Il grande flop della giustizia italiana al cinema (Libero Quotidiano)

di Giuseppe Pollicelli, del 30 Aprile 2013

Da Libero Quotidiano del 30 aprile 2013

Avversatore intransigente del giustizialismo in tutte le sue incarnazioni e degenerazioni, Guido Vitiello, firma del Foglio e docente universitario, ci ha deliziati pochi mesi or sono con un nutriente libello – edito da Liberlibri ed entusiasticamente prefato da Giuliano Ferrara – costituito da quattro fitte conversazioni con altrettanti «veterani del garantismo», da Corrado Carnevale a Mauro Mellini.
Adesso sposta la sua attenzione sul cinema di casa nostra e, in veste di coordinatore di contributi altrui (cui non manca, tuttavia, di affiancarne uno proprio, al solito di notevole spessore), manda in libreria il saggio In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano (Ed. Rubbettino, pp. 180, euro 16). Alla base del volume vi è un ben preciso quesito, a cui Vitiello e collaboratori tentano di dare risposta: perché, in Italia, il cinema non è stato capace di dare vita a un courtroom drama (cioè, appunto, a un filone cinematografico composto da film ambientati nelle aule giudiziarie) analogo a quello sviluppatosi negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in altri Paesi dell’area anglofona? Quel courtroom drama che ispirò a Enzo Tortora la seguente, amara considerazione: «Io sono convinto che gli italiani abbiano della giustizia un’idea ricavata esclusivamente dai telefilm polizieschi inglesi o americani, ambientati in una bella aula di tribunale, tutta in acero, con un giudice in parrucca, sempre calmo, sereno, molto cortese…»? Di tutte le «spiegazioni» avanzate, appare particolarmente convincente quella fornita dallo stesso Vitiello in un passaggio del suo lungo intervento, che funge anche da introduzione al libro.
A proposito di una delle sequenze di In nome della legge di Pietro Germi (1948), quella in cui il pretore Schiavi scende di fatto a patti con il capomafia Turi Passalacqua, riuscendo solo in tal modo a imporre – almeno formalmente – la giustizia dello Stato in luoghi in cui vigono «leggi non scritte» che poco hanno a che fare col diritto, Vitiello osserva: «Forse non si è fatto caso a sufficienza a un aspetto essenziale: l’improvvisato processo convocato dal pretore Schiavi – l’unico in cui riesca a far valere una qualche autorità – non ha luogo in un’aula di tribunale, ma in uno spazio extralegale, la piazza del paese. È questa la sola sede “informale” in cui una parvenza di ordine civile riesce ad affermarsi, pur senza distruggere l’antico ordine, anzi facendoselo alleato.
Se la legge trionfa, insomma, non è nel luogo deputato alla legge». E in realtà, aggiungiamo noi, se viene trattata in luoghi che non le sono preposti (un tempo le piazze di paese, oggi i media, la rete, la politica), la legge non trionfa mai. Trionfa semmai la deformazione della legge, la sua (tragica) caricatura, che può di volta in volta assumere le sembianze del giustizialismo o dell’idolatria del cavillo.
Gli altri saggi del libro non sono meno interessanti e allargano il discorso alla tv, alla fiction e alla letteratura. Per citarne alcuni, Andrea si occupa del rapporto tra giustizia e commedia all’italiana, soffermandosi su classici come Un giorno in pretura (1954) di Steno, Divorzio all’italiana (1961) di Germi e il più tardo Tutti dentro (1984) di Alberto Sordi, film profondamente sordiano (nel senso di qualunquista) ma anticipatore, con esattezza quasi inquietante, dei tragici giorni di Mani Pulite; Anton Giulio Mancino scandaglia il cinema di Damiano Damiani; Andrea Minuz mette a confronto due pellicole del 1971, Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy («Più che il cosiddetto emblema dell’italiano attorno a cui si è edificata l’epica della commedia nazionale, Sordi rappresenta qui anche il cittadino anonimo, triturato da un impietoso meccanismo giudiziario») e In nome del popolo italiano di Dino Risi, in cui si colgono le prime avvisaglie di un importante passaggio storico, quello che ha visto il diritto trasformarsi nello strumento principe con cui supplire alle carenze di una politica debole; Giovambattista Fatelli analizza il poliziesco all’italiana, meglio noto come «poliziottesco», il genere forse più rappresentativo del cinema commerciale italiano degli anni Settanta.
Occorre notare, a questo riguardo, come anche gli eroi dei poliziotteschi, a torto o a ragione, si sentano costretti a operare (negli anni del terrorismo politico e dell’aumento esponenziale della microcriminalità) ai margini o addirittura al di fuori delle leggi dello Stato, che avvertono come inefficaci poiché spesso applicate – o disapplicate – in modo tale da non tutelare il cittadino bensì altri interessi, per lo più corporativi e di casta. Dal pretore Schiavi fino al commissario Tanzi interpretato da Maurizio Merli, è come se il cinema italiano avesse voluto ribadire che il nostro è il Paese del diritto ma anche del rovescio: da qui l’impossibilità di un nostro courtroom drama.

Di Giuseppe Pollicelli

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