Cultura d’impresa – La catena di montaggio delle idee (Libero Quotidiano)

di Riccardo Paradisi, del 27 Novembre 2013

da Libero Quotidiano del 27 Novembre

Tra la fondazione del Mast di Bologna e il Premio Marzotto per l’innovazione un libro celebra l’antico rapporto letteratura-industria. Nel nome di Olivetti.

«Spesso anche nel giudicare le istituzioni create a beneficio di chi lavora, si parla con dispregio di sistemi paternalistici dimenticando che i problemi sociali devono essere risolti, mentre pochi sono disposti a dedicare ad essi la loro attività ed i loro mezzi». Così scriveva Gaetano Marzotto nel 1951 in un libricino dal titolo “Le istituzioni sociali e ricreative”.
E spiegava il senso di un progetto urbano industriale come quello di Valdagno, nel nord della provincia di Vicenza, che si realizza tra il 1927 ed il 1944. Un esperimento urbanistico e sociale esportato anche in altre parti d’Italia, aggiornato e moderno rispetto alle limitate esperienze dei villaggi operai, immaginato per andare incontro alle esigenze sociali, ricreative e culturali dei lavoratori.
L’Olivetti del nord est è stato definito Marzotto e come l’ingegnere di Ivrea anche lui ha dovuto subire incomprensioni. La sinistra definiva «patronalsocialisti» questi uomini d’impresa – nel 1969 una manifestazione studentesca e operaia a Valdarno culminò con l’abbattimento della statua del conte Marzotto – mentre la destra reazionaria li chiamava «imprenditori rossi». Ma cosa sono l’impresa e il lavoro se non espressioni dello spirito e della cultura? E a cosa si riduce un’impresa se non immagina, non sperimenta, non innova e soprattutto non valorizza gli uomini che vi lavorano? Una tradizione che continua quella di Marzotto e prosegue nel progetto Marzotto e nell’ormai tradizionale premio che giovedì prossimo coronerà i finalisti in diverse sessioni: Impresa per il futuro, Per una nuova impresa sociale e culturale, Dall’idea all’impresa.
Ispirata ai principi della responsabilità sociale è sicuramente il Mast – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Bologna: un centro polifunzionale, ispirato dai più illuminati principi imprenditoriali e costruito per i collaboratori del Gruppo Coesia, leader nel settore delle macchine automatiche avanzate e della meccanica di precisione.
Voluto da Isabella Seràgnoli, Presidente di Coesia Group, MAST è un edificio di 25.000 mq con al suo interno vari servizi aperti all’azienda e alla comunità: una Gallery, una Academy per attività didattiche con tecnologie d’avanguardia, un auditorium per spettacoli – teatro, cinema, danza e convegni -, un Nido per l’infanzia. Nello spazio interno al Mast è in corso una mostra “I Mondi dell’Industria”, con la collezione di Mast di oltre 200 straordinarie fotografie sul mondo del lavoro dal Novecento ad oggi, curata da Urs Stahel, ex direttore del Foto Museum di Winterthur. Ma parliamo di isola d’eccellenza, la realtà complessiva del lavoro in Italia è molto diversa.
Il mondo del lavoro e dell’impresa è stato raccontato e descritto in Italia da autori come Ottiero Ottieri, Goffredo Parise, da Paolo Volponi, Primo Levi, Luciano Giulia Fazzi, Bianciardi che ne hanno fatto emergere le contraddizioni e spesso i drammi ma sempre dentro una cultura del lavoro, sempre cioè all’interno di una società dove il lavoro c’era ed elargiva senso e dignità a persone e famiglie, all’intera società.
Un orizzonte che rischia di chiudersi sulle teste delle nuove generazioni. E basta leggere un libro come “Letteratura e lavoro” di Paolo Chirumbolo (Rubbettino editore) per rendersi conto dello sgretolamento sociale portato dalla precarietà e dalla flessibilità sistemica, dal lavoro interinale, concepito a blocchi e singole prestazioni occasionali.
Mentre i nostri genitori potevano pensare in termini di traiettoria di vita, dice Chirumbolo, oggi prevale l’incertezza. Chirumbolo analizza la più recente narrazione sul lavoro da cui viene fuori un panorama di dissolvenza e di nevrosi. Da “La dismissione” di Ermanno Rea all’odissea degli operai del terzo millennio protagonisti dei romanzi “Acciaio” di Silvia Avallone e “Nicola Rubino è entrato in fabbrica” di Francesco Dezio. O a “Ferita di guerra” di Giulia Fazzi, dove è rappresentata la guerra contro un’intera generazione gettata nella voragine della disoccupazione e della precarietà. Un’Italia, questa, dove “Adriano Olivetti” è una fiction anche se una tradizione di impresa a responsabilità sociale come s’è visto non muore. La speranza è che da lì si riparta e che l’esempio sia contagioso.

di Riccardo Paradisi

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