Disuguaglianze: lo spread sociale è quello che fa più male (Huffingtonpost.it)

di Roberto Sommella, del 7 Aprile 2019

Roberto Sommella

Disuguaglianze

Come ridurle, nel mercato e tra i consumatori

(Estratto da DISUGUAGLIANZE di Roberto Sommella. Rubbettino Editore, 14 Euro, pagg.176)

L’età del cambiamento sta trasformando tutti i rapporti di forza nella società e nell’economia. Si può essere ricchi, ricchissimi, più di un intero piccolo stato, come accade ormai alla fortuna personale dei padroni delle grandi multinazionali digitali, ma certo avere un patrimonio superiore a quanto prodotto da tutti i paesi è un unicum. Eppure questo limite è prossimo dall’essere oltrepassato. La ricchezza mondiale degli High Net Worth Individual (HNWI), ovvero coloro che possiedono investimenti superiori a un milione di dollari (esclusa la prima casa), insomma quelli che un tempo si dicevano Paperoni, ha superato nel 2017 per la prima volta la soglia dei 70 mila miliardi di dollari, con un aumento del 10,6% sul 2016 (era di 42,7 mila miliardi nel 2010), sesto anno consecutivo di boom. Esattamente, dollaro più dollaro meno, quanto vale l’intero Pil mondiale. E analogo fenomeno si registra in Italia, dove i nuovi ricchi sono aumentati del 9% in un anno e i poveri sono raddoppiati in un decennio.

Uno spread sociale enorme, quello che fa più male e che i governi faticano a ridurre. Nel frattempo il dispiegarsi della potenza di fuoco dell’economia digitale sta illudendo che si posa fare a meno del lavoro tradizionale. Il numero delle applicazioni è passato da 38.000 nel 2009 a 4 milioni nel 2015, il volume d’affari dell’economia condivisa nel 2008 valeva 1,9 miliardi di dollari e ora supera i 120 miliardi, nel 2020 negli Stati Uniti il 40% dei lavori sarà autonomo e in qualche modo legato alla rete. La nuova era poggia su un semplice assunto: la tua casa, la tua auto, il tuo appartamento, persino il tuo giardino, ti appartengono e da questi puoi trarne profitto. Ma allo stesso tempo se la rete fa emergere possibilità impensabili solo dieci anni fa, i nuovi giganti hi tech impongono modelli di business innovativi, rivoluzionari, travolgenti. Basti un esempio per capire cosa abbiamo davanti. La più grande azienda manifatturiera del mondo 50 anni fa era la General Motors, che per portare a casa 7 miliardi di utili occupava negli Stati Uniti 600.000 persone, oggi il suo scettro è stato preso da Apple, che macina profitti per 80 miliardi all’anno ma negli Usa dà lavoro solo a 80.000 addetti. La logica è chiara: sempre più capitale e sempre meno lavoro.

Gli esecutivi sembrano quasi impotenti di fronte ad un fenomeno che connota un’intera epoca, quella della rabbia e dello scontento, dell’esclusione sociale in cui rischiano di scivolare oltre cento milioni di europei. Così nella comunità internazionale si sta facendo strada l’idea che l’Antitrust e la sua cassetta degli attrezzi sanzionatori e di promozione della concorrenza, possa dare un serio contributo alla riduzione delle disuguaglianze. Reprimendo gli abusi di mercato, controllando la forza dei nuovi monopoli digitali, bloccando le pratiche commerciali scorrette a danno dei consumatori che si fanno sempre più sofisticate soprattutto quando operano grazie alla rete. Analizzare il lavoro dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in Italia permette di stilare una guida inedita ai piccoli e grandi abusi che si perpetrano a danno di imprese e cittadini. E così si scopre che dietro la grande truffa dei diamanti, su cui indaga la magistratura, c’è all’origine un’istruttoria Antitrust, che per prima ha sanzionato alcune imprese e altre banche per aver ingannato i risparmiatori, oppure che il Garante del mercato è intervenuto anche nel settore degli investimenti finanziari ad alto rischio, smascherando alcune pratiche commerciali scorrette “piramidali”, oppure fermando l’utilizzo dei prestiti “baciati”, collegati all’investimento in azioni di alcuni istituti di credito, o, ancora, multando alcune grandi multinazionali farmaceutiche per accordi sui prezzi di medicinali anti-tumorali.

L’azione volta a reprimere i cartelli o a sanzionare l’abuso di posizione dominante (in tantissimi settori, dalle telecomunicazioni all’agroalimentare fino al comparto farmaceutico), oltre a ristabilire il corretto funzionamento della concorrenza, che è il suo obiettivo principale, comincia perciò a rappresentare anche uno strumento di democrazia economica, perché prova a operare dalla parte dei soggetti più deboli e allo stesso tempo diventa un argine ai nuovi monopoli digitali in un contesto totalmente rivoluzionato. Questa azione ha risvolti mondiali perché tutti i paesi sono coinvolti dal grande cambiamento. Prova ne è il dibattito in corso negli Stati Uniti, dove si sta pensando di rimettere mano alla legge antitrust, la prima al mondo, il mitico Sherman Act, per affrontare Google, Facebook, Amazon e Apple come 130 anni fa si fece con i monopolisti delle ferrovie e dei pozzi petroliferi.

Non sarà un’operazione semplice, né scontata nei risultati, perché questi colossi sono ormai transnazionali e non solo americani. E perché in fondo potrebbe avere ancora ragione Abramo Lincoln: non puoi rafforzare il debole indebolendo il forte. Ma intanto la caccia ai nuovi monopoli è aperta e un raccordo tra tutti i vigilantes del mercato potrebbe essere utile.

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