giù la terra arida e lasciava dietro uno scarto di polvere che entrava nell’umido della gola corrompendolo. Era terra bruciata. Quella attraversata d’estate da canadair impazziti, colmi di mare, per sedare il gioco di piromani che si dividono la mazzetta lungo i tornanti della strada subito fuori paese. il male ti offre il caffè nei bar, urla un saluto che risuona fra le dita e la tazzina, un «pagato! » Che elemosina il rispetto. In quel cammino buio riconobbe tutte le paure, il deflagrare dei tuoni sulle rampe delle scale, il vento col sibilo strozzato fra gli infissi, l’uomo nero informe, la parata di mascherine con gli occhi bianchi, la vecchia con la voce da bambina che sferruzza sciarpe, un oboe sotto le coperte che suona fra le viscere un canto monotono e insistente.»[6]

 

La terra è «arida», «bruciata» da «piromani» che incarnano una sorta di “affiliati” i quali distruggono le foreste e i boschi per conto di quello stesso «male», che offre i caffè nei bar, elemosinando il rispetto del paese e di cui si ha paura.

Una delle piaghe della Calabria infatti sono gli incendi estivi che devastano sia l’Aspromonte che la Sila distruggendo ettari boschivi di cui si tenta di salvare il salvabile. Una terra bruciata dal fuoco che non è più “rinascita”, ma morte. Una morte che spezza la vita di piante, animali e soprattutto di uomini, lavoratori e braccianti agricoli, perché spesso gli incendi impiccati giungono fino ai campi irrompendo nelle proprietà e rovinando il lavoro di una vita.

 

Ma gli elementi acqua e terra sono riuniti anche in un’immagine metaforica all’interno del capitolo L’età di schiuma. In questo caso l’archetipo dell’acqua è raffigurato dalla sua contrapposizione, ovvero la siccità. L’ “uomo-albero” «aveva il corpo cosparso di fango secco, sembrava un tronco d’albero, un essere ricoperto da corteccia scura. Un tronco con gli occhi azzurri che sorrideva[…]»[7]

L’uomo-albero è una metafora viva, se riprendiamo la definizione di Ricoeur, ovvero una metafora che reinventa la nostra visione del mondo. Esso è la metafora della siccità. La duplicità dell’archetipo dell’acqua, cioè il fatto che possa simboleggiare sia aspetti positivi, come portatrice di vita nelle regioni aride, sia aspetti negativi, manifestando la sua distruttività con diluvi e inondazioni, ma anche con la sua totale assenza, è ben visibile in questa immagine.

L’assenza di acqua è riconducibile alla sete e alla morte; secondo la scienza naturale infatti, l’uomo è in grado di sopravvivere settimane senza cibo, ma non senza acqua. Inoltre la mancanza di acqua è portatrice di distruzione agricola per cui i campi, non essendo “fecondati”, non possono generare frutti.

 

«Lui però con quell’uomo ci parlava spesso […] La sua voce gli ricordava la profondità delle grotte nella zona vecchia del paese: anfratti e vicoli sembravano modularne il verbo […] Aveva bisogno di raccontare la sete che provava e la sua perenne ricerca d’acqua. Paolo più volte lo accompagnava alla fontana, ma lui si ostinava a dire che fosse secca da anni e che non scorreva più niente, si arrabbiava fino a sentirsi male.»[8]

 

La vegetazione, secondo la mitocritica, ha un destino tripartito (vita-morte-rinascita) e ciclico, cioè le sue fasi si susseguono eternamente. L’uomo ha da sempre rivolto la sua attenzione ai cicli vegetali, sin dai tempi del Paleolitico Medio, momento in cui, considerando la terra ri-generatrice di vita e quindi regressum ad uterum, ha iniziato a inumare i morti.

Mircae Eliade, che si occupa del mito dal punto di vista religioso, nel suo Trattato di storia delle religioni, parla di ritorno alla terra madre in riferimento alla speranza che essa potesse rigenerare i defunti. Nel caso di Coraìsime, la terra è arida, dunque il destino ciclico della vegetazione diventa bipartito, fermandosi alla morte.

 

Il linguaggio per sottrazione di Migliaccio Spina, muove i suoi personaggi tra scene cinematografiche. Si tratta appunto di una “visione ad inquadratura”, come il movimento di una macchina da presa che focalizza l’attenzione esclusivamente sulle immagini principali, sui particolari dell’ambiente, tralasciando la cornice che le contiene. Tali immagini sono ben visibili nelle parole dell’autore che, seppur inconsciamente, si lega quell’immaginario collettivo di miti e archetipi.

È lo stesso Paolo, il primo personaggio ad apparire nel libro insieme a Giuseppe, sebbene non venga ancora nominato, ad essere in stretta relazione con il regime notturno durendiano. Paolo trascina Giuseppe per il bosco per condurlo nel luogo in cui verrà segregato per gran parte del romanzo, la casa dei nonni.

Paolo, insieme a Marta, appartengono al buio, alle tenebre, mentre Giuseppe dalla luce è costretto a far parte del mondo di Paolo. Ma se Paolo non riuscirà mai ad uscire dal regime notturno né dall’inconscio che da collettivo diviene individuale, Marta reagisce e tenterà una fuga verso la luce per poi ricadere nell’eternità delle tenebre, l’unica via d’uscita individuata dalla ragazza.

Riprendendo il personaggio di Paolo, egli, sia all’inizio che alla fine del romanzo, si ritrova continuamente nei luoghi chiusi della terra.

 

«Tutti i cunicoli partono da questo cuore scavato nella roccia, giù nel fondo di un piccolo lago c’è l’inizio delle gallerie. Sembra il lavoro di giganti, di millenni di silenzi di un fottio di termiti che si sono date appuntamento nel bel mezzo di aspri sentieri montani. Nessuno c’è mai sceso, nessuno ha mai messo piede nelle arterie, nessuno ha attraversato quel budello di terra e pietra.»[9]

 

Probabilmente il paragrafo Architetture è riferito ai bunker, “città sotterranee” costruite dai latitanti, definiti da Migliaccio Spina «uomini senza testa».

Andando però con ordine, le immagini iniziali della grotta («Le pareti della grotta erano irregolari e pregne di umidità») e quelle finali dei «cunicoli» scavati, rimandano ancora una volta alla simbologia della caverna. Essa racchiude in sé molteplici significati: è il “regressum ad uterum”, la discesa agli inferi che porta ad una nuova nascita, abisso da cui emergono imprevisti e pericoli. Ancora, è il simbolo della morte, il sepolcro, l’inconscio primordiale.

Nel caso di Paolo, la grotta è il “sottoterra”: in genere non può essere considerato una rinascita, ma in questo caso potrebbe essere interpretato quasi come una presa di coscienza del mutamento che il paese sta subendo. I mostri che perseguitano la sua anima, finalmente si materializzano davanti ai suoi occhi e Paolo si rende conto che ormai neanche lui può riuscire a scappare dagli «uomini senza testa».

 

«Frugò nella tasca una piccola torcia e l’accese. Le pareti della grotta erano irregolari e pregne di umidità. In diversi punti si aprivano dei cunicoli. Si intuiva un’architettura sotterranea, una rete di passaggi e stanze in direzione del paese. l’odore della terra gli riempiva le narici. Non poteva più tornare indietro, doveva mettere un punto a tutte le sue domande. Lo voleva guardare in faccia quel male che gli aveva strappato via parte della sua vita. finalmente avrebbe visto la bestia senza testa. Avanzò piano. Qualcosa andò a sbattere contro le sue gambe. Paralizzato dalla paura abbassò lento la pila.»[10]

 

Jung definisce la grotta come «l’istinto o l’impulso scorrevole, ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile».

Secondo la tradizione greca, in riferimento al mito della caverna di Platone, essa rappresenta un luogo di ignoranza, di sofferenza e di punizione. Gli uomini, incatenati al suo interno sin da fanciulli, possono intravedere solo le ombre delle idee. La luce indica la strada da percorrere, l’anima che deve liberarsi dalle tenebre ed elevarsi al bene e al vero. Paolo è colui che riesce ad uscire dalla caverna rispetto ai suoi compaesani e dunque l’unico in grado di aiutare il lettore a comprendere la verità che si cela dietro i fatti che stanno accadendo nell’immaginario paese dell’Aspromonte.

 

Soffermandoci per qualche istante sugli «uomini senza testa» è possibile notare come queste figure ripercorrano l’intero romanzo. Non è ben chiaro, inizialmente, il genere di creature alle quali ci si riferisce, ma l’autore consegna ai suoi lettori indizi abbastanza chiari.

 

«Paolo era certo di averli visti confabulare dietro le ruspe. Si erano confusi con le persone comuni, nessuno aveva più timore di quel sacco sulla testa. La voce gli usciva dal collo e riempiva la valle con i grossi piloni che la inchiodavano dall’alto.»[11]

 

Si tratta della costruzione della nuova superstrada, che andrà a collegare i paesi della fascia ionica. I lavori, nonostante portino al territorio maggiore facilità nelle vie di comunicazione, stanno letteralmente distruggendo il mondo arcaico e rurale che apparteneva a quelle “vecchie generazioni” di contadini e agricoltori. In questo cambiamento drastico si insinuano gli «gli uomini senza testa», esseri realistico-immaginari che si infiltrano negli affari politico-economici del paese.

La visione di Migliaccio Spina di questi uomini è volutamente distorta, in quanto rimandano alla non identità.

La non identità di questi esseri va intesa nella loro capacità di insinuarsi tra i componenti di una comunità senza che questi si rendano conto di iniziare delle relazioni che si ridurranno ad un legame di schiavo-padrone. L’attività degli «uomini senza testa» è quella di «succhiare i cervelli», impadronirsi dell’identità e della dignità di altri uomini per l’edificazione di un monopolio malavitoso fatto di “leggi illegali” e rapporti di padronanza.

Essi appaiono con «colli privi di testa, moncherini che partivano dal busto.»[12]  Anche queste figure, se vogliamo perseguire la via della mitocritica, entrano a far parte del regime notturno di Coraìsime: «Scendevano la notte dall’Aspromonte con dei sacchi piegati sul tronco: non avendo la testa, ne cercavano una da portare via.»[13]

È un chiaro rimando ai latitanti i cui nascondigli sull’Aspromonte durante gli anni Settanta e Ottanta e la prima parte dei Novanta, hanno fatto da scudo ai numerosi malavitosi calabresi. Potremmo azzardare che quelle teste che “cercano di portare via” si riferiscano al periodo dei sequestri di persona iniziato negli anni Sessanta e che stava giungendo al termine negli anni Novanta. Se ciò può sembrare forzato, una seconda ipotesi, forse la più pertinente, è che le teste da portare via rimandano ai tanti uomini, giovani e ragazzini, che hanno iniziato ad affiliarsi ai gruppi mafiosi, portando via braccia alla terra e l’identità del mondo rurale.

Paolo è ossessionato da queste figure, che stanno cancellando il mondo magico del suo passato. Probabilmente egli è l’unico in tutta la società a rendersi conto di ciò che sta accadendo: nota il cambiamento di un paese e dei suoi abitanti e cerca una soluzione, sebbene la trovi nel segregarsi in una costruzione appartenente al passato. Quel mondo costruitosi e rappresentato dalla casa dei nonni, non può rimanere separato dalla realtà, ma deve forzatamente mescolarsi ad essa fino alla sua totale distruzione.

 

«Era in cima al tetto con gli occhi pieni di lacrime. Sua figlia lo aveva lasciato per sempre. Su quelle tegole che avevano sopportato mille inverni Paolo cercava lontano il suo paese oltre il bosco. Aveva dato fuoco alla casa dei nonni. Sotto i piedi bruciava la sua vita intera, quel rifugio non era bastato a salvarlo.»[14]

 

Anche qui riscontriamo uno dei quattro elementi naturali, ovvero il fuoco. Il fuoco è l’agente che lega il macrocosmo al microcosmo. Essendo un elemento dinamico, genera delle trasformazioni, sia esse positive (purificazione), sia negative (distruzione), sebbene la distruzione presupponga sempre una rinascita e dunque un’elevazione ad un livello maggiore, così come la purificazione.

Non solo, il fuoco rappresenta il principio maschile, che stimola l’azione distruttrice, se non è fermato dal suo opposto, cioè l’acqua. Essa è l’elemento femminile, passivo, che rallenta o spegne il fuoco dilatante, mitigandone la forza distruttrice.[15] È la stessa acqua ad intervenire nella scena sottoforma di pioggia, per spegnere l’incendio della casa dei nonni di Paolo,

 

«Un tuono potente fece urlare Marta che continuava a fissare il padre in alto tra i fulmini. Il fuoco si propagava dalla casa come un ruscello vorace di fiamme.»[16]

 

I due elementi, fuoco e acqua, accompagnano i due personaggi opposti: Paolo, che sta in cima alla casa incendiata e Marta, che da terra osserva il padre mentre un temporale si abbatte sulla campagna. I due personaggi sono in contrapposizione, poiché Marta, rimasta segregata in casa per volere del padre e trasformatasi in una persona inetta e alienata, avrà un unico atto di ribellione nel romanzo.

Paolo, dopo il rapimento di Giuseppe, tenta, in un momento di raptus, di ucciderlo. Marta da parte sua colpisce il padre in testa con una caraffa, pronunciando solo due parole «Scusa, papà» in un misto di compassione e ribellione all’interno di un corpo umano che nell’attimo successivo ritorna alla sua dimensione apatica, quasi un annullamento dal mondo esterno, «Lei lo guardò con occhi spenti. La rabbia che li riempiva era fuggita via lasciando spazio a un luogo disabitato fra le ciglia. Si mise a sedere sulla solita sedia.»[17]

Effettivamente Marta appare nel romanzo solo nella sua fisicità, non attua per l’intero romanzo, se non alla fine. Cresce alienata dalla società perdendo quasi totalmente l’uso della parola e incapace di realizzare le più semplici azioni quotidiane. È un recipiente vuoto, un fantoccio, una bambola inanimata nella mani di Paolo il quale se ne prende cura con ossessiva precisione, per poi risistemarla nella sua sedia davanti la finestra.

La seconda azione di Marta è quella di fuggire dalla casa paterna insieme a Giuseppe, il quale dal canto suo cerca di dar vita a quella che è solo un’immagine di donna.

Marta però non regge la luce, la verità, il mondo, non è in grado, perché cresciuta “incatenata nella sua caverna” sin da bambina. Lei percepisce solo le idee del mondo attraverso la finestra davanti la quale si siede ogni giorno e per tutto il giorno. Perciò, a contatto con l’esterno, decide di voler tornare a quella casa ormai distrutta dal fuoco appiccato da Paolo. E così Marta attua la sua ultima ribellione, gettandosi dal belvedere tra le felci e il buio.

La morte finalmente si materializza. È l’unica via d’uscita da un vissuto trascorso nell’alienazione. Marta vede la morte come la sola soluzione, è una sorta di morte iniziatica che presuppone l’archetipo dell’inghiottimento.

 

«Il simbolismo dell’inghiottimento e del penetrare nel ventre equivale ad una regressione psichica dell’istinto primordiale, psichicamente è la discesa agli inferi fra le tenebre e i morti, la regressione sia nella notte cosmica, sia nelle tenebre della follia in cui l’individuo si dissolve.»[18]

 

Mircae Eliade pone gli elementi di morte, notte cosmica, caos, follia e regressione allo stato primario, in corrispondenza tra loro. La morte, per Eliade, è sinonimo di saggezza: per conoscere il futuro sono necessari la follia e il contatto con l’inconscio collettivo. La morte è la via di liberazione dal passato, la fine dell’esistenza e la rigenerazione ad una nuova dimensione più evoluta.

Marta trascorre parte dell’azione nella casa paterna e nel bosco dove fugge e ritorna con Giuseppe. Questi luoghi di isolamento raffigurano in Eliade gli inferi e l’inghiottimento nel ventre dove regna la notte cosmica.[19]

Non solo, Marta ritorna all’oscurità della natura, a quella stessa vegetazione che aveva tenuto nascosto il nascondiglio, inghiottita nel ventre del mostro dell’oscurità, ponendo fine ad ogni suo dolore, «La grande quercia frenò la sua corsa. L’aveva presa in grembo fra i rami. Si era ritrovata fra foglie e germogli, risparmiata al dolore.»[20]

 

Il libro è suddiviso in due fasi, seppur incastrate tra loro tramite flashback e presente: ai flashback fanno parte quelli che lo stesso autore definisce “anni di luce”, dunque un passato caratterizzato dalla giovinezza, l’estate, i paesaggi rurali, il sole, il mare e tutti gli elementi appartenenti al regime diurno. Il presente invece sono gli “anni di buio” con un paese in cambiamento, il cemento che divora le campagne, i boschi, le scene notturne e le ossessioni di Paolo, il tutto appartenente al regime notturno durandiano.

Come detto precedentemente, agli anni di luce appartiene il passato di Paolo. Quel paesaggio campestre è pieno dei ricordi di uomini che decidono della vita, fanno affari perché il loro umore e il loro futuro dipendono dalla natura. Tutti gli uomini sono paragonati agli elementi vegetali, quasi fossero essi stessi parte della vegetazione, fossero loro il motore della vita,

 

 «L’olio era un metro liquido per valutare il futuro […] Quegli uomini parlavano ai sassi, ai semi, somigliavano alle felci, alla fitta ginestra, alle zolle ruvide a lato delle mulattiere.»[21]

 

Anche Paolo e la sua Adele sono paragonati al rigoglio e alla fioritura degli alberi, sono creature vegetali, sono essi stessi la natura. Come D’Annunzio e la sua Ermione, Paolo e Adele diventano un tutt’uno con la vegetazione, con la luce delle campagne calabresi, «Aspettavano di crescere mentre gli alberi, anno dopo anno, si piegavano sempre più carichi di olive. La natura intorno sembrava aver preso il loro ritmo e cresceva generosa.»[22]

 

 

                                                                                                                          II

Per affrontare questa seconda pare è necessario partire dal concetto di “cultura”.

Secondo l’antropologia culturale, questo termine incorpora in sé ben centosessanta significati diversi. Nel caso di Coraìsime però ne assumeremo un significato onnicomprensivo.

Edward Burnett Tylor definisce “cultura” come una «totalità complessa che abbraccia nozioni, credenze, arti, costumi, abitudini e tutti gli altri tipi di capacità e di costanti attività che sono propri dell’uomo in quanto membro della società.»[23]

In contrapposizione al concetto di natura come totalità cosmica, possiamo aggiungere che la cultura indica «un sistema di valori, norme, riti, soluzioni tecniche dei bisogni, che corrisponde all’esperienza stessa di un popolo e attraverso il quale questo popolo realizza la sua umanità.»

L’antropologia dunque è intesa come quello studio che indaga la dinamica interna da cui nasce la cultura, si ramifica, si concretizza e si valorizza.

Il romanzo di Migliaccio Spina si immerge totalmente nella cultura calabrese in tutto il suo fascino e mistero. Perciò quello su cui si incentrerà questa seconda parte sarà come la cultura calabrese ha influito sul romanzo, quali sono i riti magici appartenenti a quel mondo antico tanto caro ad Ernesto de Martino e in quale storia tali riti si radicano.

 

All’interno del capitolo L’età di schiuma, l’autore inserisce i primi elementi che rimandano al folklore propriamente meridionale: «Intorno a un popolo bruciato dal sole urlava numeri tralasciando il tredici.»[24]

Il numero tredici, insieme al diciassette, è tra quelle superstizioni che i popoli, non solo del sud, cercano di scongiurare fermamente. Nonostante tali credenze appartengano ad un passato radicato nell’antichità, ancora oggi si crede, sebbene con battute e sorrisi, che questi numeri portino la cattiva fortuna o sfortuna.

Il rapporto tra uomo e numeri è stato da sempre complicato. La numerologia ha influenzato e continua ad influenzare l’uomo sin dalla storia delle prime civiltà: i Babilonesi osservavano i movimenti dei pianeti registrandoli come numeri utili per predire eclissi e altri fenomeni astronomici. Gli Egizi utilizzavano i numeri per prevedere le inondazioni nel Nilo e Pitagora sosteneva che essi fossero alla base dell’universo.

Ancora oggi molte sono le aziende che evitano l’utilizzo del numero tredici, come gli hotel che lo escludono dai loro piani o gli aerei che non hanno una fila tredici.

Esiste addirittura una fobia per questo numero, ovvero la Triskaidekaphobia o Triscaidecafobia: alcuni studiosi fanno risalire questa paura a Giuda Iscariota, il tredicesimo apostolo ad arrivare all’ultima cena. E dunque oggigiorno a tavola si aggiunge un coperto in più quando si è in tredici o si aumenta l’attenzione il venerdì tredici o diciassette.

 

Ma scorrendo le pagine, il romanzo esplicita alcuni rituali folkloristici risalenti in special modo ai popoli meridionali.

 

«Una sera vide la nonna mettere nella serratura della porta una testa d’aglio pronunciando a bassa voce una litania. «Accussì non trasunu…va curcati», aveva detto a Paolo. E la notte trascorse tranquilla. Quel gesto era riuscito a infondergli un senso di sicurezza e di protezione. La nonna sapeva quello che faceva, era così precisa e determinata nell’agire che anche quel piccolo rito li avrebbe difesi per molti anni dal maligno.»[25]

 

Esiste tutta una tradizione sulla pianta d’aglio, interpretato solitamente come energia che allontana l’influenza maligna o rimedio contro il malocchio e gli spiriti cattivi. Anche in questo caso la cultura dei popoli antichi ha profondamente influenzato quella dei contemporanei.

L’allium sativum, appartenente alla famiglia delle Gigliacce, è considerata una pianta infera. Gli Egizi, in particolare i cultori di Sokar,[26] si adornavano di ghirlande d’aglio e cipolla. I faraoni e i sacerdoti invece evitavano l’uso di queste piante, poiché le consideravano “sgradite agli dei”.

Da qui parte la lunga tradizione dell’aglio come nutrimento per i demoni. E così la leggenda islamica narra la nascita della cipolla e dell’aglio dalle impronte del diavolo e la tradizione popolare, al contrario, ritiene questa pianta garante da ogni maleficio. Esso è detto “uccisore di mostri”, tanto che gli avi ritenevano opportuno indossare una testa d’aglio sotto la camicia insieme ad altre piante come l’artemisia. Tale amuleto proteggeva dal vagabondare di demoni e streghe.

Essendo una pianta del sottosuolo e dunque del regno degli inferi – possiamo inserire l’aglio tra gli elementi del regine notturno di Duran – simboleggiava le energie telluriche positive.

Ulisse, nell’Odissea, si salva insieme ai suoi compagni grazie all’allium moly consegnatoglielo da Hermes,

 

«Mi porse il farmaco, dalla terra strappandolo e me ne mostrò la natura. Nero era nella radice e il fiore simile al latte. Gli dei lo chiamano moly e per gli uomini mortali è duro strapparlo: gli dei però possono tutto.»[27]

 

Nel Medioevo l’accezione demoniaca dell’aglio assume rilievo, tanto che i contadini esponevano nelle loro case una corona d’aglio per tenere lontani gli spiriti malvagi, i sortilegi e i demoni.

 

«Grazie al potere dell’aglio, pianta dalla radice nera e dal fiore bianco, l’uomo si svincola dalle potenze tenebrose nelle quali egli sa che anche la sua radice è immersa, egli è una progenie celeste che sol suo fiore, il suo io spirituale, si schiude verso l’alto, bianco come latte puro.»[28]

 

Hugo Rahner nel suo studio fa risalire la credenza che l’aglio allontani il male proprio al mito di Circe e Ulisse. La prima, interpretata come daimon, viene sconfitta dall’eroe greco grazie alla pianta d’aglio, tanto da essere definita nella tradizione come “mezzo di difesa dotato di poteri magici” o nella storia cristiana dei simboli come “fiore salutare per l’anima”.

Questo concetto è ben utilizzato da Migliaccio Spina che porta alla luce strati profondi, antichi e nascosti della soggettività umana costantemente presenti nelle profondità della civiltà. Nella psicoanalisi si parla di «scoperta dell’inconscio, nella storia delle religioni di «sacro», mentre per l’antropologia si tratta di una «cultura primitiva», magica e rituale, arcaica, ma ancora incastonata nella realtà.[29]

Questi temi, che ossessionano le scienze umane, sono fortemente presenti all’interno di Coraìsime. Ernesto de Martino, considerato uno dei più grandi filosofi e antropologi italiani, si relaziona perfettamente col mondo di Migliaccio Spina, soprattutto nella trattazione della magia.

Nel suo libro Il mondo magico, egli vede nella magia il nucleo principale che mette in discussione le nostre categorie di pensiero. L’assenza o l’illusorietà della magia, in questo caso l’aglio posto all’uscio della porta per allontanare il male o le Corajisime che lo assorbono, mantiene un rapporto serrato con la realtà. De Martino pensa che la civiltà arcaica, da cui tutto è partito, abbia dovuto affrontare un «problema storico» tipico del problema della «presenza».

Presenza, nel linguaggio di de Martino, vuol dire “autonomia del sé individuale”. Essa è una categoria all’interno della quale l’intenzione del filosofo era sviluppare il tema dello storicismo di Benedetto Croce, tramite studi interdisciplinari, ovvero l’etnologia, la psichiatria e l’etnopsichiatria.

Il focus di de Martino è questo: non bisogna cogliere solamente il carattere storico della realtà, ma è necessario riconoscere che la stessa “presenza umana” è un prodotto della storia. Anche E. Paci, nel suo Dasein evidenzia l’espressione “essere presenti nel mondo” e quindi il rapporto tra il mondo e il proprio essere.

Nel mondo, il rito magico rappresenta una protezione rispetto alla labilità della presenza. Il rito sostanzialmente serve ad oltrepassare il momento di crisi: ed ecco che la nonna di Paolo pronuncia le parole «Accussì non trasunu…va curcati» esorcizzando, tramite il gesto rituale dell’aglio la crisi esistenziale che la colpisce, che colpisce la sua paura del non-esserci.

La magia dunque non è più superstizione, ma diviene un aspetto costruttivo della soggettività umana.[30]

La crisi esistenziale, in Coraìsime, così come in generale, minaccia anche la società moderna, influenzando, non solo i singoli individui, ma anche e soprattutto le comunità intere.

Così come de Martino concentra la sua attenzione sui paesi del Mezzogiorno d’Italia o come li definisce lui «le plebi del Mezzogiorno» per studiare ancor più da vicino le credenze magico-religiose e le pratiche rituali profondamente radicate nella vita quotidiana, è possibile individuare in Coraìsime il rapporto con la morte, la «bassa magia cerimoniale» come gli scongiuri, la credenza nel malocchio e nelle fatture.

E qui ritorna, echeggiando le radici arcaiche della terra calabra, l’altra opera di Migliaccio Spina, Malanova, storia d’amore e magia, in uno forte legame con Coraìsime. Il primo è un lungometraggio, ma il filo conduttore che tiene stretto il rapporto tra queste due arti – cinema e scrittura – è proprio lo studio antropologico celato dietro le vicende di un popolo antico, che porta con sé gli strascichi, ben saldi nell’individuo, di una tradizione affascinante, di credenze popolari, riti magici, religiosità e lotta tra il bene e il male.

Quest’ultima contrapposizione si fa evidente nel romanzo ed emerge in particolare nel periodo più aleatorio della tradizione religiosa calabrese, la Quaresima.

 

«Le aveva viste da bambino fuori dalle case in campagna. Appese per un laccio nero. Vecchie bambole mutilate con il viso squagliato dal sole. I capelli uniti in un unico grumo nero avevano superato inverni e lunghe piogge estive. Ad alcune mancavano gli arti, erano solo una testa e la parte superiore del busto […] Le chiamavano coraìsime e tenevano lontano il maligno […] Stavano a difesa della casa con i loro volti sfigurati dal tempo e gli abiti stracciati di chi lotta col buio. La tenevano al sicuro dagli uomini senza testa. Non avevano il potere di sfidare le coraìsime rese invincibili dal sangue d’un pollo e dagli sputi di una donna gravida.»[31]

 

Mettendo da parte lo scopo principale di tenere lontani gli «uomini senza testa» che rappresentano quel male oscuro avido di altri uomini, entra qui in gioco quella “bassa magia cerimoniale” di un’umanità storicamente e socialmente situata.

I calabresi sono figli di una delle civiltà classiche più ricche di tutta la storia antica. I riti pagani della Grecia hanno attraversato secoli di storia, fino ad approdare nelle coste calabresi e insinuarsi tra i vicoli della popolazione.

Il rito delle Coraìsime o meglio Corajisime o Curemme o ancora Quarijisime o Quaremme – a seconda del dialetto sviluppatosi nelle varie zone della Calabria – affonda le sue radici in una storia affascinante, risalente al mito di Dioniso e poi di Demetra e Persefone (Cerere e Proserpina per i Romani).

Queste bambole, che ricordano in qualche modo i piccoli fantocci vudù, vengono effettivamente appese alle porte delle case con lo scopo di allontanare il male dalle persone che le abitano. Le bambole, che qui chiameremo Coraìsime per riprendere il titolo del romanzo, spuntano fuori solo durante la Quaresima ed è un’usanza molto sentita nelle zone di Girifalco, Placanica, Caulonia, Bova, San Florio o Briatico,[32] comunque in gran parte della Calabria e del Meridione in generale.

La creazione di queste bambole segue dei processi ben precisi: indossano i colori del bianco e del nero, in segno di lutto; tengono in mano una conocchia e un fuso con della lana; sotto il vestito viene inserito un limone (ma anche una patata o un’arancia, sempre a seconda delle zone) e al frutto vengono inserite sette penne di gallina, sei bianche e una nera o colorata. Il limone «rappresenta il sesso femminile, le sette penne l’interdizione temporanea al rapporto sessuale, il periodo dell’astinenza quaresimale».[33] Ogni domenica quaresimale viene tolta una penna bianca fino a giungere all’ultima, quella nera o colorata. Questo gesto scandisce lo scorrere del «tempo di magra» cioè la Quaresima, che segue il «tempo grasso» ovvero il Carnevale, fratello, a volte marito, della Quaresima. Secondo la tradizione, durante le sette settimane non si potevano mangiare dolci, spazzare a terra o pettinarsi i capelli.

Come già accennato, questi riti sono il frutto di antiche tradizioni pagane, legati in particolar modo ai riti della natura, al ciclo delle stagioni e al mondo sotterraneo dove la vegetazione muore in inverno per risorgere in primavera.

Avevamo già parlato, nella prima parte del saggio, del destino tripartito e ciclico della vegetazione spiegato da Mircae Eliade.

Tale concetto ritorna nel suo aspetto religioso e divino: gli studiosi parlano di “religione neolitica”, ovvero il momento in cui l’uomo si rende conto del “miracolo della riproduzione, fertilità e maternità”. Non per nulla quindi la prima protagonista della religione neolitica è proprio la Dea Madre Tellurica, dietro la quale si cela l’archetipo della terra. Essa è domatrice di vita, ma è anche padrona di morte: l’utero della terra ha un doppio potere, in quanto nelle stagioni fredde riprende la vegetazione nel suo grembo.

La vegetazione perciò viene essa stessa divinizzata, tanto da acquisire la funzione di Dio Sposo in quanto penetra, durante la stagione fredda, l’utero della terra col suo seme. Ed ecco che si crea la ciclicità vegetale: morte-penetrazione-fecondità-vita.

Ma la funzione pagana del rito delle Coraìsime è legata anche al culto dionisiaco.

Dioniso o Bacco per i latini è il dio della vegetazione e della fertilità, dell’uva e del vino e quindi dell’eccesso e dell’esaltazione, «favoriva la dissolutezza dei fedeli […] sconvolgeva leggi, costumi e gerarchie sociali: unico fra gli dei ammetteva donne e schiave ai suoi riti.»[34] E sono proprio le donne, le menadi, le protagoniste dei riti dionisiaci, coloro che si abbandonavano al ditirambo[35] raggiungendo uno stato di estasi. Lo scopo di questi rituali era collegato appunto al ciclo della vegetazione, «era il temporaneo ritorno dell’adepto ad una condizione naturale».

Il mito di Demetra è legato alla vitalità della natura. Il suo rito ha come punto di partenza il lavoro agrario e la fecondità, come ci viene raccontato da Omero nell’Inno a Demetra. Questa dea era la «tutrice della terra coltivata e delle messi» identificata dagli Etruschi con la dea Vei e dai Romani con Cerere, madre di Persefone nata dalla sua unione con Zeus.

Il culto dunque è strettamente agrario molto diffuso non solo in Calabria, ma anche in Sicilia dove si sarebbe svolto il mito.[36]L’adorazione di Demetra attraversa i vari secoli della storia: Cicerone racconta come gli antichi erano convinti che Cerere abitasse presso di loro «così che mi sembravano non cittadini di quella città ma tutti sacerdoti, tutti abitanti e ministri di Cerere».[37]

Ma facendo un salto temporale di qualche secolo, vediamo che con l’avvento del Cristianesimo, il culto della vegetazione fondamentalmente non ha mai smesso di cessare, anzi perde in parte le fattezze pagane, per acquisirne le cristiane.

E così la Vergine Maria fa il suo ingresso quale protettrice dei campi, dei contadini e dei pastori.

Testimonianza è l’affresco riportato all’interno dell’Eremo di Monte Stella.[38] Qui un quadro ritrae la Madonna Pastorella, incastonata tra la roccia naturale formatasi intorno, la Vergine tiene in braccio il bambino ed entrambi vestono i simboli dei pastori: il cappello, il bastone per il pascolo e il grano. L’interpretazione di questa meravigliosa figura è potenziata dall’antifona Pasce aedos tuos iuxta tabernacula pastorum che si trova ai suoi piedi. Le spighe che il Bambin Gesù tiene in mano alluderebbero invece al monaco Theristis, il mietitore.[39]

Anche il luogo che conserva questo affresco[40] è ammantato dal mistero: secondo la tradizione, la grotta che affianca l’altare è stata luogo di lotta tra la Vergine e il maligno. Dopo giorni di lotta serrata, Maria vince il male e chiede la costruzione del luogo di preghiera in quel punto esatto dove Satana ha perso la sua battaglia.

 

Ma cosa hanno in comune Dioniso, Demetra, la Vergine Maria e le Coraìsime? A prescindere dal culto religioso, ciò che accomuna queste figure è sicuramente la speranza di avere buoni raccolti e quindi la paura che il male possa rendere sterile la terra.

 Nel periodo quaresimale, le bambole di pezza allontanavano il male non solo dalle case, ma anche dai campi. Si parla infatti di riti appartenenti alle classi basse, di lavoratori e contadini che in quelle settimane fermavano il lavoro nei campi attendendo la resurrezione del Cristo e delle vegetazione. E come i contadini attendevano la primavera, così Demetra ridava il vigore alle terre quando Persefone ritornava alla luce, e la Vergine Maria si identifica con i pastori, indossando le loro vesti povere, per proteggerli dal male.

 

                                                                                                            Conclusioni

Il mondo magico riaffiora nel romanzo di Migliaccio Spina sin dal titolo, Coraìsime, un chiaro italianismo, finemente ricostruito all’interno di una cultura rustica, arcaica, plebea che, secondo de Martino deve essere riconosciuta, compresa e integrata in una nuova «coscienza nazionale».

Ripercorrendo le strade dell’immaginario paese dell’Aspromonte, una popolazione è costretta a vivere il cambiamento e la modernità, abbandonando quella vita che arricchiva la società per mezzo del lavoro agricolo e che adesso è spazzata via da «uomini senza testa» i quali, insinuatisi delle viscere della terra, distruggono un universo antico, al di fuori del tempo, per immergerlo in una realtà evasiva, effimera, irrispettosi di un passato glorioso che tuttavia rimane agganciato ai rituali e alle credenze della storia antica.

L’unico ad accorgersi della distruzione sembra essere Paolo il quale tenta una ribellione per tutto il romanzo, senza però trovare una vittoria. Egli, è l’unico sconfitto, poiché al pari di tutti i suoi paesani, non può sfuggire al futuro, positivo o negativo che sia. Se vogliamo trovare un vincitore in tutto il testo, quello è sicuramente Marta, che sceglie una via di fuga concreta. La morte infatti è la sola speranza di sfuggire al cambiamento. Marta non è assolutamente in grado di interagire con il mondo, causa la segregazione nelle casa dei nonni, perciò la morte è la sua liberazione, la luce che la fa sfuggire al mondo delle tenebre.

Il circondario è arricchito da una forte presenza religiosa e folkloristica, con riti magici, superstizioni e credenze risalenti al passato. Questi elementi fuoriescono in tutta la loro potenza dalle scene del romanzo, ammantate di mistero, ma chiarissime sotto la luce della tradizione popolare.

La lunga storia delle popolazioni, che intrecciano religione e paganesimo, tradizione e rituali, riemerge nel popolo calabrese in un fascino assoluto che produce sete di conoscenza, curiosità e approfondimenti antropologici. La cultura accoglie in sé la totalità dell’esperienza umana, essa è un patrimonio intrinseco di un popolo che modella la propria personalità grazie a un bene tramandato da generazione in generazione, da padre in figlio, che da singola persona diviene società, appartenenza comune.

 

 

 

Bibliografia

 

Aurigemma, Luigi

1980 premessa a Gli archetipi e l’inconscio collettivo di C. Gustav Jung, Boringhieri Editore, Torino

 

Alemani, Cecilia

2017 I mondi magici di Ernesto de Martino, Marsilio

 

Cicerone

In Verrem

 

Colonna, Maria Teresa

La morte e il Femminile: i Misteri

 

Eliade, Mircae

1976 Miti, sogni, misteri, Rusconi, Milano

 

Migliaccio Spina, Bernardo

2019 Coraìsime, Rubbettino Editore

 

Nicola, Ubaldo

Riti dionisiaci, Atlante di filosofia

 

Omero

Iliade

Odissea

 

Rahner, Hugo

Miti greci nell’interpretazione cristiana

 

Tylor, Edward Burnett

1871 Primitive culture. Reserches into the development if mythology, religion, art, and custom, London

 

Vallone, Franco

2010 Corajisima. Rituale magico, Calabria ora, Ora esatta.


[1] AURIGEMMA: 1980.

[2]  MIGLIACCIO SPINA: 2019, incipit.

[3] OMERO: Libro XIV, v.246.

[4] AURIGEMMA: 1980.

[5] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.11.

[6] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.14.

[7] MIGLIACCIO SPINA:2019, p.41.

[8] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.41-2.

[9] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.125.

[10] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.127.

[11] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.51.

[12] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.50.

[13] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.61.

[14] MIGLIACCIO SPINA: 2019,  p.129.

[15] Aronia-naturalis.it.

[16] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.129.

[17] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.106.

[18] COLONNA, p.142.

[19] ELIADE: 1976, p.256.

[20] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.132.

[21] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.33.

[22] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.33.

[23] TYLOR: 1871.

[24] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.34.

[25] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.39.

[26] Divinità delle necropoli di Sakkar e successivamente attribuita a Osiride, dea dei morti.

[27] OMERO, Libro X, vv.302-6.

[28] RAHNER.

[29] ALEMANI:  2017.

[30] ALEMANI:  2017.

[31] MIGLIACCIO SPINA: 2019, p.64-5.

[32] Caulonia, Placanica e Bova sono i provincia di Reggio Calabria; Girifalco e San Florio in provincia di Catanzaro; Briatico in provincia di Vibo Valentia.

[33] VALLONE:  2010.

[34] NICOLA, Riti dionisiaci, Atlante di filosofia.

[35] Antica forma di lirica corale greca, sviluppatasi nell’ambito dei riti dionisiaci, a carattere tumultuoso e orgiastico.

[36] Precisamente tra Grecia e Sicilia. Secondo il mito, Persefone viene rapita da Ade, dio degli inferi e Demetra per il grande dolore, dopo aver cercato la figlia invano per il mondo, decide di scatenare sulla terra una lunga carestia, fin quando Ade consente alla sposa di risalire sulla terra, ma solo per sei mesi l’anno, cioè primavera ed estate.

[37] Cicerone, In Verrem, IV, 50.

[38] In dialetto pazzanito “A Stida”, montagna facente parte delle Serre Calabresi, situata nella vallata dello Stilaro, nel comune di Pazzano, provincia di Reggio Calabria.

[39] Monaco italo-greco vissuto il Calabria intorno all’XI secolo nella vallata dello Stilaro. La sua vita è tramandata da leggende e credenze popolari ed è considerato un santo dalla chiesa cristiana.

[40] Una copia della Madonna Pastorella sottoforma di statua si trova anche all’interno della chiesa San Francesco da Paola a Stilo, provincia di Reggio Calabria.

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