Quando la Loren finì in prigione e disse: «Sono nessuno» (Il Mattino)

di Antonio Manzo, del 2 Aprile 2014

Da Il Mattino del 2 aprile

«Ed ora sopravanzano le cose il loro nome». Il verso di Mario Luzi arriva come una saetta appena si finisce di leggere il racconto di vita – trent’anni, più di un quarto di secolo – della direttrice di un carcere attraverso le storie delle detenute che ha dovuto ospitare. Pagine spesso atroci, con l’incalcolabile peso della sofferenza portato da chi ha in prestito le chiavi della libertà degli altri, ma anche con le righe della speranza che, alla fine di ogni racconto, fanno rintracciare il filo della luce nelle lunghe notti delle celle. Sarebbe stato semplice, per Liliana De Cristoforo, che ha cominciato il suo lavoro nel 1974 a Poggioreale per continuarlo poi a Pozzuoli e Caserta, offrire un solo racconto di trentatré anni di servizio nell’amministrazione penitenziaria. Sì, le sarebbe bastato raccontare le prigioni di Sofia Loren, la detenuta eccellente che dovette ospitare dal 20 maggio 1982 perché inseguita da un ordine di carcerazione: un mese di reclusione per evasione fiscale. Ma non lo ha voluto fare, Liliana De Cristoforo. Perché l’umanità di un carcere è il repertorio delle mille storie di disperazione che spesso si situano all’incrocio tra la vita sospesa, la libertà negata per sentenza e la resa dei conti con la propria storia di errori sempre più celere del calendario dietro le sbarre, che sembra non cambiare mai foglio. Dodici racconti, Donne dietro le sbarre. Da Alfonsina a Sophia Loren per Rubettino editore, sono le storie di un confronto aperto non sull’approssimazione di vite quasi stroncate ma sulla verità di storie. Liliana De Cristoforo le ha raccolte in presa diretta, ora le colloca nel tempo con la data e il luogo, rigorosamente tra parentesi alla fine dei capitoli, come unici indizi verso la prova della verità della cronaca-racconto, non di un romanzo. Storie di violenza familiare, di emarginazione come di presunti affetti che degradano a violenza pura. Cosa accade quando la direttrice di un carcere «firma» l’ingresso di una nuova «inquilina»? Da dove arrivano? A che pensano, oltre che ai giorni, mesi, anni che dovranno trascorrere dietro le sbarre? Per Concetta, finita in galera per un delitto d’onore, reato penale degli anni Cinquanta, c’è la doppia condanna: quella del carcere e quella della società dell’epoca con i suoi parametri di giudizio, incattiviti dai contesti patriarcali se non addirittura padronali per l’altro sesso. Così come la doppia condanna c’è per Alfonsina, la contadina irpina che decapitò con l’accetta il marito violento. Oppure Olga, finita in carcere per camorra, per essere stata l’amante del boss. Non c’è storia che non offra la tentazione di ripescare negli archivi i processi. Sarebbe una scoperta rileggere quei verbali redatti con macchine da scrivere in perdute stazioni di carabinieri e con quel lessico dove spesso l’efferatezza dei crimini non riusciva ad essere tradotta nel lessico della pietà.
Bello e interessante il capitolo sulla carcerazione di Sofia Loren. Perché è anche un autentico spaccato dell’Italia che c’era e, forse, dell’Italia che c’è. La dignità della condannata Loren, dietro le sbarre, è di gran lunga superiore a quella di un «mondo libero» che tenta disperatamente di guardare al di là delle sbarre, colpire la dignità dell’attrice. Si fatica molto a non trattenere un sorriso ironico, ed anche un po’ amaro e beffardo, quando Liliana De Cristoforo racconta la visita-ispezione di un magistrato che aveva letto di presunti privilegi concessi all’attrice in carcere. E vuoi che non scatti una verifica, rigorosa, attenta, arcigna? Il magistrato arriva alla cella della Loren, con il piglio inquisitorio dovuto, poi poggia lo sguardo, e forse anche il volto, tra le sbarre e chiede con lo stesso impeto necessario per l’avvio dell’interrogatorio ad un criminale. «Lei chi è?», tuona il magistrato. Sofia Loren sta leggendo, sobbalza e indirizza gli occhi bellissimi verso lo «Stato». Risponde subito: «Nessuno». La verifica, inevitabilmente, si chiude qui. Pochi secondi, quanti ne bastano per far scattare un supplemento di giustificazione al rigorismo. Il giudice sussurra alla direttrice: «Privilegi non ce ne sono, però mi raccomando non facciamo preferenze». Era il 1982, trentadue anni dopo potrebbe ancora essere la sceneggiatura di un film sulla giustizia all’italiana. Magari, un regalo per i prossimi ottant’anni di Sofia. Insieme alla ristampa di quegli articoli pubblicati da Mimì Rea, proprio sulle pagine de «Il Mattino» dell’epoca. Per Mimì, conoscitore delle storie di vita, da popolana diventata famosa Sofia era finita laddove «c’è un enorme deposito di fratellanza». Sì, il carcere.

Di Antonio Manzo

Clicca qui per acquistare il volume al 15% di sconto

Altre Rassegne