Chi sono i terroristi suicidi? (Doppiozero.com)

di Marco Belpoliti, del 24 Marzo 2016

Da Doppiozero.com del 24 marzo

Qualcuno ricorda il nome di Ahmad Al Mohammad, il suo viso, appena incorniciato da una barba rada, il bel volto di ragazzo? E Bifal Hadf, vent’anni, cappelli ricci e radi peli sul mento, chi è? E Mohammed Al Mahmoud, faccia triste nella foto, ma così giovane anche lui? E ancora: chi sa qualcosa di Ibrahim Abdeslam trentenne francese, barbetta e occhi scuri? O di Salah Abdeslam volto tondo, sguardo ambiguo, di anni 26? E infine chi conosce Abdelhamid Abaaoud, il più sbarazzino di tutti, sorridente, cappello di cotone in testa, quasi un rapper? Se non li ricordate: i primi tre sono quelli che si sono fatti esplodere vicino allo stadio; degli altri tre: uno si è fatto esplodere a Boulevard Voltaire, uno è scappato ed è stato preso, il terzo è stato ucciso in un blitz a St Denis. I loro nomi sono legati all’assalto al Bataclan, alla strage nei ristoranti, allo stadio di Parigi. In poco tempo anche i nomi degli uomini che spingevano il carrello all’aeroporto di Bruxelles, quelli con il guanto, sono stati identificati. Perché l’hanno fatto, perché lo fanno, perché lo faranno ancora?
Secondo gli studiosi del fenomeno del terrorismo suicida – di questo si tratta – non esisterebbe una teoria in grado di spiegare in maniera esaustiva le cause di queste campagne. A leggere i libri dedicati all’argomento, ad esempio quello di Francesco Marone, La politica del terrorismo suicida (Rubettino 2013), non c’è neppure unanimità nel definire il terrorismo in generale. Si adotta una definizione di parecchio tempo fa di Raymond Aron: “è detta terroristica un’azione violenta i cui effetti psicologici sono sproporzionati rispetto ai risultati puramente fisici”. Il terrorismo suicida si differenzia per il fatto che associa la volontà di morire alla volontà di uccidere nel medesimo atto. Diego Gambetta, uno dei maggiori studiosi del fenomeno (il libro da lui curato è Making Sense of Suicide Missions, Oxford University Press, 2006), ricorda che se in una missione suicida gli attentatori sopravvivono, la si può considerare fallita. Quasi un paradosso: la morte delle vittime è un fatto contingente che può verificarsi, oppure no. È stato calcolato che un terzo degli attacchi suicidi di palestinesi non ha raggiunto lo scopo di uccidere altre persone, nonostante la morte dell’attentatore. Chi compie queste azioni sa perfettamente che la sua morte è la chiave di volta del successo dell’attentato: tutto dipende dalla sua morte. Perché lo fa?
In un testo del 1954, L’uomo in rivolta, Albert Camus ha fornito la chiave di volta per capire la ragione del suicidio: è il suicidio stesso la strada che permette all’attentatore di superare gli interdetti che proibiscono di uccidere uomini e donne innocenti. Il morire giustifica l’uccidere. In un dramma russo il protagonista, un attentatore suicida, dice a se stesso: “Se non morirò, allora sarò un assassino”. Stephen Holmes, citato da Marone nel suo studio, sostiene che la prontezza del suicidio è proporzionale al senso di purezza che questo atto produce: “La verità della causa è fissata dalla volontà dell’individuo di sacrificare tutto per essa”. Gli attacchi suicidi dal punto di vista psicologico si giustificano da sé. Con un paradosso molto convincente Camus scrive che la volontà di morire degli uccisori dimostrerebbe da sola la credenza nella giustezza della propria causa. Come il Barone di Münchhausen, il suicida si tira su da solo: si giustifica ampiamente in una sorta di circolo argomentativo che non ha bisogno di nessun’altra convinzione se non la propria; in altre parole, si alimenta di se stesso. Il sacrificio di sé è una ragione bastevole per giustificare l’atto di suicidarsi e al tempo stesso è, dal punto di vista psicologico, una giustificazione convincente, autoconvincente. La conclusione cui arriva lo scrittore francese è che il terrorismo suicida è psicologicamente più agevole del terrorismo mordi e fuggi. Solo chi è dentro questa visione paranoide può capire come funzioni perfettamente. La purezza ne è il primo tassello. Morire suicidi è la conferma della propria purezza. Contro queste motivazioni non c’è sistema logico che possa far breccia nella mente del suicida.
Quasi nessuno oggi si ricorda che una delle cause della sconfitta americana nel Vietnam sono stati gli attacchi suicidi dei Viet Cong, a partire dal novembre del 1967, attentati che non ottennero effetti devastanti dal punto di vista materiale, ma che invece agirono sia simbolicamente sia psicologicamente sui comandi e sul governo americano convincendoli a ritirarsi dal Vietnam. I giovani che si facevano esplodere non erano militari del Nord, o guerriglieri, ma giovani arruolati solo per questo scopo. Un esempio di questa politica sono state le “ondate umane” iraniane nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein durata dal 1980 al 1988; erano composte di migliaia di ragazzini che portavano al collo una piccola chiave con cui era stato detto loro dai predicatori religiosi avrebbero aperto le porte del Paradiso (ne parlo ampiamente nel mio libro L’età dell’estremismo, Guanda). Furono proprio questi ragazzini, che si lanciavano a migliaia contro le linee avversarie sotto il fuoco delle mitragliatrici, ad aprire la stagione della violenza suicida in medio Oriente: gli Hezbollah in Libano con le auto bomba, la Jihad islamica, Osama Bin Laden e l’attentato del 2001 a New York alle Twin Towers, sino ad arrivare ai questi giorni e al Califfato dell’Isis.
Ma torniamo ai ragazzi attentatori, ai sei giovanotti del Bataclan e a questi due che spingono il carrello nel fermo immagine della telecamera all’aeroporto di Bruxelles. Perché lo fanno? Gran parte degli studiosi, ricorda Marone, sostiene che non è possibile identificare un unico profilo psicologico degli attentatori suicidi. La maggior parte di loro non soffrirebbe di alcuna malattia mentale grave; sono per la maggior parte persone normali (Martha Crenshaw). Del resto, i loro reclutatori sono ben attenti a non selezionare persone “anormali”, sia per il loro aspetto, sia per il profilo psicologico, dal momento che darebbero troppo nell’occhio, e poi non sarebbero completamente affidabili per il compito assegnato. Secondo un altro studioso, Adam Lankford, i reclutatori cercherebbero invece di coinvolgere individui instabili psicologicamente più influenzabili. Una ricerca effettuata da una équipe di psicologi, diretta da A. Merari, sui candidati al “martirio” della Seconda Intifada (aspiranti suicidi che hanno fallito, che sono stati arrestati prima dell’attacco, altri che erano già stati reclutati in vista di un attentato) ha concluso che molti avevano dei disturbi mentali: personalità dipendenti, che soffrivano di senso di inadeguatezza e che avevano bisogno di conforto, con aspetti esplosivi del carattere ed emotivamente instabili, o anche con aspetti depressivi e sindromi post-traumatiche da stress.
Alla fine quello che affermano i ricercatori è che si tratta di personalità fortemente influenzabili, specialmente da parte di persone autorevoli. Il romanziere americano John Updike ha raccontato la storia di un giovane di origine egiziana che vive in America e diventa aspirante suicida in Terrorista (Guanda), delineando una personalità simile fortemente condizionata da un predicatore islamico. La maggior parte di questi ragazzi – e in questo includo quei giovani islamici che hanno sparato sui loro coetanei nella sala di Parigi – sono figure gregarie, dei marginali, seguaci, non certo dei leader. L’uomo con il cappello in testa che accompagnava i due giovani con il carrello e il guanto nero, e che ora tutte le polizie ricercano, era con ogni probabilità il loro “comandante”: non si è suicidato.
La maggior parte degli attentatori suicidi sono giovani. La loro età si aggira tra i 18 e i 30 anni. Walter Alquerque nel suo classico L’età del terrorismo (Rizzoli 1987) ritiene che il dato anagrafico sia l’unica cosa comune tra loro. La maggior parte non è sposata e non ha figli (il 90% degli attentatori suicidi palestinesi è single); la maggior parte appartiene al genere maschile. Spesso non provengono da classi proletarie, o sottoproletarie, ma a famiglie di buon un livello socioeconomico e posseggono un grado d’istruzione superiore alla media della popolazione da cui fanno parte (Marone). Se la mancanza d’istruzione e la povertà fossero cause, meglio concause, del terrorismo, il mondo sarebbe pieno di terroristi, ha scritto un economista. Ha in parte ragione. Basta pensare alla figura di Osama Bin Laden, uno dei capi del terrorismo suicida, che proviene da una delle famiglie più ricche dell’Arabia Saudita.
Atta, il capo del commando che si è schiantato contro le Torri Gemelle e il Pentagono, era un architetto, e aveva lavorato in uno studio d’ingegneria in Germania, dove si era perfezionato. Diego Gambetta e Steffen Hertog hanno esaminato in un loro studio 404 membri di “gruppi islamici violenti”, compresi attentatori suicidi, quasi tutti provenienti da paesi a maggioranza islamica, hanno rilevato che gli ingegneri sono in numero prevalente; un dato curioso che vale la pena di segnalare per capire il profilo dei “martiri”. I due studiosi hanno proposto due ipotesi per spiegarlo. Secondo la prima, la professione d’ingegnere espone nei paesi mediorientali a una serie di frustrazioni professionali ed economiche molto alte, dal momento che questo tipo di studi sono prestigiosi e impegnativi, e le aspettative di chi li intraprende alte; le frustrazioni subite produrrebbero perciò aggressività, risentimento, rancore, e faciliterebbero l’adesione ai gruppi terroristici. La seconda spiegazione mette in collegamento la “mentalità” acquisita nei corsi di studi in ingegneria inclinerebbe “alla chiusura cognitiva” ed è “più rigida tanto da favorire l’accettazione delle ideologie violente”. Inoltre c’è anche l’ossessione per la tecnica, stimolata da impulsi di sapore nichilista, che si ritrova in alcuni gruppi terroristici di matrice salafita-jihadista, simile, secondo Francesco Marone, al “culto” per la dinamite degli anarchici ottocenteschi.
Michael Ignatieff in Il male minore (Vita e Pensiero) parla di “sindrome di Erostrato”, dal nome del giovane greco che diede fuoco al tempio di Artemide a Efeso riducendolo in cenere per perpetuare il suo nome. Lo studioso e politico canadese tocca un punto sostanziale: la promessa seducente che il terrorismo e la violenza contengono, ovvero “trasformare una nullità umana in un angelo vendicatore”. Con ogni probabilità questa è una delle motivazioni più profonde del “martire” suicida: la fama postuma. Si tratta di un’affermazione estrema di sé, un atto che racchiude un potenziale narcisistico incommensurabile. Gustavo Pietropolli Charmet, che si è occupato a fondo di adolescenti aspiranti suicidi, ha messo in rilievo come in questo atto contro se stessi vi sia in effetti una componente molto forte di narcisismo; quasi un controsenso, mentre il ragazzo che tenta di suicidarsi, o vi riesce, compie un atto contro i propri cari, gli amici, l’ambiente sociale: Ecco cosa vi faccio! Una prova di amore di sé che sfocia in un gesto supremo.
Molte ricerche anche giornalistiche hanno mostrato come vi sia anche una ricompensa in termini di prestigio sociale, e anche economico, delle famiglie dei “martiri”, con tutti i riti del caso, dalla pubblicazione delle foto, onoranze, risarcimento economico e simbolico da parte della comunità di appartenenza o delle organizzazioni che hanno promosso l’atto suicida, cui corrisponde, nei territori occupati, l’azione dell’esercito israeliano che distrugge la casa dell’attentatore con Caterpillar, misura opposta e contraria.
Nella propaganda del “martirio” tutte le organizzazioni terroristiche islamiche tendono a porre in secondo piano le argomentazioni e le disquisizioni di ordine ideologico e teologico, scrive Marone, per lasciare lo spazio allo storytelling, a narrazioni concrete che possono produrre un forte impatto emotivo. In un’indagine dei filmati e delle biografie dei “martiri” degli jihadisti presenti in Iraq, un ricercatore, H. H. Hafez, ha rilevato che tre sono i temi principali per la costruzione delle storie: l’umiliazione e la sofferenza subite dai mussulmani per colpa della “alleanza crociata-sionista”; l’impotenza dei governi islamici complici delle potenze occidentali; la vittoria inevitabile dell’Islam “grazie al potere redentore della fede e del sacrificio attraverso il martirio”. Uno dei documenti più efficaci di questo storytelling sono state i testamenti dei “martiri”, videoregistrati e diffusi dopo l’attacco terroristico in cui hanno perso la vita. In questo modo si autorizza il suicidio dei prossimi “martiri”, e lo si trasforma in una forma socialmente condivisa, si crea un alone di “santità” intorno a chi si è sacrificato per la propria fede religiosa, anche se questa è stata evidentemente strumentalizzata; si giustifica l’esercizio della violenza, che di per sé può sempre provocare un senso di colpa, se esercitata verso bambini e donne, vittime innocenti. I “martiri” muoiono in nome di un sistema che si oppone a un altro presentato come ingiusto e blasfemo. Come ha scritto uno studioso, J. W. Lewis, “i martiri creano confini sociali”. Il che significa che i gruppi terroristici lavorano per “la costruzione sociale del martire”. Ci si può attendere che gli attacchi come quello di Bruxelles non cesseranno nel breve periodo, dal momento che questi confini sono stati tracciati all’interno del perimetro europeo.
Un’ulteriore questione, che spiega questo martirologio in apparenza senza fine, che continua da decenni, partendo dal Libano, passando per Israele, la Palestina, New York e le principali capitali europee, è quello della vendetta. Nei paesi occidentali questo sentimento è oggetto di un forte interdetto; quasi non se ne parla più, se non come un retaggio tribale, come movente che si manifesta in faide e in azioni di gruppi marginali della società, come è accaduto nel recente passato in alcune società del sud dell’Italia, o in organizzazioni criminali, sia in Europa che negli Stati Uniti o nell’America Latina. L’idea dell'”occhio per occhio, dente per dente” è oggi per lo più aliena alle strutture psicologiche degli individui, sebbene il sentimento vendicativo non sia mai del tutto sopito, a livello di individui e dei gruppi.
Per questo non è sempre facile capire come una delle motivazioni più forti del terrorismo suicida risieda proprio in questo desiderio di vendetta. Molti dei ragazzi che si sono fatti saltare in aria negli ultimi anni sono stati spinti a questo gesto estremo dal desiderio di ricambiare un danno o un torto subito da loro stessi, o più facilmente dalla loro comunità di appartenenza. Questo diventa vero nel caso di due comunità che si trovano coinvolte in un conflitto che dura da decenni e decenni. Il conflitto israelo-palestinese è a detta di tutti gli studiosi, e non solo loro, una delle fonti di queste ondate terroriste. Ma non c’è solo questo. Un esempio presentato da Marone nel suo libro riguarda la Cecenia e una donna, Kawa. Il marito, un militante del separatismo d’ispirazione jihadista, è stato torturato a morte dai soldati russi, e anche il padre ha perso la vita in un raid delle forze russe. In un’intervista rilasciata prima di tentare il gesto suicida, Kawa parla del suo sogno di farsi esplodere in Russia e di portare con sé nella morte il maggior numero possibile di russi. Ci sono molti altri esempi di questo desiderio di vendetta che figurano negli studi citati da Marone nel suo libro. In uno di questi, che riguarda un suicida, che è stato ispirato dalla morte di un bambino a Gaza, emerge persino l’elemento “altruistico”, che consente di trasferire attraverso il gesto estremo, la colpa sull’avversario, presentando il “martire” come una vittima. Questo è un altro dei temi importanti, il paradigma vittimario, che nel corso degli anni si è imposto come dominante, ed è ampiamente sfruttato da chi arruola ragazzi per gli attacchi in Europa.
Il sociologo Emile Durkheim nel suo studio sul suicidio (1897), uno dei primi pubblicati in Europa, parla di tre tipi di suicidio: egoistico, altruistico e anomico; i casi dei terroristi islamici rientrano nel secondo, dato che la narrazione costruita dai predicatori è proprio quella del gesto di generosità verso la propria comunità o gruppo di appartenenza: un aspetto su cui sarebbe il caso di tornare a riflettere e di agire per rompere questo pericoloso storytelling. Come mostra la vicenda del fondamentalismo islamico la simbologia religiosa risulta particolarmente adatta alla creazione di una cultura del “martirio”, dove compare l’idea del sacrificio come ben gradito alla divinità e adeguatamente ricompensato nell’al di là. La promessa del Paradiso è una componente non secondaria nella creazione della mentalità del suicida religioso; e non ci sono solo le religioni a proporlo come tale, ma anche tutto il martirologio, che ben conosciamo in Occidente, dell’eroe che si sacrifica per il bene della collettività. Nel mondo secolarizzato le religioni sembravano scomparse, oggi invece ritornano prepotentemente e questo è un aspetto con cui il pensiero laico occidentale, nato dall’Illuminismo, deve fare i conti. Un pensiero puramente razionalista, che ha espulso da sé ogni considerazione sull’importanza dell’irrazionalità nella esistenza degli individui, non basta.
I trasferimenti transnazionali, le migrazioni dal sud del mondo verso il nord, la crescita della de-territorializzazione impongono un’altra forma di pensiero nei confronti delle stesse religioni. James Hillman in un libro molto discusso, Un terribile amore per la guerra (Adelphi), ha mostrato come questo tipo di amore sia profondamente radicato nell’uomo, gli appartiene in profondità e non può essere semplicemente espulso. La lettura di questo libro come de I sommersi e i salvati (Einaudi) di Primo Levi ci possono aiutare a capire i moventi profondi della “violenza inutile” che abita oggi in modo irreparabile la nostra Europa.

di Marco Belpoliti

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