10, 100, 1000 cinepanettoni (Studio)

di Michele Masneri, del 29 Marzo 2013

Da Studio del 28 marzo 2013

Ecco finalmente una Fenomenologia del Cinepanettone, in libreria da pochi giorni per Rubbettino, opera dello studioso dell’università di Leeds Alan O’Leary, che con approccio strutturalista racconta questo strano genere in decadenza, “visto da tutti e amato da nessuno”, rigettato pure dai suoi creatori (“mi fa ribrezzo la parola, è una cosa che mi fa schifo”, Enrico Vanzina), vittima perenne di incomprensioni e letture politiche: qui qualche esempio diverte e spiega anche la lettura dei fenomeni culturali italiani con le critiche indignate degli intellettuali sui giornaloni (e il razzismo nei confronti degli spettatori): Francesco Piccolo su Repubblica: “Sono venuto altre volte al cinema Adriano, e ho incontrato persone che conoscevo. Oggi, 26 dicembre, no. Oggi è il giorno in cui tutti vanno al cinema; quindi, quelli che ci vanno sempre, non ci vanno. 
Ci sono persone di tutti i tipi, dai bambini di otto anni ai nonni che scendono le scale accompagnati dai figli o nipoti. Ci sono soprattutto gruppi di coppie (due, tre o quattro coppie) di ogni età, e le donne sopra i cinquanta sembrano avere come segno distintivo la pelliccia; gruppi di amici adolescenti, in particolare maschi; famiglie al completo, con nonni e senza, e soprattutto in numero di quattro, genitori e due figli, di solito un adolescente e un bambino. La caratteristica dei miei vicini è che tre su quattro (tranne la ragazza) sono molto grassi”.
Grassezza e pellicce, naturalmente poi la conclusione è una sola: a fine 2011 Curzio Maltese scrive: “Il crollo di incassi del cinepanettone di Natale […] è forse il primo e più clamoroso segno della fine dell’epoca berlusconiana. Il cinepanettone sta al ventennio berlusconiano così come i «telefoni bianchi» stanno al ventennio fascista. […] Le anomalie, politica e cinematografica, hanno viaggiato in parallelo dall’inizio degli anni ’90 fino a ieri, per crollare di schianto insieme”.
Dunque un genere che si tramanda di generazione, che “ha radici profonde”, che è in grado di creare nostalgie istantanee, come il suo corrispettivo balneare (cinepedalò?).
Mah. Più interessante smontare i meccanismi del Cinepanettone: a partire dal primo di una lunga serie, quel Vacanze di Natale del 1983, diretto da Carlo Vanzina e scritto insieme al fratello Enrico e modellato su Vacanze d’inverno, un film del 1959 di Camillo Mastrocinque con Alberto Sordi e Vittorio De Sica. Dunque un genere che si tramanda di generazione, che “ha radici profonde” come scrive O’Leary, che è in grado di creare nostalgie istantanee, come il suo corrispettivo balneare (cinepedalò?) di Sapore di Mare, uscito pure nel 1983 (che annata!) e che darà vita poi a una genia quasi infinita – Vacanze di Natale ’90, Vacanze di Natale ’91, Vacanze di Natale ’95, Vacanze di Natale 2000, e Vacanze di Natale a Cortina, solo per rimanere nell’ambito del cinepanettone in purezza e a km zero, mentre poi nascono tutta una serie di sottogeneri (dai Pompieri, ai Due Carabinieri, a Yuppies e Yuppies 2), e poi il Canone si afferma soprattutto nel nuovo secolo tanto che O’Leary definitivo stabilisce che “il termine cinepanettone può con buona approssimazione riferirsi ai film diretti da Neri Parenti e prodotti dalla Filmauro a partire dal 2000”.
Gli ingredienti sono molteplici: “I film si svolgono (almeno fino al 2010) in località straniere da sogno, e quasi tutti hanno titoli composti dalla formula Natale+preposizione+località, anche se l’aspetto natalizio è più spesso lasciato sottinteso, tanto che la maggior parte dei film mostra chiaramente di essere stata girata durante l’estate o a inizio autunno”. Ricette stantardizzate: “Caratteristica tipica del cinepanettone del nuovo secolo è la trama costruita su storie parallele (o, alle volte, anche su tre percorsi), e incentrata, fino a Natale a Miami (2005), su Massimo Boldi e Christian De Sica”, fino al penoso divorzio. “Spesso i momenti più spassosi dei film sono quelli in cui i personaggi di Boldi e De Sica finalmente si incontrano; di solito questo avviene in uno spazio ristretto, come in bagno, in uno spogliatoio o in una doccia”.
Il corpo di Boldi in particolare appassiona O’Leary, per cui il comico lombardo impersona perfettamente il topos del corpo carnevalesco di Mikhail Bakhtin, secondo cui “L’accento è messo su quelle parti del corpo in cui esso è aperto al mondo esterno, in cui cioè il mondo penetra nel corpo o ne sporge, oppure in cui il corpo sporge sul mondo, quindi sugli orifizi, sulle protuberanze, su tutte le ramificazioni ed escrescenze: bocca spalancata, organi genitali, seno, fallo, grosso ventre, naso”. Un esempio della corporeità boldiana è quando in Natale sul Nilo(2002, record storico di incassi, 28 milioni di euro al botteghino), Boldi impersona un generale dei Carabinieri in vacanza in Egitto, che in preda a un attacco di dissenteria grazie al suo aiutante napoletano Biagio Izzo trova finalmente un rotolo di carta igienica adatto – “Venti piramidi di morbidezza” – salvo poi scoprire che si tratta delle bende di una fondamentale statua, che si decompone sotto gli occhi affranti dei turisti.
“A papà, a te t’ha fregato er benessere. Facevi er capomastro? Mo’ hai fatto i soldi. M’hai mandato in America, a New York! Noi semo de Frascati!”
De Sica invece, col suo essere fatto di specchi – citazioni di Vittorio e di Alberto Sordi, birignao sempre più estremizzato – rappresenta la crisi del “maschio bianco eterosessuale italiano”, aprendo la serie Vacanze di Natale con un personaggio gay (uno dei primi nel cinema italiano) e con una doppia lettura di machismo-omosessualità che accompagnerà il suo personaggio in tutte le rappresentazioni: prima arriva baldanzoso con la fidanzata americana (“dichiarare il secondo”), poi viene trovato a letto col maestro di sci  Sartolin. “De Sica è una figura che ha la licenza di operare ai margini dell’ideale di mascolinità fissato dalla norma, in tal modo rivelandone la sua arbitrarietà” scrive O’Leary. (Di fronte ai genitori burini perplessi De Sica attacca peraltro una disamina sugli anni Ottanta che vale anche come critica sociale forse più acuta di quelle degli stroncatori degli stessi cinepanettoni: “A papà, a te t’ha fregato er benessere. Facevi er capomastro? Mo’ hai fatto i soldi. M’hai mandato in America, a New York! Noi semo de Frascati!”).
Altro ingrediente, la colonna sonora: anche qui, Vacanze di Natale inventa un genere, con 17 canzoni-tormentone dell’anno (il 1983) a volume più alto della media, che da lì in poi costituiranno un tratto distintivo del cinepanettone, oltre a costituire – altra caratteristica – quell’effetto-nostalgia che è parte integrante del cinepanettone. La musica ha un uso preciso: “le canzoni sono valutate per il loro potere di connotare piuttosto che di denotare: sono apprezzate non tanto per il loro significato, quanto per le esperienze che rievocano. In particolare, per quanto riguarda il film queste stesse esperienze sono rappresentate dalle scene, dai gesti o dai personaggi che le canzoni accompagnano: «I like Chopin», per esempio, viene associata a Jerry Calà e al suo personaggio di pianista sciupafemmine, mentre sia «Moonlight Shadow» che «Vita spericolata» si sovrappongono alle immagini delle piste da sci, che hanno una funzione più che altro spettacolare anziché narrativa”. Le canzoni danno al film la glassatura industriale; il sapore amaro di quelle madeleine che si trovano negli autogrill e nei supermercati, che sanno di mandorla artificiale: del resto Vacanze di Natale non è malinconico oggi, era già malinconico quando uscì nel 1983, per non parlare del suo corrispettivo idrico, Sapore di mare, che instilla la nostalgia per gli anni Sessanta nel 1983, come se arrivati a un secondo boom si dovesse già rimpiangere il primo, forse perché (saggiamente) riconoscendolo come industrialmente più fondato o in preveggente attesa di futuri economici da paese di serie B e tangentopoli in arrivo.
Ogni spettatore ha la sua parte, e ogni target di pubblico ha la “sua” battuta: per questo ci sono gli arricchiti, c’è il nobile decaduto, c’è sempre una varietà di dialetti molto marcati, almeno un napoletano e un toscano sempre.
Altro ingrediente ancora: la socialità. Il cinepanettone non va visto da soli: in tv sono rari i passaggi, i noleggi non sono mai andati bene e volutamente sono stati boicottati dai produttori. Il cinepanettone, il genere che “fa divertire tutti e non piace a nessuno”, che molti guardano di nascosto, come votando Berlusconi, va visto in sala, le battute sono e devono essere contagiose; il cinepanettone è un prodotto da consumarsi in gruppo, come una partita (forse perché da soli immalinconisce troppo). È un effetto voluto e studiato, come un carnevale (ancora Bakhtin), e non a caso si tiene solo una volta all’anno. È uno spettacolo in cui ogni spettatore ha la sua parte, e ogni target di pubblico ha la “sua” battuta: per questo ci sono gli arricchiti, c’è il nobile decaduto, c’è sempre una varietà di dialetti molto marcati, almeno un napoletano e un toscano sempre: “Calibrato per rivolgersi a gruppi diversi, in modo che (in teoria almeno) ogni parte del pubblico abbia in sequenza la risata assicurata, contagiando così il resto del pubblico e trasformando la risata in universale e continua. La presenza di molteplici destinatari mette in difficoltà la valutazione critica, in quanto i criteri che si usano non sono spesso e volentieri adatti, perché basati su un’idea di testo come oggetto unitario e coerente, mentre il cinepanettone è una forma centrifuga pensata per attirare l’attenzione incostante dei suoi diversi tipi di spettatori”. Il cinepanettone è “una sorta di totem che serve a riunire tutti contro qualcuno” (Massimo Ghini).
Il saggio di O’Leary poi contiene poi un ricettario degno di MasterChef su come si assembla il cinepanettone anche nei suoi aspetti pratici: soggetto e sceneggiatura la decidono i produttori, come quasi tutto il resto. Le ragioni di alcune scelte tra cui quella della location sono particolarmente interessanti e vengono spiegate nel libro dagli stessi protagonisti (Luigi De Laurentiis: “Si legge la prima stesura della sceneggiatura verso fine aprile, primi di maggio, metà maggio. E da lì poi c’è un grande lavoro dove ci si risiede qui a questo tavolo12, sceneggiatura alla mano, dove ci sono tutti gli input miei e di mio padre, scena per scena, e si danno a loro tutte le varie note, quindi dalla prima stesura si arriva fino alla nona, alla decima, perché si riscrive molte volte. Mentre loro scrivono io parto, diciamo che verso maggio è sempre più o meno il mese del primo viaggio. Vado da solo, faccio tutta una serie di incontri con il paese stesso, con un production service locale, che sarà la persona che mi aiuterà a mettere in piedi l’operazione dal punto di vista produttivo. Vado a vedere le curiosità, cerco in dieci giorni di solito di assorbire tutto il possibile, tutto ciò che non è stato assorbito via internet”. Neri Parenti: Luigi o chi per lui vede quali sono le situazioni sia meteoro- logiche, ma anche di possibilità di service, di produzione, di rientro del’Iva, costo dei materiali, costo della mano d’opera… Così come tra il Sudafrica e il Madagascar, sempre avrebbe vinto il Sudafrica per un fatto di avere in seno un’organizzazione cinematografica, mentre in Madagascar non c’è niente).
Tutto questo e molto altro, nel saggio di O’Leary, che si legge naturalmente come un Cinepanettone, e che però, se in premessa afferma di volersi distanziare dalla “fenomenologia di Mike Bongiorno”, opera ovvia di Umberto Eco, e cioè da un atteggiamento di alterità rispetto al soggetto studiato, qui non convince del tutto. La “scena” iniziale del saggio, con l’Autore in una saletta del cinema Reale di Trastevere, praticamente unico spettatore, ad assistere a Vacanze di Natale a Cortina (2012), oltre a ricordare immagini di viceré britannici ad assistere a cerimonie di popolazioni sottosviluppate, insospettisce. Il modesto scrivente ha visto lo stesso cinepanettone negli stessi giorni in un invece affollatissimo cinema Moderno, sempre Roma, nella popolare piazza Esedra. Semmai, pochi spettatori italiani in sala ma quasi tutti cinesi, e lì si è avuta l’illuminazione: che forse l’umorismo ormai post del cinepanettone, coi suoi umorismi, con le sue sociologie, con le sue classi sociali che ormai non esistono più, sia diventato un formidabile mezzo di assimilazione culturale, e insegni un po’ l’italiano, come del resto fece proprio Mike Bongiorno nel Dopoguerra. (E come direbbe il fratello della prostituta Delia in Parigi o Cara, film di Luigi Caprioli del 1962, accusato di cinepanettonismo, “Che non l’hai visto mai, un cinese?”).

Di Michele Masneri

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