“Piccole immagini di raso bianco”, il romanzo anti-ipocrisia di Manuela Petescia (primonumero.it)

di Monica Vignale, del 7 Marzo 2019

E’ una storia diretta, senza filtri né accomodamenti. Con una scrittura pulita, scorrevole, franca come la trama che si snoda tra amore, amicizia, maternità, matrimonio, famiglia, buio e luce. L’autore del romanzo è Manuela Petescia, direttore di Telemolise, un volto e una voce conosciuti ai più attraverso la principale emittente della regione, che in questa sfida lascia da parte la cronaca, congela analisi politiche e i problemi locali per cimentarsi con un puzzle di sentimenti e dinamiche intrecciate che fanno di “Piccole immagini di raso bianco” – edito da Rubbettino, in tutte le librerie – un romanzo d’esordio intrigante e dal sapore autentico, a tratti spiazzante per la scelta consapevole di mettere in soffitta ipocrisie, compromessi dettati da convenzioni sociali, falsi pudori.

Il protagonista è uno psichiatra affermato che a un certo punto della sua vita oltrepassa il “confine”, varca irrimediabilmente paletti e consuetudini per Dolores, una trentenne dal fascino dispotico, sospesa tra nevrosi e tenerezza, giovane madre con una infanzia oscura che è l’enigma principale del libro. Con lei il protagonista instaura un rapporto torbido che lo porta a sondare perversioni e traumi del passato, mentre tra balzi all’indietro e in avanti di un tempo raccontato lucidamente, tagliato nella prospettiva spietata della fotografia, i personaggi si muovono in un copione che riserva sorprese ma evoca anche le condanne esistenziali alla routine, la meschina pretesa di attribuire alle ossessioni, alle ripicche, ai mercimoni finanche, auree di nobiltà che si rivelano beffardi tentativi di autoassolversi.

Manuela Petescia, incuriosisce molto l’analisi che fa lo psichiatra sul vissuto di Dolores, come pure la terapia di guarigione. Non sembra un lavoro di fantasia, ma il frutto di uno studio approfondito, che poggia su competenze di psichiatria. E’ una materia che ti appassiona, si intuisce. Come mai?

“La materia mi ha sempre appassionato, fin da adolescente, e ho cercato di studiarla: Freud soprattutto (che fra l’altro era grande scrittore di suo), e ancora prima, a scuola, ero rimasta colpita dal titanismo del nostro Vittorio Alfieri, con le sue profonde radici nella psicanalisi, i legami fra il possente immaginario tragico e i suoi traumi infantili, il complesso edipico, l’angoscia dell’abbandono. Io ci sono arrivata, diciamo, intuitivamente. Poi ho scoperto che sul tema esistono studi e saggi letterari molto importanti”.

Come è nata l’idea alla base di “Piccole immagini di raso bianco”, e come l’hai maturata?

“Il punto di partenza erano certe esperienze di una mia amica d’infanzia. Ma si trattava, naturalmente, di una cosa molto vaga e nebulosa, poco più di un germe. E la letteratura, come si sa, fondamentalmente consiste proprio in questo: dare una forma estetica a qualcosa che si presenta in modo informe, magmatico. A questa idea di base si è unita la passione per la psicanalisi di cui parlavo prima. Ho cercato di lavorare molto sul personaggio del protagonista, la sua visione delle cose, le sue esperienze di docente universitario e di psicoterapeuta, la galleria dei suoi pazienti. E questo mi ha molto aiutato nella rappresentazione di quella che è, o via via diventerà, nel romanzo, la sua tragedia personale, il suo passare il confine, senza possibilità di tornare indietro”.

 

Colpisce moltissimo il fatto che il romanzo inizi con una violenza e termini con un atto d’amore che è anche violenza, ma potremmo anche dire con una violenza che è anche un atto d’amore. Il confine sembra labile, sfuggente, invece in mezzo c’è una vita intera, una grande passione e molta sofferenza. È possibile, secondo te, che amore e violenza condividano qualcosa?

“Gran bella domanda, il senso della vita. Assolutamente sì. Basti pensare alla prima violenza, quella del neonato strappato dal corpo, dalle viscere della madre. Nel romanzo, l’inizio è un gesto di violenza ingiusto, sbagliato, che il protagonista è il primo a rimpiangere, e a cercare di riscattare con una dedizione evidentemente sproporzionata, che alla fine diventa violenza nei confronti di se stesso, i propri studi, la propria professione, per non parlare della propria etica. Ma se questo è un romanzo “dissacratorio”, come hanno osservato in tanti, non poteva certo adagiarsi sull’idea che la violenza provenga solo dagli uomini”.

 

Affronti molti temi in questo libro, sondi diversi aspetti delle relazioni umane senza paura di addentrati nel buio. In tutto questo quanto c’entra la tua conoscenza dell’umanità dovuta alla professione di giornalista in un posto come il Molise? 

“Direi nulla. O almeno (per rientrare nella psicanalisi) non in forma consapevole. Anche se probabilmente il materiale non sarebbe mancato, visto il nostro mestiere, che ci porta ad osservare molto da vicino una società che forse è meno semplice e lineare di quello che potrebbe sembrare a prima vista. E non ha ancora trovato, mi pare, chi la racconti, come negli anni passati l’hanno raccontata Jovine, Rimanelli, o Felice Del Vecchio, meritatamente ricordato in questi giorni, anche da Telemolise, per i suoi 90 anni”.

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