La guerra civile fredda della seconda repubblica. Capire il berlusconismo (e l’anti): il saggio di Giovanni Belardelli (L’Occidentale)

del 10 Agosto 2012

Da L’Occidentale – 10 Agosto 2012
La letteratura su Berlusconi e il berlusconismo è, a dir poco, sovrabbondante. Anche lasciando da parte i libri polemici o i tanti lavori di copia-incolla dagli atti giudiziari, che vengono spesso additati (chissà perché) come esempi di “giornalismo investigativo”, non si contano le analisi politiche e para-sociologiche che tentano un inquadramento del fenomeno. Gran parte di questa pubblicistica è di scarso valore, non solo perché mossa da intenti partigiani, ma perché afflitta da un pregiudizio apocalittico. In questo genere letterario, infatti, Berlusconi è l’incarnazione dei vizi italici, il concentrato di tutti i difetti nazionali, l’ultimo avatar delle insufficienze della nostra storia. In sostanza, questo tipo di libri consente, forse, un sano sfogo emotivo agli autori e ai lettori, ma non aiuta quasi per nulla la comprensione degli avvenimenti. Dato un simile panorama va salutato con piacere il breve scritto che Giovanni Belardelli ha dedicato al fenomeno berlusconiano. Pubblicato originariamente sulla “Rivista di Politica”, n.2/2012, il saggio è ora disponibile in una economicissima edizione e-book (Berlusconiani e antiberlusconiani. La guerra civile “fredda” della seconda repubblica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 27, € 0,99).

Opportunamente l’autore non si limita all’analisi del fenomeno Berlusconi, ma lo inquadra in una più generale cornice che è quella del sistema politico e ricomprende anche l’anti-berlusconismo. L’angolazione analitica prescelte, però, non è sistemica, non guarda cioè alle dinamiche del sistema politico e all’influenza che su di essa ha avuto la discesa in campo dell’imprenditore milanese, ma si sofferma sulle culture politiche della cosiddetta seconda repubblica.

Per Belardelli, “la contrapposizione tra berlusconismo e anti-berlusconismo”, che ha caratterizzato la vita politica nostrana dopo il 1994, “ha inghiottito ogni altra cultura politica, obbligando tutto e tutti a definirsi in primo luogo – e spesso unicamente – rispetto a Berlusconi”, p. 6. Posta simile premessa diventa logico esaminare il contenuto di queste culture politiche dominanti per tentare di capire come sono andate le cose.
Il berlusconismo ha al tempo stesso una matrice politica e una antipolitica. La prima si può riportare anzitutto a un’istanza liberale, riassumibile nell’esigenza di ridurre l’influenza dello Stato nella vita dei cittadini, soprattutto diminuendo la pressione fiscale. Tale programma ha incontrato il favore di ceti produttivi che non trovavano ascolto nel precedente regime politico. In questo senso il berlusconismo incarnava una esigenza di modernità. Il fatto che i governi di centro-destra non siano riusciti a venire incontro a queste domande politiche nulla toglie alla giustezza dell’analisi. A questo profilo di rivolta fiscale e di valorizzazione delle virtù d’impresa si aggiunge poi un elemento più tradizionale e solo apparentemente anacronistico: l’anticomunismo. Questa è, infatti, una propensione primaria dell’opinione moderata da sempre diffidente verso una sinistra ritenuta non solo statalista, ma poco attenta alla salvaguardia della proprietà privata e del lavoro autonomo.
A simili istanze vecchie e nuove si aggiunge un carattere che dipende dalla contingenza storica. Nato dalla crisi della prima repubblica e dal rigetto dell’opinione verso le pratiche della partitocrazia, il berlusconismo ha incarnato a lungo una pulsione antipolitica, di rigetto dei partiti tradizionali. Rispetto a questi ingredienti essenziali l’autore ridimensiona di molto l’importanza della comunicazione televisiva. Questa non è la chiave di volta del successo di Berlusconi. Semmai, il “rapporto di filiazione/corrispondenza che il berlusconismo intrattiene con la neotelevisione” esprime solo la peculiare modernità del fenomeno. Una modernità che, avverte opportunamente Belardelli, “si avvia a essere sorpassata, poiché appartiene al mondo analogico e non a quello digitale, del tutto estraneo – anche per motivi anagrafici – alla cultura di Berlusconi”, p. 12.
L’antiberlusconismo viene riportato a tre linee interpretative che, per quanto diverse, hanno un sostrato comune nella configurazione del tutto negativa del fenomeno Berlusconi. La prima interpreta il berlusconismo come un nuovo fascismo, ovvero come un regime autoritario con caratteri peculiari; la seconda lo vede come una dittatura proprietaria, cioè un modo per salvaguardare gli interessi economici personali attraverso la politica; il terzo lo assimila tout court a un fenomeno criminale. Queste tre letture denunciano non solo una scarsa capacità di intendere il berlusconismo, ma anche di capire i mutamenti della società italiana che sono alla base dei successi politici dell’imprenditore milanese. Per spiegare una simile miopia occorre considerare, a parere dell’autore, una ragione più direttamente politica. Queste letture catastrofiche sono servite a dare un’identità a una sinistra che, dopo la caduta del muro di Berlino, attraversava una crisi epocale, accomunando formazioni politiche con progetti e programmi scarsamente compatibili. Tuttavia, il collante antiberlusconiano ha avuto una ricaduta esiziale fomentando, all’interno del centro-sinistra, il risorgere di un male antico “la prevalenza delle posizioni più radicali – massimaliste, intransigenti rivoluzionarie – su quelle riformiste”, p. 22.

Le conclusioni che l’autore traccia se non danno una chiave per intendere gli sviluppi futuri, fissano, implicitamente, un’agenda per tutto il sistema politico. L’anti-berlusconismo, egemone a sinistra, ha portato questa parte dello schieramento politico in un vicolo cieco, allontanandolo da una aggiornata cultura di governo. Nel centro-destra, invece, la prevalenza del berlusconismo non ha segnato una vittoria delle esigenze politiche che erano scritte sulle sue bandiere, mostrando come la promessa rivoluzione liberale sia, purtroppo, ancora lontana.

Di Maurizio Griffo

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