Addio alla scrittrice Marisa Fenoglio, che ci ha narrato la sua vita in Germania, la sua famiglia (con il fratello, il romanziere Beppe) e l’azienda in cui lavorava suo marito (giannellachannel.info)

di Salvatore Giannella, del 1 Dicembre 2021

Da tempo scruto il mondo con particolare interesse agli italiani che hanno lasciato o lasciano un’impronta in terre lontane. Per questo ho saputo con grande dispiacere dall’Associazione Italia Altrove di Dusseldorf, in Germania, del lutto che colpisce la famiglia Fenoglio: domenica 28 novembre si è fermato per sempre il cuore di Marisa Fenoglio, 88 anni, donna esemplare che si autodefiniva “moglie, madre, suocera e nonna, a tempo perso corista e scrittrice”. Poi aggiungeva: “Sorella cadetta di Beppe Fenoglio”. Si era scoperta scrittrice nella maturità, quando suo fratello era “morto da 32 anni”, come amava puntualizzare.

Il ritratto della famiglia d’origine è ben delineato da Piero Negri, sulla Stampa: “Marisa era l’unica femmina e la più giovane dei tre fratelli Fenoglio, tutti notevoli e tutti spuntati come per incanto in un ambiente apparentemente poco propizio, la piccolissima borghesia di una piccola città del Piemonte profondo com’era la Alba nel primo Novecento. Beppe, lo scrittore perlopiù postumo, che di giorno lavorava come impiegato in una cantina, è morto a 40 anni nel 1963. Walter, che fece un’ottima carriera alla Fiat e trascorse gli ultimi anni di vita a ripensare al fratello e a raccontare il complesso rapporto che lo legava, è mancato nel 2007 a 84 anni”.

Marisa tornava ad Alba sempre volentieri (l’ultima visita la scorsa estate, con i figli Alberto, Silvia e Paolo): viveva lontano dal 1957 quando il marito, Giuseppe Faussone, fu inviato dall’imprenditore Michele Ferrero in un borgo nelle foreste dell’Assia, a Stadtallendorf, non lontano da Marburg (dove Marisa si è spenta) per trasformare una fabbrica di armi naziste ai tempi di guerra nello stabilimento della nascente Ferrero Germania.

Nel libro Vivere altrove, dedicato ai migranti, Marisa racconta che la proposta le fu fatta il giorno stesso delle nozze da Michele Ferrero in persona, che era uno dei suoi testimoni: “Signora Faussone, vorrebbe andare in Germania con suo marito?”. Di quel libro, stampato da Sellerio nel 1997 e riproposto da Rubbettino nel 2019, diamo qui di seguito alcuni brani che illuminano le doti di una donna di talento, destinata a un lungo cammino di avvicinamento affettuoso alla terra e alla cultura tedesca, approdo paradossale per una ragazza cresciuta in un tempo che i tedeschi li temeva e li considerava nemici. (S.Gian.)

L’incipit

Vivere altrove è un libro ampiamente autobiografico. Racconta i miei primi trent’anni di Germania. Sono stati anni importanti, irripetibili, forieri di un futuro sconosciuto, e gravidi di un passato che non conta più. Una dura scuola di vita, che dopo un lungo tirocinio mi ha ributtata fuori altra, diversa, nuova.
Vivere altrove è la storia della mia integrazione, del mio bisogno di appartenenza a un luogo a me alieno, della ricerca di una nuova patria, dapprima respinta, poi cercata, sognata, trovata. Ma soprattutto è la mia storia di donna trapiantata in Germania, che all’improvviso butta lo sguardo su un altro mondo, su un’altra storia, sinistramente grande, quella del popolo tedesco.
È con gli occhi di me giovane che il lettore si inoltra nel passato e nel presente postbellico della Germania: un punto di vista eccentrico, privilegiato, in grado di captare i piccoli dettagli del quotidiano tedesco, ma anche le grandi risorse di un paese che sa rinascere dalle sue macerie. Mai avrei potuto perdonarmi di non aver scritto la mia storia. È importante raccontarsi, ed è importante leggere chi di sé ha raccontato. Ignoti quasi non nati.

Il campanello di casa

Per molto tempo a Niederhausen, nostro primo domicilio, non andai a un matrimonio, né a un funerale, né a un battesimo. Sembrava che in quel paese nessuno nascesse o morisse o si sposasse, che non capitasse nulla, né di bello né di brutto. Dipendeva da me che ero l’ultima arrivata e non parlavo una parola di tedesco. Andavo per le strade e non c’era uno che mi salutasse, che mi sorridesse, che avesse conosciuto mio padre o mia madre, che avesse in comune con me un solo, unico ricordo. Potevo anche inventarmi una nuova identità e nessuno se ne sarebbe accorto.
A Niederhausen arrivai a suonarmi io stessa il campanello di casa per sentire come avrebbe suonato se mai qualcuno fosse venuto a trovarmi: una voce nota sulla mia porta, qualcuno dei miei che fosse passato di lì, semplicemente, per raccontarmi qualcosa, qualunque cosa, si fosse seduto sul sofà e avesse giocato coi miei bambini… Con loro ho fatto da nonna, da zia, da cugina. Quelle vere le hanno viste raramente. Chi parla male della parentela non è mai stato all’estero, intendo per restarci.

Da cantiere depresso a futuristico centro industriale

Quando ci arrivammo noi, nel 1957, era un piccolo paese rurale, di una ruralità fatta di boschi di prati e di campi di patate, che cercava di far dimenticare al più presto di essere stato, durante la guerra, sede di fabbriche di munizioni tra le più grandi del terzo Reich, scoperte dagli americani solo a guerra finita e fatte saltare in aria. Un paese sprofondato da secoli nella nicchietta di uno dei suoi prati che adesso, per un colpo di fortuna – per chiamare così una politica di agevolazioni fiscali atte a rivitalizzare la zona depressa – stava mettendo su i panni di un futuristico centro industriale.
Anche la ditta italiana in cui lavorava mio marito, intenta a espandersi a nord delle Alpi, aveva risposto agli appelli di quel lontano governo regionale, e vi si era insediata insieme a una miriade di piccole scattanti industrie tedesche. Gli allettamenti fiscali avevano fatto preferire quel posto a mille altri. A sentire coloro che stavano all’apice organizzativo, sembrava che fosse l’unico in tutta la Germania per fondare e costruire qualcosa di grande. E i fatti gli diedero anche ragione.

Nel giorno delle nozze

La Germania mi aspettava al varco il giorno delle mie nozze. In mezzo a una piccola folla di amici e parenti si era fatta strada la voce di uno dei testimoni di mio marito. Era il suo datore di lavoro, colui che per l’azienda di famiglia aveva in mente grandiosi piani di espansione europea. Me li presentò così, all’uscita dalla chiesa, con la gente sul sagrato: “Signora Faussone, vorrebbe andare in Germania con suo marito?”.
La prima volta, pensando che la cosa non mi riguardasse, non risposi e lui ci riprovò. La seconda si estrapolarono otto lettere: «Germania». Qualcuno, era indubbio, pronunciava quella parola riferendola in modo inequivocabile, anche se inspiegabile, alla mia persona: ma lo stesso effetto mi avrebbe fatto sentir parlare di Norvegia, Groenlandia, Marte o Saturno… E poi quello stesso qualcuno si rivolgeva a me chiamandomi… non era strano?: Signora Faussone!… Ma non era la madre di mio marito? No! Ero io, per la prima volta in assoluto, il mio nuovo cognome e l’appellativo comprovante il mio nuovissimo status.
Le parole suonavano bene, si abbellivano a vicenda, mi sarei chiamata così per tutto il resto della mia vita! Strinsi il braccio al mio sposo. Mi guardò divertito, troppo divertito per non sapere.
Eravamo in pieno sole e io strizzavo gli occhi, stordita, abbagliata: Signora Faussone! Difronte alla solarità di quelle due parole, alla loro inalienabile italianità e inconfutabile aderenza al suolo piemontese, quel mucchietto di lettere, «Germania», impallidì miseramente. La pienezza della vita mi aspettava nella mia città, qui sarebbero nati i miei figli, qui li avrei mandati a scuola. Germania? Cosa poteva significare in quel momento, sulla mia piazza, tra la mia gente riunita a farmi festa? Un paese lontano, una parola vuota.

La copertina di Vivere altrove di Marisa Fenoglio. Pubblicato in prima edizione da Sellerio nel 1997, è stato riproposto da Rubbettino nel 2019. Pag. 196, euro 13,30 (7,59 come Ebook). Il libro racconta l’approdo in Germania negli anni ’50 di una giovane sposa al seguito del marito, dirigente d’azienda lì trasferito per sviluppare la filiale della casa madre piemontese. È la lente d’ingrandimento di tutte le difficoltà e i dilemmi che incontro l’italiano/a che emigra: lo sradicamento, la messa in crisi della sua identità: “Dove nessuno ti conosce, tu puoi essere chiunque”.

Il baule da emigrante

Intanto io facevo richiesta per il passaporto, andavo a comprarmi un baule – con gli stipiti rinforzati da falso ottone come quelli degli emigrati che partono per l’America – e ci mettevo dentro il corredo. Era tutto inverosimile, in più una sensazione nuova e sgradevolissima: quella di sentirmi ormai provvisoria, straniera in patria, già tagliata fuori dalla mia città, come se anche i muri, i portici, le botteghe sapessero che non sarei più passata di lì, non avrei più sentito le loro storie, non ne avrei più condiviso il futuro.
I regali di nozze, le tende, il copriletto, cento altri oggetti giacevano inutili, vacanti nella mia casa di ragazza, in Piazza Rossetti, defraudati della loro sede primigenia, il nostro alloggio da sposi, quello per cui erano stati scelti, misurati, confezionati.
Il guardaroba di una lunga estate doveva essere sostituito alla svelta con indumenti pesanti, che tenessero caldo, e soprattutto con scarpe solide e robuste. A detta di tutti la Germania era terra di clima rigido e di strade scomode e impervie.
Ancor prima di partire ero già in marcia solitaria verso quel mio «altrove», per il quale coloro che restavano non provavano il minimo interesse. Se una qualche dettagliata carta geografica del centro della Germania avesse voluto menzionarlo, quel luogo sarebbe stato un puntino infinitesimale all’incirca cento chilometri a nord di Francoforte. Ma nessuna carta fu mai così dettagliata da segnalare quel puntino infinitesimale, almeno ancora per qualche decennio.
Una cosa era certa: se il mio sposo se ne andava dall’ Italia, nessuna forza al mondo mi avrebbe trattenuta in patria. Una cinquantina di parenti e amici, un’intera amatissima città, un giovane passato, non valevano il richiamo di una sola persona. La sua decisione mi aveva colta in uno di quei fugaci momenti in cui per amore si fa tutto. I dubbi dei parenti non mi sfioravano, e il primo viaggio con mio marito lo avevo atteso addirittura con frenesia.
Ma la frenesia, si sa, è uno stato d’animo destinato a durare poco, tanto quanto era durato quel primo viaggio, preludio di una serie infinita.
Dall’oggi al domani, mi trovai a far parte della schiera di coloro che emigrano, che alla fine degli anni Cinquanta lasciavano la stazione di Milano carichi di valigie di cartone e pacchi legati col cordino: italiani piccoli di statura, neri di capelli e di pelle, a me estranei come i tedeschi che avrei incontrato alle stazioni successive. Gente che aveva dovuto o voluto emigrare.
Improvvisamente anche io ero salita, all’inizio con tante brutte valigie e il mangiare di mia madre nella sporta, su quei frusti vagoni in partenza da Milano per il Nord, congedati alla famigliare da un fischio di ferroviere, e scodinzolanti ancora per un bel po’ sul groviglio di rotaie che si dipana dalla Stazione Centrale.

Una fabbrica come romanzo

Dopo qualche anno la fabbrica assunse dimensioni tali da eliminare, in me, ogni senso di appartenenza. Ci andavo solo più in determinate occasioni. Erano i giorni in cui in ditta approdavano – con grande spiegamento di autisti e di Limousinen – ospiti illustri, capi di altri colossi d’industria, uomini politici, diplomatici, burocrati di alto livello, in compagnia delle loro consorti.
A queste venivo intruppata su espresso volere dei piani più alti della gerarchia, per l’occasione fermamente intenzionati a dare di sé un’immagine aperta e famigliare. Ci andavo anche così, perché, finché sono stata a Niederhausen, le consideravo le «mie» occasioni. E non solo di mondanità – avevo un fisico fatto apposta per incontri ufficiali, che solo gli invidiosi potevano definire, riduttivamente, dekorativ. Soprattutto perché erano gli unici momenti per osservare da vicino quel mondo, per capirne l’essenza, i segreti, il funzionamento, e tornarmene poi a casa con materia da pensare per dei mesi.
Provavo per la ditta un interesse insaziabile, di quel tipo che spesso nasce dalla solitudine o dall’osservazione, da una zona d’ombra, di vicende intense e variabili, a cui non si può partecipare attivamente. Quello che vi vedevo era una storia di uomini, un romanzo in divenire, con protagonisti, comprimari, comparse, vincitori e vinti. Come nel cielo, c’erano le stelle fisse, i pianeti, le meteore, le galassie nebulose… tutti ruotanti attorno al sole, un sole lontano, bizzoso, onnipotente, geniale. Un universo con leggi e passioni proprie, esonerato da identificazioni nazionali, occupantesi esclusivamente di sé o di altri universi in concorrenza, impassibile a tutto ciò che capitava al resto dell’umanità: il sessantotto, i disordini nelle scuole, le brigate rosse, attentati, sequestri, guerre vicine o lontane… Reso invulnerabile da quei milioni di persone che qualunque destino incombesse, qualunque cosa capitasse di pubblico o di privato, avrebbero continuato a comprare Pralinen, a mangiare Pralinen, a regalare Pralinen, sempre e ovunque, con una soddisfazione effimera, ma ripetibile, rinnovabile, a piacere, a volontà, all’infinito.

Le visite in fabbrica

Il programma prevedeva che dagli uffici si andasse poi in corteo a visitare la fabbrica. Gli ospiti illustri, già un po’ meno complimentosi, davano segni di leggera svogliatezza, alcuni avrebbero anche fatto a meno di entrare nella pancia della balena. Ma ci pensavano gli «addetti alla guida nei reparti», con un tallonamento continuo, a stuzzicarli, a confortarli, a impedire che cadessero in letargo.
La fabbrica aveva superato di mille leghe tutte le consorelle stabilitesi a Niederhausen ai tempi delle agevolazioni fiscali. E per chi lo volesse le visite potevano durare anche parecchie ore.
Gli addetti erano un genere specifico, nato dalla necessità di illustrare a un numero sempre crescente di persone come funziona una fabbrica. Nella fattispecie una fabbrica italiana in Germania.
Casalinghe, scolaresche, pensionati, militari, mutilati di guerra e civili, associazioni musicali, religiose, assistenziali, ecologiche, tutti volevano la loro visita. Nulla di più interessante che venire a sapere come si produce un genere voluttuario di quella qualità, in quella quantità, con quelle sceltissime materie prime, con quei modernissimi impianti automatici. Solo della pralina X: cinque milioni al giorno!
Solo della barretta Y: sette milioni! E constatare in quale considerazione viene tenuta da un management italiano la freschezza di un prodotto per il mercato tedesco.
Oltre cento camion al giorno per la distribuzione! Il quale management pur di garantire al consumatore quella incomparabile freschezza non rifugge dal bloccare la produzione nei mesi estivi. Significa, detto alla tedesca: mordersi nella propria carne! Cose mai viste! E poi ordine, pulizia, igiene. Quel mammut mandava in visibilio i tedeschi, alle loro antiche virtù si aggiungevano gradevolezze altrui. E tutti indistintamente, come devoti pellegrini, portavano omaggio al miracolo compiutosi sotto i loro occhi (tanti la visitavano per l’ennesima volta) nel giro di pochi anni, consapevoli di trovarsi difronte a una cattedrale dell’alta tecnologia, sorta per imperscrutabile disegno umano su un terreno boscoso, in uno dei posti meno spettacolari, meno gloriosi, meno predisposti di tutta la Germania.

Trasloco in città!

Un bel giorno e in men che non si dica, ci trovammo ad abitare a Marburg, a 25 chilometri dalla originaria Niederhausen. Una coppia di conoscenti che si trasferiva nel nord della Germania aveva messo in vendita la sua casa. La visitammo, ci piacque, affare concluso. Fu tutto semplice, facile, naturale.
Il trasloco a Marburg fu un viaggio trionfale. A chi ha abitato a Niederhausen, dopo piace dappertutto. Avevo fame di città, adoravo ogni città senza distinzione, portavo gratitudine al paesaggio urbano per sé stesso, alla consistenza delle sue case, al suo traffico, alla sua moltitudine, al fatto di essere opera dell’uomo, l’antitesi del bosco. Italiani o tedeschi non mi importava più niente. Gente volevo, popolo, umanità, da contrapporre al muto esistere vegetale. Io avevo sempre invidiato chi vive davanti a grandi architetture.
La città di Marburg è antica, nordica, gotica e protestante. La nostra casa, costruita prima della guerra, si affaccia da metà collina sul panorama della città, anzi – estrapolata l’immancabile crescita degli ultimi anni – sul panorama della quintessenza di una città: un archetipo, una città come la si può sognare, come la si disegnerebbe a un bambino per fargli vedere come deve essere nella sua ideale essenzialità.
Sulla cima di una verde altura si metta un antico castello, con torrioni, archi, casematte e contrafforti; sul pendio, digradanti e fitte, piccole case coi tetti di ardesia e le pareti coi travi di legno in bella vista; su una piazzetta in salita si collochi un arcigno palazzotto medievale a far da municipio; si sparga qua e là un campanile, un convento, alcuni nobili edifici scolastici; a valle si dia posto a una severa chiesa gotica con due cuspidi aguzze, a cui si abbarbicano le nebbie del mattino; ai piedi si faccia scorrere un tranquillo piccolo fiume, liscio come un olio, sul quale i salici piegano i loro rami fino a bagnarne le fronde. Ecco la città di Marburg!

Il tedesco folgorato da una biblioteca in Romagna

«Il tempo ha lavorato per la Germania, a mia insaputa, forse mio malgrado… Ormai sappiamo tutto di questo paese, e sempre meno dell’Italia… L’ Italia è lontana, come su un altro pianeta… Sono stati i miei figli, quando hanno frequentato le scuole superiori… mi hanno portato la Germania in casa. Tedeschi i primi amori, i primi libertinaggi, tedesche le prime discussioni, anche se a casa nostra coi loro amici mangiavano spaghetti e bevevano barbera. Io sono salita sul carro dei figli.
Per i loro compagni ero ancora italiana abbastanza da potermi permettere sfoghi e ramanzine, emozionalità che alle loro madri non avrebbero perdonato… Noi italiane abbiamo questa fama all’estero: di essere “mamme” apprensive, ficcanaso, un po’ isteriche, troppo innamorate dei figli, ma ottime cuoche. Io, in gran parte, gliel’ho confermata».
Così parlavo con il mio vicino di tavolo, durante uno di quei pranzi, cosiddetti ufficiali, di cui negli anni ho fatto una piccola esperienza. Quelli i cui inviti arrivano settimane prima, il menu è vagliato dalle direzioni della ditta e del ristorante a cinque stelle in cui si svolge, i posti a tavola sono assegnati dal protocollo, ogni due invitati c’è un cameriere impalato, si fanno brindisi, si mangia squisitamente. E dai quali pranzi io mi alzo contenta se anche la conversazione è stata all’altezza della gastronomia.
A quei pranzi si incontra di solito il genere di tedesco umanista, di buone letture, amante dell’Italia. Spesso ci viene già incontro con sulle labbra una dichiarazione d’amore: «Ich liebe Italien!»,
Lo fa da tedesco, senza riserve, per un desiderio di assoluto, sordo a qualsiasi tentativo di ridimensionamento della sua passione. A me questo tipo di tedesco all’italiana, che dell’ Italia ama tutto, anche le incongruenze e i ritmi esacerbati, piace. L’ho sempre pensato disponibile, non tutto d’un pezzo, meno tedesco del tedesco che ama la Francia, che si crede «ein besserer Franzose». I racconti dei suoi viaggi sono racconti di vittorie, di aggiramento di ostacoli, di libertà prese e godute: ha scoperto il piacere dell’improvvisazione, l’ebbrezza della trasgressività.
Riferisce i suoi impatti col traffico italiano non come uno scampato pericolo, come fanno quelli tutto d’un pezzo, ma come una prova entusiasmante, liberatoria, che lo ha affrancato dalla schiavitù del regolamentato traffico patrio. E conosce la nostra storia dell’arte da farci ogni volta vergognare. Il mio vicino per esempio aveva appena raccontato di essere stato di recente a Cesena.
«A Cesena?»
«Sì, vicino a Cesena! Appositamente, per vedere una biblioteca medioevale, in una basilica nella cui abside al posto dell’altare c’è un vecchissimo leggìo. Pensi, il libro al centro della Verehrung… e prima, molto prima della scoperta della stampa!»
Era un piacente brizzolato signor banchiere, già incontrato in altre occasioni, una di quelle ex belle facce di buona e distinta razza, i modi corretti del funzionario, lo charme dell’uomo di mondo che non cessa di godere dell’eterno femminino.
Anni prima avrei cercato accanitamente sul suo viso i segni di un passato nazista. Adesso quel viso, per infinita sovrapposizione di immagini, mi era famigliare. Avevo anche smesso di cercarlo, il nazista. Quello che dice «Sì! Lo sono stato», io non l’ho ancora incontrato. Sembra che non sia mai esistito. Senza contare il tacito patto di non belligeranza che vige in quegli ambienti.
L’aria da «nazideutsch» è sparita dalle facce dei tedeschi. Negli artefici della rinascita postbellica la marzialità ha lasciato il posto ad atteggiamenti franchi, rassicuranti, da mondo in mano ad abili e oneste mani, traspiranti da una freschezza di carnagione, da un’opulenza di forme che sono il corrispondente individuale della salute della macchina pubblica; in altri a una fierezza nervosa, di incontentabile natura, troppo coscienziosa per dimenticare quanto ancora resti da fare.

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