#Grexit. Il “J’accuse” di Paolo Savona (StatoQuotidiano.it)

del 10 Luglio 2015

Da StatoQuotidiano.it del 8 luglio

La crisi greca conferma che l’architettura istituzionale europea è difettosa e le politiche economiche che da essa promanano non consentono di attuare gli obiettivi di sviluppo dettagliatamente previsti dall’art. 2 del Trattato di Lisbona. Questa è la tesi di fondo del pamphlet J’accuse edito da Rubbettino, in libreria da pochi giorni, nel quale Paolo Savona chiama in causa Juncker, Draghi, Padoan, Visco, il Governo italiano e la Banca d’Italia accusandoli della miopia con cui affrontano la crisi europea e invitandoli a prendere atto del vero problema e a impegnarsi a cambiare i modi d’essere delle istituzioni europee per la sopravvivenza dell’euro e dello stesso mercato comune. Una particolare sollecitazione è rivolta alla Banca d’Italia che ha perso il suo ruolo storico di orientamento delle scelte del Paese difendendo ossessivamente le politiche di riforma europee per rendere la nostra economia più competitiva, accettando senza reagire che un eccesso di risparmio pari a ciò che manca alla domanda interna, resti inutilizzato per vincoli posti alle nostre scelte dalle interpretazioni restrittive dei Trattati europei.
Facendo seguito alla sua diagnosi delle eresie e degli esorcismi della politica economica italiana, pubblicata nel 2012, sempre per Rubbettino, che ha raccolto molti consensi e ricevuto due riconoscimenti autorevoli, con questo nuovo pamphlet l’Autore traccia un quadro organico dei problemi urgenti che l’Italia deve affrontare al suo interno e in Europa. Egli muove tre J’accuse ai Governi che si sono succeduti dal 2008, data di inizio della crisi finanziaria mondiale: quella di aver trascurato di riaccendere il secondo importante motore della crescita italiana, le costruzioni, come hanno fatto gli Stati Uniti e la Germania; quella di considerare la crescita reale come il principale problema italiano, mentre lo è la spaccatura economica e politica tra il Nord e il Sud; quella di aver aumentato imposte e tasse per sanare la finanza pubblica, mentre le ha usate per accrescere la spesa pubblica primaria. Completano il quadro quattro lettere aperte destinate ai protagonisti della crisi – Juncker, Draghi, Visco, Padoan – e una rivolta al Governo e alla Banca d’Italia, invitandoli a cambiare obbiettivi perseguiti e strumenti usati al fine di invertire la traiettoria verso il sottosviluppo del Paese.
I tre “J’accuse” di Paolo Savona: 1. Non basta potenziare il motore delle esportazioni italiane per riavviare la crescita. Occorre riaccendere il motore parimenti importante delle costruzioni. 2. Il problema attuale del Paese non è la crescita, ma la spaccatura tra il Nord e il Sud priva di una politica che la ricucia. 3. Le tasse sono servite per finanziare maggiori spese, non per sanare la finanza pubblica.
Un corollario. Le pensioni e il reddito di cittadinanza. Ancora nuove spese senza una seria verifica della giustizia sociale.
La soluzione del problema dell’onere pensionistico non può continuare a realizzarsi attraverso trattamenti discriminatori che rendono lo Stato il più efferato violatore di contratti, dopo esserne il più severo giudice nel richiederne il rispetto, soprattutto se ne è diretto beneficiario. Per fare ciò occorre passare da un ricalcolo dei diritti pensionistici accumulati con le contribuzioni e da una semplificazione delle svariate forme di tassazione progressiva per evidenziare singolarmente l’esistenza di una negative income tax, soprattutto se si intende passare all’applicazione di un reddito di cittadinanza che non può prescindere da questa conoscenza. Allo stesso tempo deve essere consentito l’accumulo in esenzione fiscale di un ammontare massimo prefissato di risparmi, i cui redditi fungano da fondo integrativo pensionistico, come già accade nei paesi civili.
La lettera aperta a Junker. A Jean-Claude Juncker: l’euro va reso irreversibile, ma non nocivo. Lei non ha sentito la necessità di smentire il vice presidente del Parlamento Europeo, il ben noto Olli Rhen, che ha sostenuto che la partecipazione all’euro è irrevocabile per chi ha deciso di farne parte. Meglio così, perché è falso, tra i tanti fatti circolare dalle istituzioni europee nel tentativo di tagliare ogni discussione – e quindi ogni negoziato – su una indispensabile riforma dell’architettura istituzionale della moneta europea. L’art. 140 paragrafo 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, nella versione datane a Lisbona, non prevede l’irrevocabilità dell’euro, ma del rapporto di cambio stabilito all’atto della scomparsa della moneta nazionale: non si può cambiare questa parità se non uscendo dall’euro. Il problema, quindi, è quali conseguenze possono derivare al paese che decide di abbandonare l’eurozona: non è difficile prevedere che nascerebbe un contenzioso legale internazionale difficile da gestire, ma non impossibile da condurre; comunque indispensabile. Se così fosse la Commissione, questa volta con il coinvolgimento del Parlamento, dimostrerebbe la sua ennesima incapacità di capire quale sia il problema e come si può risolvere. Gli Stati Uniti abbandonarono la convertibilità del dollaro in oro e convocarono un negoziato a Washington da cui emerse lo Smithsonian Agreement, che consentì di affrontare la loro traumatica decisione, ma ribadì il diritto sempre riconosciuto ai paesi firmatari di un Trattato internazionale di invocare una clausola di salvaguardia. Naturalmente il giudizio che i mercati e gli altri paesi danno di una tale decisione dipende dalla fondatezza della scelta: quella degli Stati Uniti era il “paradosso di Triffin”, ossia la possibilità di convertire crescenti ingenti quantità di dollari in oro a prezzi fissi. Per l’euro credo basti il “paradosso della deflazione con disoccupazione” per un Trattato che aveva come presupposto di ottenere l’opposto; sulla natura paradossale della crisi creata da istituzioni sbagliate esiste un consenso crescente (ma tardivo contrariamente al paradosso di Triffin) da parte degli economisti ed analisti. Se l’Unione Europea non decide di dare vita a uno Stato sovranazionale e non intende svolgere un ruolo attivo nella soluzione della crisi greca, insistendo nell’invocare invece vincoli e inviare minacce di punizioni, la situazione potrebbe uscire fuori controllo. Ovviamente per colpa della Commissione e della miopia della Germania e di pochi altri paesi che la pensano nello stesso modo che non intendono cambiare architettura istituzionale dell’Europa.
La Commissione Europea non ha diritto di legiferare in materia di Trattati. Può dire la sua, ma non modificarne il contenuto. Se non è d’accordo sul testo non dica falsità come quella che l’euro non sia revocabile come se fossero scritte su tavole di pietra come le leggi di Mosè. Convochi invece immediatamente una riunione dei Capi di Stato e di governo per avviare una modifica dei contenuti dei Trattati (sarebbe un Atto Unico n. 2). Se ha soli dubbi interpretativi, ricorra alla Corte di giustizia europea per una corretta interpretazione. Tuttavia, qualsiasi sia il responso, ogni paese membro dell’euroarea manterrebbe il diritto di uscire dal sistema, se lo valuta necessario per tutelare i suoi interessi che l’UE non tutela. L’oggetto dei trattati è pace e benessere. E sia ben chiaro che questi obiettivi non sono esplicitati in modo generico negli accordi europei, ma in modo dettagliato. Si rilegga per favore l’art. 2 del Trattato di Lisbona che dovrebbe governare la sua azione.
Se le borse mondiali reagiscono negativamente alla sola ipotesi di un’uscita della Grecia dall’euro, ossia senza che lo abbia ancora richiesto, e se la Cancelliera Merkel ha sentito la necessità di escludere che la Grecia possa farlo, come sembrava pensare il contrario dalle dichiarazioni di un portavoce del suo Governo, sono la conferma che la Grecia può farlo, ma lo si vuole escludere, perché l’evento, se non governato, può creare problemi ben più gravi alla stabilità dell’intera UE e della stessa Germania. L’annuncio che la Merkel visiterà Cameron per prevenire un’uscita dall’Unione indica che il meccanismo si è messo in moto e si cerca di frenarlo come al solito a chiacchiere e con accordi o concessioni bilaterali. Se l’UE continua a dare “aiutini” ai paesi in difficoltà, come finora fatto, senza risolvere il problema di fondo dell’incapacità di affrontare crisi come quella della Grecia a causa dell’inadeguatezza dello Statuto della BCE e della sua visione di un’Europa matrigna, ottiene solo il risultato di tamponare la situazione, ma lascia aperto il ripetersi delle stesse crisi fino alla deflagrazione del sistema. L’apertura ufficiale di un negoziato per individuare i modi per rendere l’euro irreversibile, ma non nocivo, e il suo cambio con le monete nazionali che sono in esso confluite irrevocabile è ormai indispensabile per placare definitivamente i giusti timori del mercato sulla moneta europea. Un passo importante appare quello di autorizzare la BCE a operare liberamente e in modo indipendente sul mercato, come chiede Draghi, in titoli di Stato, ma non ancora per il cambio dell’euro, come invece sarebbe necessario. Può l’Europa tollerare, ad esempio, che la Svizzera acquisti euro (come peraltro fa o faceva la Cina) fissando il cambio con il franco svizzero a 1,20, con la BCE che assiste passiva a che un’altra banca centrale o un paese estero fissino aspetti della sua politica monetaria e dei terms of trade dell’eurozona? Tra l’altro Draghi sarebbe libero di finanziare il suo piano, illustre Presidente, se lei veramente ci tiene come dovrebbe, invece di ipotizzare una soluzione finanziaria inefficace come quella proposta o di costringere i paesi a ricercare deroghe al patto di stabilità fiscale per attuarlo a livello nazionale? Se propiziasse una tale iniziativa i cittadini europei e il mercato globale capirebbero che la Commissione sta facendo sul serio.

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